Archives: Settembre 28, 2021

Novità della nuova terapia con cladribina

La sclerosi multipla è una patologia demielinizzante cronica del sistema nervoso centrale (SNC) caratterizzata da infiammazione e degenerazione assonale. La malattia esordisce intorno alla 2°-4° decade di vita e risultano esserne affette maggiormente le donne con un rapporto F:M di 3:1. L’incidenza della patologia varia nelle varie regioni del mondo raggiungendo valori di circa 700 mila persone affette in Europa [1].

Dal punto di vista terapeutico, ad oggi, non è disponibile un trattamento curativo per la sclerosi multipla ma le correnti strategie terapeutiche hanno come obiettivo la riduzione del rischio di ricadute e della potenziale progressione della disabilità [2]. Un concetto recente nel trattamento della sclerosi multipla è la non evidence of disease activity, o NEDA. Questo si è sviluppato dalla consapevolezza che le ricadute cliniche sono solo la punta dell’iceberg in termini di attività di malattia della sclerosi multipla.Gli obiettivi NEDA, gold standard della terapia della sclerosi multipla, sono rappresentati da: assenza di recidive e progressione clinica (NEDA 1-2), assenza di attività infiammatoria alla MRI (NEDA-3) [3].

Le terapie si suddividono classicamente in DMT (disease-modifying therapies) che tendono a essere specifiche per la sclerosi multipla e terapie sintomatiche che spesso sono usate per trattare i sintomi derivanti dalla disfunzione neurologica. Ad oggi le terapie DMT possono essere distinte in: MET (terapie di mantenimento/escalation) o IRT (terapie di ricostituzione del sistema immune). Le terapie MET si suddividono a loro volta in immunomodulanti (interferone beta, glatiramer acetato, terifluromide) e immunosoppressive (fingolimod, natalizumab, dimetilfumarato, ocrelizumab). Le terapie IRT si dividono in SIRT, cioè IRT che selettivamente colpiscono il sistema immune adattativo, che comprende la cladribina, e le NIRT ossia IRT che colpiscono sia il sistema immune innato sia il sistema immune adattivo, che comprendono l’alemtuzumab. Attualmente la strategia terapeutica IRT è la più vicina a una potenziale cura per la sclerosi multipla [3].

Cladribina è un potente immunosoppressore orale efficace contro le ricadute della sclerosi multipla e l’accumulo di lesioni a livello cerebrale, è approvato per il trattamento di adulti con sclerosi multipla recidivante altamente attiva. Cladribina è un analogo del nucleoside purina ed è capace di attraversare la barriera emato-encefalica agendo da inibitore della sintesi del DNA e della riparazione delle cellule altamente proliferative, inducendo la morte delle cellule B e T [4]. I suoi effetti sulle cellule T sono meno pronunciati e meno duraturi se comparati agli effetti sulle cellule B.

Sia le cellule B sia le cellule T rivestono un ruolo complesso nella immunopatologia della sclerosi multipla, in quanto attivano una cascata di citochine infiammatorie e anticorpi diretti contro vari componenti del sistema nervoso centrale. Le cellule T e B attivate determinano la produzione di altre citochine proinfiammatorie nel siero e nel liquido cerebrospinale, aumentando i livelli di chemochine, l’espressione della molecola di adesione e la migrazione delle cellule mononucleate. L’attivazione dei linfociti B è correlata alla formazione di bande oligo-clonali IgG, le quali sono un marker nel liquor molto utile per la sclerosi multipla. Cladribina smorza queste risposte immunitarie prendendo di mira l’immunità attiva. Il farmaco, clinicamente e radiograficamente, riduce il carico di malattia nelle persone che sono affette da sclerosi multipla [5,6].

