Archives: Dicembre 22, 2021

Interruzione dei trattamenti e progressione della disabilità nella sclerosi multipla

Specialisti statunitensi hanno eseguito uno studio per valutare l’effetto sulla progressione della disabilità dell’interruzione delle cure con i farmaci modificanti la malattia. I risultati hanno indicato che, anche nei casi con malattia stabile, l’interruzione delle terapie ha determinato un peggioramento e una progressione della disabilità in una percentuale rilevante di soggetti.

I malati di sclerosi multipla con malattia stabilizzata, non percependo peggioramenti, a volte considerano non necessario continuare l’assunzione dei farmaci modificanti la malattia e la interrompono. D’altra parte, le Linee Guida, che pure forniscono indicazioni su tanti aspetti del trattamento, non ne danno di altrettanto dettagliate sugli effetti dell’abbandono delle cure. Per questo motivo, Jakimovski e colleghi hanno eseguito una ricerca che ha verificato l’evoluzione del quadro clinico dopo l’interruzione delle cure, in persone che avevano la sclerosi multipla da molti anni. Da un archivio denominato Consorzio della Sclerosi Multipla dello Stato di New York (New York State MS Consortium: NYSMSC) sono stati estratti 216 casi di soggetti che avevano abbandonato l’assunzione di farmaci modificanti la malattia e, in seguito, non avevano ricominciato ad assumerli. Tutti erano stati sottoposti ad almeno tre controlli per un periodo totale medio di 4.6 anni. L’andamento stabile della malattia è stato definito in base al mancato cambiamento, dal basale all’abbandono delle cure, del punteggio della EDSS. La stabilità è stata confermata per aumenti inferiori a 1.0 punti, se l’EDSS di partenza era inferiore a 6.0, o per aumenti di meno di 0.5 punti, se l’EDSS al basale era superiore o uguale a 6.0 punti. Sia le persone che continuavano ad avere un quadro stabile, sia quelle con peggioramenti sono state rivalutate dopo l’interruzione della terapia. Analisi ulteriori sono state fatte tenendo conto della forma di sclerosi multipla, del tipo di cura, dell’età dei soggetti, inferiore o superiore a 55 anni, e del punteggio di EDSS al basale, inferiore o superiore a 6.0. Della casistica considerata, 161 soggetti (72.5%) sono stati classificati come stabili prima dell’interruzione della cura. Dopo l’abbandono,53 persone (32.9%), che prima avevano quadri stabili di sclerosi multipla, hanno sviluppato un peggioramento e una progressione della disabilità. In particolare, il peggioramento è stato rilevato nel 29.2% dei casi con sclerosi multipla recidivante remittente e nel 40% di quelli con malattia secondariamente progressiva. A due anni dall’abbandono del trattamento, la frequenza di peggioramenti con progressione della disabilità è stata simile nelle persone più giovani o più anziane di 55 anni: 31.1% rispetto a 25.9%. Nei casi che al basale avevano una EDSS maggiore o uguale a 6, rispetto a quelli con un livello più basso di EDSS, la disabilità è peggiorata di più sia prima, che dopo l’interruzione della terapia: 40.7% rispetto a 15.4% (p<0.001) e 39.6% rispetto a 15.2% (p<0.001). Nelle conclusioni gli autori hanno evidenziato che, anche nei malati di sclerosi multipla con un quadro stabile della malattia, l’interruzione dell’assunzione delle cure ha determinato un peggioramento e una progressione della disabilità in una percentuale importante di soggetti, a prescindere dall’età e dalla forma della malattia. Tale peggioramento è stato più evidente nei casi con EDSS al basale maggiore o uguale a 6.0.                    