Cladribina è un trattamento orale caratterizzato da una somministrazione di 3,5 mg/kg di farmaco, suddiviso in 1,75 mg/kg all’anno, si tratta dunque di un farmaco che prevede una posologia adattata al body mass Index (BMI) del paziente. I due cicli di trattamento sono separati da dodici mesi. Il primo ciclo consiste in una somministrazione del farmaco per quattro o cinque giorni consecutivi, seguiti da una dose equivalente somministrata per quattro o cinque giorni consecutivi nel secondo mese. Il secondo ciclo di cladribina segue di dodici mesi il primo ciclo con lo stesso dosaggio e frequenza. Il trattamento deve essere iniziato solo nei pazienti che hanno un ALC normale (conta linfocitaria) e il trattamento nell’anno 2 deve essere somministrato solo a pazienti con grado 0 o 1 linfopenia (ALC ≥0,8 × 10^9 cellule/L). Il ciclo dell’anno 2 può essere posticipato fino a 6 mesi per consentire il recupero dei linfociti, ma se il recupero richiede più di 6 mesi il paziente non dovrebbe ricevere ulteriori cicli [7].

La linfopenia associata al trattamento si manifesta durante la fase di deplezione, seguita da un ritorno della normale conta linfocitaria dopo diversi mesi. Contrariamente alla terapia con alemtuzumab, l’effetto di cladribina sulle cellule del sistema immune innato è più limitato. La conta linfocitaria è monitorata regolarmente prima, durante e dopo la terapia [8].

Gli esami di laboratorio richiesti prima di considerare cladribina orale come DMT per la sclerosi multipla comprendono: l’emocromo completo con conta differenziale, pannello metabolico completo, screening dell’HIV, pannello dell’epatite virale, test di gravidanza e QuantiFERON-TB. I medici devono anche monitorare attentamente la storia farmacologica del paziente; i pazienti non devono assumere cladribina con altri agenti immunosoppressori. Una volta che il paziente con sclerosi multipla inizia a prendere cladribina, dovrà sottoporsi a un esame emocromocitometrico completo con conta cellulare differenziale monitorata ai mesi 3 e 7 dopo ogni ciclo di cladribina nei due anni successivi [9].

I più importanti effetti avversi di cladribina includono la linfopenia e le infezioni (in particolare da herpes zoster). I pazienti con sclerosi multipla non dovrebbero assumere cladribina se sono affetti da cirrosi epatica, insufficienza renale cronica, HIV o tubercolosi. Altre controindicazioni includono una storia di utilizzo di immunosoppressori, come ciclofosfamide, azatioprina, metotrexato o mitoxantrone. I pazienti devono necessariamente osservare una stretta aderenza alla contraccezione prima, durante e dopo aver assunto cladribina. I pazienti maschi devono prendere precauzioni per prevenire la gravidanza della loro partner durante il trattamento con cladribina e per almeno 6 mesi dopo l’ultima dose. È possibile avere una gravidanza o allattare 6 mesi dopo l’ultima somministrazione del farmaco [10].Gli effetti di cladribina su pazienti sotto i 18 anni sono sconosciuti e questa giovane popolazione dovrebbe evitare di assumere questo trattamento [9,11].

Risulta utile anche la valutazione delle opinioni dei pazienti circa le varie opzioni terapeutiche. Cladribina rappresenta il trattamento orale maggiormente valutato positivamente. Gli elementi presi più in considerazione da parte del paziente nella scelta di un farmaco tra le varie opzioni terapeutiche, tralasciando la modalità di assunzione, sono rappresentati dalla frequenza del monitoraggio richiesto e gli effetti collaterali che ne possono derivare. Chiaramente, l’utilizzo effettivo di DMT riflette non solo le preferenze del paziente per le caratteristiche del DMT, ma anche le linee guida e le preferenze del medico [12].

La terapia pulsata di ricostituzione del sistema immune come la cladribina è un’opzione come terapia iniziale nei pazienti con SMRR con un’alta attività di malattia che, in pazienti non trattati, può essere definita come due o più recidive nell’ultimo anno, e in pazienti in trattamento con un’altra DMT, come due o più recidive o una ricaduta e un’attività MRI significativa. Tuttavia, la terapia di ricostituzione immunitaria pulsata potrebbe anche essere considerata come la terapia iniziale nella SMRR precoce con fattori prognostici negativi e malattia attiva dall’inizio (non solo i pazienti con due recidive nell’anno precedente, ma anche i pazienti con una ricaduta con recupero incompleto associato a nuove o miglioramento delle lesioni in MRI). Se è stata decisa la terapia di ricostituzione immunitaria pulsata, la scelta tra alemtuzumab e cladribina deve essere basata su un rapporto rischio/beneficio. L’efficacia potenzialmente più elevata di alemtuzumab rispetto a cladribina, sebbene ancora solo ipotetica in quanto non sono stati effettuati studi diretti, va a scapito di eventi avversi più frequenti e gravi. Sulla base dei dati pubblicati, l’evidenza dell’efficacia a lungo termine sta aumentando da cladribina ad alemtuzumab. L’induzione di NEDA-3 a lungo termine con terapia di ricostituzione immunitaria pulsata potrebbe almeno essere un’ottima possibilità in alcuni pazienti, se la terapia viene somministrata all’inizio del decorso della malattia. Attualmente manca ancora l’esperienza con risultati a lungo termine per queste terapie e si dovranno affrontare studi di follow-up a lungo termine [10].

Source: Fondazione Serono SM


Predittori di disabilità cognitiva in sclerosi multipla: un approccio di machine learning

Il deterioramento cognitivo è una manifestazione comune e disabilitante in corso di sclerosi multipla (SM), esercitando un impatto significativo sulle attività quotidiane e la qualità della vita dei pazienti. Deficit cognitivi vengono descritti in una percentuale variabile dal 34% al 65% dei pazienti con SM, a seconda dei criteri utilizzati per la definizione del deterioramento cognitivo [1,2]. Il deterioramento cognitivo è stato descritto in tutte le fasi di malattia conclamata, dalla sindrome clinicamente isolata (clinically isolated syndrome, CIS, deterioramento cognitivo osservato nel 20-25% dei casi), alle forme recidivanti-remittenti (RR, deterioramento cognitivo osservato nel 30-45% dei casi) e secondariamente progressive (SP, deterioramento cognitivo osservato nel 50-75% dei casi), mentre i dati relativi alle forme primarie progressive (PP) sono meno conclusivi per la presenza di pochi lavori con ridotta numerosità campionaria [1].

L’esordio del deficit cognitivo può essere acuto (se si realizza in corrispondenza di una ricaduta) o insidioso, sviluppandosi gradualmente nel tempo. I domini più frequentemente implicati sembrano essere la velocità di elaborazione delle informazioni, l’apprendimento e la memoria, mentre meno frequentemente si osserva un coinvolgimento delle funzioni esecutive e visuospaziali. Più recentemente è stato descritto un deficit della fluenza semantica nei pazienti in età più avanzata (superiore ai 50 anni) [3]. Tuttavia, parallelamente a quanto accade per la disabilità motoria, la disabilità cognitiva mostra un’elevata variabilità interindividuale. Le forme a esordio pediatrico non fanno eccezione, mostrando, in sovrapposizione alle forme a esordio in età adulta, una compromissione prevalente della velocità di elaborazione delle informazioni e della memoria, cui si associano una compromissione dell’intelligenza verbale, un ritardo nell’acquisizione delle competenze cognitive e un più rapido declino in età adulta, oltre a una peculiare dissociazione tra stato cognitivo e disabilità motoria [1]. Anche se tale dissociazione è tipica delle forme pediatriche, anche nell’adulto deficit cognitivi possono instaurarsi in condizioni di stabilità clinica e radiologica di malattia [4].