Source: Fondazione Serono SM


Trattamento e pianificazione della gravidanza nelle donne con sclerosi multipla

La sclerosi multipla (SM) è una malattia autoimmune demielinizzante e degenerativa del sistema nervoso centrale (SNC). La SM ha tipicamente un decorso iniziale recidivante-remittente (RR), con episodi di danno infiammatorio del SNC che di solito si risolvono, almeno parzialmente. Circa il 5-15% dei pazienti ha invece un decorso progressivo dall’esordio, noto come forma primariamente progressiva (PP) [1]. La SM viene in genere diagnosticata tra i 20 ei 40 anni e più comunemente nelle donne rispetto agli uomini. Il rapporto tra i sessi nella SMRR è in costante aumento dagli anni ’50 ed è di circa 3:1 [2,3]. Pertanto, la malattia è sproporzionatamente gravata sulle donne in età fertile. 

Storicamente, le donne con SM erano scoraggiate dall’avere figli. Questa visione è cambiata dalla fine degli anni ’90, a seguito dello studio sulla gravidanza nella SM (PRIMS). Lo studio PRIMS ha dimostrato che l’attività di recidiva diminuisce durante la gravidanza, specialmente nel terzo trimestre, sebbene aumentasse dopo il parto [4]. Questo risultato è stato replicato in numerosi studi che mostrano che tra il 14 e il 31% delle donne sperimenta una ricaduta nei primi 3 mesi dopo il parto [4-7]. In coorti di SM più recenti, questo rischio di recidiva post-partum può essere attenuato [8]. Gli studi non hanno identificato un chiaro impatto della gravidanza stessa sulla disabilità a lungo termine [9,10], sebbene le ricadute associate alla gravidanza abbiano probabilmente un impatto [11]. Negli ultimi 20 anni, sono disponibili nuove terapie modificanti la malattia (DMT), insieme a una serie di equivalenti generici. Dieci classi di DMT sono ora disponibili per la SMRR [12]. Ocrelizumab (OCZ), una terapia anti-CD20 per la deplezione delle cellule B, è diventato il primo farmaco approvato per la SMPP [13]. L’introduzione di terapie più efficaci ha portato alla stabilizzazione della malattia in pazienti precedentemente refrattari alle terapie disponibili e a un aumento di donne con disabilità moderata che tentano una gravidanza [7,14,15]. 

Non tutte le terapie per la SM sono indicate nelle donne che pianificano una gravidanza a causa della potenziale teratogenicità. Sebbene possa sembrare sensato interrompere la DMT nelle donne che pianificano di concepire, la prolungata mancata assunzione del farmaco può portare alla ricomparsa dell’attività della malattia. La gestione delle donne con SM in età fertile richiede quindi un piano che preveda la pianificazione della gravidanza, la gravidanza e il periodo post-partum. Devono essere presi in considerazione l’attività della malattia, l’impatto della sospensione della terapia e gli effetti della terapia sul feto, insieme a decisioni per l’allattamento al seno. Esamineremo le opzioni di trattamento farmacologico durante la pianificazione della gravidanza, durante la gravidanza e dopo il parto nelle donne con SM.

Trattamento farmacologico durante la pianificazione della gravidanza e durante la gravidanza

Quando si discute del trattamento della SM nelle donne in età riproduttiva, l’argomento dovrebbe includere la discussione sulla sicurezza del DMT prima e durante la gravidanza. Poiché le ricadute in genere diminuiscono durante la gravidanza, la maggior parte delle donne è in grado di interrompere in sicurezza il trattamento. Il rischio di recidiva è più alto nel primo trimestre di gravidanza, che dovrebbe essere preso in considerazione quando si programmi l’interruzione della DMT. Le donne con SM più attiva o in terapia con DMT con rischio di riattivazione della malattia dopo l’interruzione devono pianificare attentamente il trattamento prima della gravidanza per ridurre il rischio di recidiva. Come regola generale, per evitare la teratogenicità, un farmaco deve essere interrotto almeno 5 emivite massime prima del concepimento. Tuttavia, dati recenti, sebbene limitati, hanno consentito una valutazione più specifica della sicurezza del DMT durante la gravidanza. La maggior parte dei dati sull’esposizione nel primo trimestre sono disponibili per i farmaci iniettabili, inclusi glatiramer acetato (GA) e interferone-beta (IFN-beta), risultati sicuri fino al concepimento. Ci sono meno dati disponibili sull’esposizione durante la gravidanza, poiché la maggior parte delle donne interrompe il DMT quando viene a conoscenza della gravidanza nel primo trimestre. Sulla base dei dati, è probabile che GA sia sicuro per tutta la gravidanza. 