La presenza di deficit cognitivi può essere rilevata anche in fase preclinica, in pazienti con sindrome radiologicamente isolata (radiologically isolated syndrome, RIS) [5], e, in soggetti sani, è predittiva di conversione a SM a breve e lungo termine [6]. Nelle forme benigne di SM (EDSS <3 dopo 15 anni di malattia), i deficit cognitivi sono associati a un maggior rischio di disabilità a medio e lungo termine (5 e 12 anni) [7,8]. Tale valore predittivo si conferma nelle forme RR, dove deficit cognitivi al basale, e in particolare deficit della velocità di elaborazione delle informazioni e della memoria verbale, risultano predittivi di conversione a SP e raggiungimento di un EDSS pari a 4,0 [9] e nelle forme a esordio precoce (età inferiore ai 25 anni) dove basse capacità di elaborazione delle informazioni al basale sono associate a un maggior rischio di progressione della disabilità a 7 anni (incremento di 1 punto dell’EDSS) [10].

Data la rilevanza clinica del deterioramento cognitivo, grande interesse riveste l’approfondimento dei suoi correlati strutturali e funzionali. A tal fine, un recente lavoro ha identificato i pattern di danno associati a diversi profili di deterioramento cognitivo, identificando, in soggetti con prevalente deficit della memoria verbale e della fluenza semantica, una maggiore atrofia ippocampale rispetto ai pazienti SM con abilità cognitive conservate [11]. Altre associazioni venivano identificate tra i profili “lieve coinvolgimento multidominio”, “coinvolgimento severo delle funzioni attentive ed esecutive”, “severo coinvolgimento multidominio” e la presenza di atrofia corticale, elevato carico lesionale e atrofia diffusa [11]. L’identificazione di diversi profili cognitivi, sottesi da diversi substrati biologici, apre la strada alla possibilità di sviluppare approcci terapeutici mirati e personalizzati, nell’ottica di un patient-tailored treatment. L’applicazione clinica di questa (o altre) classificazioni tuttavia presuppone la possibilità di poter attribuire al singolo paziente l’appartenenza a una specifica classe o profilo. Tale possibilità potrebbe concretizzarsi nel prossimo futuro grazie all’applicazione di metodiche di machine learning non supervisionato. Tali metodiche sono in grado di modellare la progressione di malattia sulla base di variazioni osservate in biomarcatori di scelta, non necessitando di informazioni cliniche a priori o della definizione di valori soglia nei singoli biomarcatori [12]. Tali metodiche sono state recentemente applicate nell’ambito delle patologie neurodegenerative del sistema nervoso centrale [12,13] e hanno mostrato risultati promettenti quando traslate nel campo della SM allo scopo di caratterizzare la sequenza delle modifiche clinico-radiologiche in corso di SM [14] o applicate alla classificazione dei fenotipi SM guidata da parametri di RM [15].

Particolarmente promettente tra le metodiche di machine learning non supervisionato è l’algoritmo SuStaIn [13], che è in grado di identificare, a partire da caratteristiche estratte da esami di RM, sottotipi distinti caratterizzati da traiettorie di progressivo accumulo di danno in specifici biomarcatori. I punti di forza di tale algoritmo sono costituiti dalla possibilità di arrivare alle definizione dei sottotipi sulla base di dati trasversali, e sulla sua capacità di assegnare l’esame RM del singolo paziente a uno specifico sottotipo e stadio lungo la traiettoria identificata. L’applicazione di un algoritmo di tale natura consentirebbe di classificare, sulla base di un singolo esame RM, ogni paziente come appartenente a uno specifico sottotipo caratterizzato da un peculiare pattern di atrofia, fornendo nel contempo informazioni circa la posizione del paziente nell’ambito dell’evoluzione temporale del singolo sottotipo (stadio più precoce o più avanzato della traiettoria evolutiva di uno specifico pattern di atrofia), contribuendo alla possibilità di predire l’outcome clinico a lungo termine, stratificando prognosticamente il paziente e facilitando così l’applicazione di interventi terapeutici personalizzati.

Source: Fondazione Serono SM


Ho la sclerosi multipla: la difficoltà di comunicare agli altri la malattia

Comunicare agli altri la propria malattia è una difficoltà frequente, che spesso nasconde una più complessa resistenza, quella di parlare con se stessi.

Sono tante le persone affette da sclerosi multipla che si nascondono, evitano di parlare della propria malattia oppure la confessano solo alle persone più intime, genitori o partner, ma faticano o hanno timore di dirlo a datori e colleghi di lavoro e anche agli amici.

Temono di essere incontrati nei Centri di Sclerosi Multipla e arrivano perfino a rifiutare di partecipare a gruppi terapeutici, psicoeducativi o a incontri di associazioni.

Queste persone raccontano di avere ancora paura di essere stigmatizzate o di subire ripercussioni sul lavoro, pensano che il partner potrebbe arrivare a lasciarli, così come gli amici a evitarli.

Eventi spiacevoli e spesso traumatici come quelli riportati possono accadere: subire ingiustizie o annullamenti anche da parte di chi si ama è possibile, ma molto spesso dietro al timore di essere attaccati c’è la sofferenza di chi si trova a fronteggiare una diagnosi di patologia cronica e neurodegenerativa.

È pensabile che il disagio o la vergogna siano dovute prevalentemente e più profondamente al problema di accettare la malattia.

Accettare etimologicamente sta a significare prendere con un fine, con intenzione, come a sottolineare il carattere attivo di questa azione. Ricevere una diagnosi di malattia non è solo un evento che subiamo passivamente, accompagnato da emozioni negative. Ricevere e ancor più accettare una diagnosi implica un impegno della persona ad integrare questo nuovo fatto nella quotidianità, al fine di mantenere una qualità di vita soddisfacente.

Questo passaggio è estremamente complesso e vale la pena approfondire alcuni concetti chiave per comprendere al meglio quale potrebbe essere l’atteggiamento più funzionale da adottare, per superare questa fase critica.

I sentimenti che accompagnano la comunicazione di una diagnosi di malattia come la sclerosi multipla sono spesso la tristezza, la rabbia e l’ansia, accompagnate da un certo grado di stress psicofisico. È normale vivere queste emozioni, sarebbe altrettanto dannoso fingere di non provarle o arrivare a uno stato di dissociazione, cioè di disconnessione dai propri pensieri, tale da non sentirle.

Viviamo in un mondo che fatica a tollerare la sofferenza, che pensa gli uomini e le donne come invincibili e dunque il primo passaggio è proprio quello di rifiutare questo stereotipo e vivere le sensazioni più critiche e forti che si possono scatenare in conseguenza a certi “lutti”.

Accettare autenticamente una malattia equivale a provare un sentimento di lutto, nel senso di perdita o profondo cambiamento del proprio stile di vita, delle aspettative, dei progetti futuri e dell’immagine che si ha di sé; e il lutto necessita di tempo per essere elaborato.

Vivere con il proprio dolore è segno di un corretto rapporto con la realtà e ci permette, con il tempo adeguato, di reagire grazie alla vitalità: un concetto importantissimo che va ben oltre la comune accezione di forza muscolare o agilità fisica, essa è caratteristica costitutiva dell’essere umano [1] e ha un ruolo cardine per la costituzione dell’affettività, altro aspetto interessante di cui parleremo più avanti.

Hayes e Wilson definiscono l’accettazione come “la resa nella futile lotta per fermare i pensieri automatici e intrusivi sulla malattia”, “la sosta nella ricerca di una soluzione definitiva per i sintomi fisici” [2]. Questo approccio non vuole rattristare ulteriormente la persona ma spingerla a indirizzare le proprie energie e i propri affetti verso altri o nuovi obiettivi e progetti, vuole rimettere al centro l’individuo nella sua bella complessità e non tenere sempre il focus sulla malattia, che invece rischia di assorbire ogni pensiero e attività.