L’Associazione Europea dei Medicinali (EMA) e la Food and Drug Administration (FDA) hanno recentemente aggiornato i dati per IFN beta-1a indicando che non vi è alcun aumento del rischio con l’esposizione all’inizio della gravidanza negli esseri umani, e l’EMA specifica che questa molecola può essere usata durante la gravidanza [16,17]. Sono previsti aggiornamenti dell’FDA per altri IFN-beta. I dati per i DMT orali sono eterogenei. Non sembra esserci un aumento del rischio di aborto spontaneo o anomalie congenite con dimetilfumarato (DMF) negli studi sull’uomo. La sua emivita è breve, quindi può essere interrotto quando si tenta una gravidanza o in seguito a un test di gravidanza positivo, sebbene la continuazione all’inizio della gravidanza richieda di soppesare rischi e benefici visto che i dati sono pochi. C’è preoccupazione per un rischio raddoppiato di malformazioni congenite con fingolimod (FGL), quindi questo deve essere interrotto almeno 2 mesi prima di tentare il concepimento [18-20]. Sfortunatamente, l’interruzione di FGL può provocare la riattivazione della malattia durante il periodo del concepimento o la gravidanza [14], quindi la terapia ponte prima della gravidanza deve essere pianificata con attenzione, sebbene il rischio di ricaduta durante la transizione non sia chiaro. Le informazioni per siponimod (SPN) [21] non sono ancora disponibili, ma probabilmente ha effetti simili a FGL, sebbene la sua emivita più breve consenta l’interruzione 10 giorni prima del concepimento. I dati sull’uomo per l’esposizione alla cladribina (CLAD) in gravidanza sono limitati, benché negli animali esposti si siano verificati casi di letalità embrionale e malformazioni e la gravidanza dovrebbe essere tentata quindi almeno 6 mesi dopo l’ultima dose di CLAD sia per le donne sia per gli uomini [22-24]. CLAD ha benefici a lungo termine per la SM dopo l’eliminazione del farmaco, quindi può essere un’opzione utile nelle donne che pianificano una gravidanza in anticipo, purché non si tenti una gravidanza fino a 6 mesi dopo l’ultima dose. Teriflunomide (TER) è controindicata per le donne in gravidanza a causa dell’embrioletalità e della teratogenicità negli animali, ed è richiesto un protocollo di eliminazione accelerata con conferma del livello sierico inferiore a 0,02 mg/L prima di tentare il concepimento e tale procedura è suggerita anche dalla FDA per gli uomini [25-27]. È interessante notare che negli esseri umani la prevalenza di malformazioni maggiori non è aumentata dopo l’esposizione a TER o leflunomide in un campione limitato (>400 gravidanze) [27]. Anche se le donne rimanessero gravide accidentalmente mentre sono sottoposte a DMT potenzialmente “pericolosi”, la maggior parte degli embrioni si svilupperebbe normalmente in base alle attuali conoscenze. Pertanto, è importante consigliare attentamente le donne individualmente, utilizzando i dati di sicurezza più aggiornati in caso di esposizione accidentale in gravidanza. 