È confermato da molti studi, uno dei quali di Krats et al. del 2013 [3], che la maggiore accettazione della propria situazione di vita si associ a una minore depressione e a una migliore qualità di vita.

Quest’ultimo concetto, la qualità di vita o più specificatamente la health-related quality of life (HRQoL) cioè la qualità stessa in riferimento alla salute, è di fondamentale importanza in campo sanitario, poiché restituisce al paziente la sua soggettività: ogni evento o intervento medico è valutato in base a come viene percepito dalla persona in questione.

L’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) al riguardo proponeva nel 1995 la seguente definizione: “la qualità di vita è la percezione dell’individuo della propria posizione nella vita nel contesto dei sistemi culturali e dei valori di riferimento nei quali è inserito e in relazione ai propri obiettivi, aspettative, standard e interessi” [4].

Fondamentale per reagire in ogni situazione critica che la vita ci riservi è l’insieme dei valori culturali e personali che ogni individuo si è costruito, insieme al proprio grado di affettività: “la capacità di investire con interesse, curiosità e sapienza la realtà umana propria e altrui” [5].

La Psicologia moderna affronta questo aspetto di reazione utilizzando il concetto di coping, cioè il modo in cui le persone rispondono e fronteggiano le situazioni avverse e stressanti, quali risorse si è in grado di mettere in campo per gestire richieste esterne (provenienti dall’ambiente) o richieste interne (della persona) particolarmente complesse. Gli sforzi introdotti per gestire lo stress costituiscono il coping, un processo adattivo e dinamico che media la continua interazione tra ambiente e individuo e che dovrebbe condurre alla modificazione del significato, attribuito inizialmente all’evento negativo. Alcune persone tentano di affrontare e dominare l’evento, compiendo azioni per intervenire sul problema; altre si concentrano prevalentemente sulle emozioni, sforzandosi di modificare l’impatto emozionale negativo dell’evento. Queste diverse modalità rappresentano i diversi stili di coping, che ognuno possiede.

Una terza strategia, meno funzionale, descritta da Endler e Parker (1990) è quella “centrata sull’evitamento”, un modo per distanziarsi dall’evento ignorandolo o costruendo espedienti, come ad esempio negare la malattia e i suoi sintomi agli altri [6].

Lo studio di Ahlstrom e Sjoden (1996) ci ha dimostrato però come una strategia di coping di non accettazione correli negativamente con la qualità di vita. Evitare o dissimulare il problema non lo risolve e soprattutto non aiuta a sentirsi meglio o a mettersi al riparo da altre situazioni spiacevoli [7].

Ma allora come riuscire ad affrontare al meglio il cambiamento di vita che la diagnosi di sclerosi multipla porta, mantenendo una qualità di vita soddisfacente?

Alcuni presupposti psicologici utili per attivare strategie di coping funzionali sono: l’ottimismo, cioè la capacità di valutare ogni aspetto della situazione, cercando di trarre “insegnamenti” e di crescere nel fronteggiare la criticità; il senso di padronanza degli eventi, il non sentirsi totalmente sopraffatto e impotente; una buona autostima e il supporto sociale, inteso come la sensazione di far parte di una rete su cui fare affidamento.

La comprensibile difficoltà di comunicare agli altri la malattia, che abbiamo visto nasconde in sé una più profonda accettazione dell’evento e delle conseguenze che esso può comportare o che si teme potrebbero sopraggiungere, altro non è che una strategia disfunzionale di reazione. Un comportamento frequente, che porta però ad allontanarsi dagli altri e dal sentirsi parte di una rete sociale e che rischia di indebolire la nostra affettività, nucleo centrale della capacità di reagire e del sapersi reinventare.

Source: Fondazione Serono SM


Impiego dell’esoscheletro in un malato di sclerosi multipla

In Italia è stato valutato l’utilizzo dell’esoscheletro in un malato di sclerosi multipla primariamente progressiva. I risultati sono stati incoraggianti e l’esperienza verrà ripetuta in altre persone affette dalla malattia.

Nell’introduzione al loro articolo Sesenna e colleghi hanno ricordato che la sclerosi multipla è una malattia neurodegenerativa caratterizzata da un’alterata trasmissione degli stimoli nervosi, dovuta a danni a carico della mielina. Vari sono i sintomi della malattia dovuti a una ridotta efficienza della funzione motoria: spasticità, alterazioni del cammino, carenza di coordinazione, incapacità di mantenere la postura e debolezza muscolare. La sclerosi multipla richiede una gestione multidisciplinare della quale fanno parte protocolli di fisioterapia e riabilitazione. Tali protocolli includono vari approcci, da allenamenti ad alta intensità nelle forme lievi, allo yoga, a esercizi mirati a migliorare il bilanciamento. Fra le soluzioni più all’avanguardia c’è l’utilizzo di esoscheletri. Queste sono strutture basate su una tecnologia che permette, a una sorta di telaio che sostiene la persona, si seguire movimenti in base a specifici comandi. Al di là di aiutare malati con gravi disabilità di recuperare la capacità di muoversi, l’impiego dell’esoscheletro è considerato un approccio innovativo di riabilitazione, in base all’ipotesi che la ripetizione di movimenti orientati possa stimolare meccanismi di recupero funzionale nel midollo spinale. Inoltre, l’impiego del dispositivo permette di aumentare la durata totale dell’allenamento riducendo la necessità della presenza continua del fisioterapista. Il caso riportato da Sesenna e colleghi è quello di un malato di 71 anni al quale era stata diagnosticata una sclerosi multipla primariamente progressiva già nel 2012 e che aveva un valore di EDSS di 6. È stato sottoposto a 10 sessioni di fisioterapia con l’esoscheletro, compresa una introduttiva, della durata di 1 ora e mezza ciascuna, programmate due volte alla settimana. Tali sessioni sono state associate a sedute di fisioterapia convenzionale, una volta alla settimana. Non essendo disponibili protocolli di questo tipo già applicati in malati di sclerosi multipla, si è fatto riferimento a uno usato in persone con paraplegia. L’esoscheletro impiegato, prodotto da un’azienda italiana, fornisce un sostegno motorizzato agli arti inferiori con articolazioni artificiali alle anche, alle ginocchia, alle caviglie e ai piedi. Esso permette di allenare al cammino, scaricando completamente le gambe dal peso, ed è guidato da un programma che gestisce i movimenti. Nel corso delle sedute con l’esoscheletro sono stati raccolti numerosi riscontri mediante test standardizzati e sono state misurate variabili come pressione arteriosa e frequenza cardiaca. La prova ha dato esiti positivi, confermati dall’aumento della distanza cammino e dal miglioramento di altri parametri registrati.

Nelle conclusioni gli autori hanno evidenziato che, pur trattandosi dell’esperienza raccolta in un unico caso, le informazioni ottenute sono state molto promettenti circa il futuro impiego dell’esoscheletro in percorsi di riabilitazione di malati con sclerosi multipla.          

Source: Fondazione Serono SM


Disfunzioni gastrointestinali nella sclerosi multipla

Uno studio eseguito in uno dei Centri di gastroenterologia più avanzati al mondo, quello della Clinica Mayo di Rochester nel Minnesota (USA), ha esplorato i sintomi relativi alle malattie gastroenteriche e le alterazioni della motilità dei malati di sclerosi multipla. I risultati hanno dimostrato alterazioni dello svuotamento dello stomaco, del transito delle feci nell’intestino e dello svuotamento del retto.

La sclerosi multipla si associa spesso a sintomi indicativi di alterazioni della funzione dell’apparato urinario e anche di quello gastroenterico. Khanna e colleghi hanno eseguito uno studio per valutare queste ultime disfunzioni in persone con sclerosi multipla recidivante remittente o progressiva. Sono stati selezionati 166 soggetti con sclerosi multipla diagnosticata da neurologi esperti di questa malattia, attingendo a un archivio denominato Advanced Cohort Explorer (esploratore avanzato della coorte). Tutti sono stati sottoposti a valutazioni standardizzate dello svuotamento gastrico, del transito nell’intestino e della motilità di ano e retto presso la Clinica Mayo fra il 1993 e il 2020. Le variabili analizzate sono state: la quota di svuotamento dello stomaco 1 ora, 2 ore e 4 ore dopo il pasto, il tempo di transito del materiale digerito e delle feci nell’intestino tenue e nel colon (come centro geometrico) a 24 ore e a 48 ore e il tempo di espulsione di un piccolo pallone dal retto, come indice dell’efficienza dell’evacuazione. I risultati ottenuti da tali valutazioni nei malati di sclerosi multipla sono stati confrontati con quelli raccolti in 319 soggetti sani per lo svuotamento gastrico e in 220 controlli sani per il tempo di transito intestinale, usando, come livello normale questa variabile, il quinto percentile. Lo svuotamento gastrico è stato definito rallentato se era di meno del 25% a 2 ore o del 75% a 4 ore. Uno svuotamento gastrico accelerato è stato diagnosticato in caso di svuotamento del materiale solido dallo stomaco superiore al 50% a 1 ora oppure per la combinazione di una percentuale di svuotamento dello stomaco superiore al 25% a 1 ora e al 79% a 2 ore. Una stipsi da rallentato transito intestinale è stata associata a un centro geometrico del tempo di transito misurato inferiore a 1.3 a 24 ore, inferiore a 1.9 a 48 ore o per una differenza, tra il centro geometrico a 48 ore e quello a 24 ore, inferiore a 0.3. Infine, i risultati della valutazione della funzione motoria del retto sono stati espressi come: tempo assoluto di espulsione di un piccolo pallone inserito nel retto compreso fra 0 e 60 secondi o superiore a 60 secondi o superiore a 3 minuti. La casistica analizzata aveva un’età media di 57±12.65 anni, una durata della malattia di 21.41±12.81 anni e per l’83% era costituita da femmine. Le forme di sclerosi multipla avevano le seguenti frequenze: recidivante remittente in 89 soggetti (54%), progressiva in 45 (27%) e non definite in 30 (18%). L’esame dello svuotamento gastrico è stato eseguito in 165 casi. Uno svuotamento accelerato è stato osservato nel 10% dei casi con sclerosi multipla recidivante remittente e nel 22% di quelli con forme progressive. Un rallentamento dello svuotamento gastrico era presente nel 17% dei malati con forma recidivante remittente e nel 16% di quelli con forme progressive. La stipsi è stata individuata nell’83% dei casi. In 81 malati che avevano questo problema sono stati studiati anche lo svuotamento gastrico e il tempo di transito intestinale: in 27 era rallentato lo svuotamento gastrico e in 11 il tempo di transito intestinale. La funzione motoria del retto è stata studiata in 28 persone con stipsi ed è stato individuato un aumento del tempo di espulsione del pallone: di 103.10±74.80 secondi. Nel mese precedente alle valutazioni della funzione dei vari tratti dell’intestino erano stati registrati almeno due episodi di incontinenza fecale nel 28% dei malati di sclerosi multipla e l’11% di questi aveva un accelerato svuotamento dello stomaco. Il 70% del totale della casistica aveva riferito incontinenza di urine. La maggior parte (80%) di chi aveva sintomi di alterata funzione della vescica aveva anche stipsi o incontinenza fecale.

Nelle conclusioni gli autori hanno evidenziato che, nella loro casistica di malati di sclerosi multipla, si sono osservati ritardo e accelerazione dello svuotamento gastrico, rallentamento del transito intestinale e alterazioni dei meccanismi di evacuazione delle feci associati sia a sintomi gastrointestinali che a manifestazioni a carico dell’apparato urinario.                   

Source: Fondazione Serono SM