Alcune terapie con anticorpi monoclonali (mAb) offrono vantaggi durante la pianificazione della gravidanza, inclusi effetti biologici di lunga durata e benefici sull’attività della malattia dopo l’eliminazione del farmaco, nonché un trasferimento placentare limitato di IgG durante il primo trimestre [28]. Ci sono dilemmi nell’uso di mAb prima della gravidanza; ad esempio, la gravidanza è raccomandata dall’EMA solo almeno 12 mesi dopo l’infusione di OCZ [29] rispetto ai 6 mesi della indicati daFDA [30]. I rischi di malformazioni congenite probabilmente non sono elevati con rituximab (RTX) [31] o OCZ [32]. Un rischio leggermente più elevato di aborto spontaneo con RTX è stato riscontrato in un recente campione basato sulla popolazione di 74 gravidanze nella SM [33], ma non in una precedente revisione sistematica di 102 gravidanze trattate per varie condizioni [31]. Sono stati riportati bassi conteggi di cellule B nei neonati le cui madri hanno ricevuto RTX [31,34] o OCZ [35] durante la gravidanza e il sangue del cordone ombelicale deve essere controllato. In base alla loro emivita, questi farmaci vengono generalmente eliminati entro 3,5-4,5 mesi dopo un’infusione [29,30,36,37] e poiché le IgG non attraversano la placenta fino al secondo trimestre, si può tentare una gravidanza 1-3 mesi dopo RTX o OCZ nelle donne con SM più attiva. Ciò riduce al minimo l’esposizione fetale offrendo allo stesso tempo benefici immunomodulatori per diversi mesi [38]. Se la gravidanza non viene raggiunta entro 6-9 mesi dalla somministrazione, le donne potrebbero essere infuse ritardando i tentativi di concepimento per un periodo appropriato. 

Per i mAbs anti-CD20, rimane l’incertezza riguardo al rischio di infezione, specialmente per le donne con una durata di trattamento più lunga e/o basse immunoglobuline. Esistono dati limitati sull’uso di mAb anti-CD20 durante la gravidanza e questi dovrebbe essere riservati alle donne con SM aggressiva o disturbi dello spettro della neuromielite ottica (NMOSD) [39]. Alemtuzumab (ATZ) offre anche effetti immunomodulatori prolungati dopo l’eliminazione del farmaco ed è un’altra opzione in età fertile, con il concepimento possibile 4 mesi dopo l’ultima infusione per limitare l’esposizione fetale [40,41]. C’è un alto rischio di malattia tiroidea autoimmune con ATZ, quindi il monitoraggio della funzione tiroidea deve continuare durante la gravidanza [40]. A differenza di altri mAb, gli effetti biologici di natalizumab (NTZ) non sono così duraturi. Il re-treatment è necessario ogni 4-8 settimane, con il rischio di riattivazione della malattia dopo l’interruzione [42-44]. I rischi di aborto spontaneo e di malformazioni congenite probabilmente non sono elevati con NTZ, ma l’esposizione durante la gravidanza è associata ad anomalie ematologiche [35,45,46], basso peso alla nascita e aumento dei ricoveri nel primo anno di vita [35]. L’interruzione del NTZ al momento di un test di gravidanza positivo o prima del concepimento rischia la riattivazione della malattia durante la gravidanza [14,44]. Le opzioni per limitare questo rischio includono il passaggio a un agente depletivo prima della gravidanza [29,38], o per le donne con malattia anamnesticamente attiva, continuare con NTZ ogni 8 settimane fino a 34 settimane di gestazione [35,46]. In caso di esposizione tardiva alla gravidanza, il neonato dovrebbe essere valutato per citopenie [45]. La pianificazione della gravidanza per le donne con SM dipende quindi dalla gravità della loro SM e dall’attuale DMT.

Nelle donne con malattia meno attiva, le terapie iniettabili possono essere continuate fino a un test di gravidanza positivo o per tutta la gravidanza. La decisione di continuare i farmaci iniettabili durante la gravidanza deve essere presa con un’attenta valutazione del rapporto rischio-beneficio, poiché i dati sull’esposizione oltre il primo trimestre sono scarsi, includendo la discussione sul tempo impiegato per ottenere il pieno effetto biologico alla ripresa della DMT. Nelle donne con malattia più attiva, l’uso di terapie di induzione altamente efficaci come RTX, OCZ, ATZ o CLAD può essere preso in considerazione prima della gravidanza con eliminazione appropriata a seconda del DMT, senza ulteriori somministrazioni durante la gravidanza. Le donne con SMPP possono utilizzare in modo simile terapie di deplezione delle cellule B prima del concepimento. 

Sono necessari più dati sulla sicurezza di questi approcci e sull’entità del rischio di recidiva quando si cambia DMT. La vitamina D3 dovrebbe essere integrata prima e durante la gravidanza, mirando a livelli ematici medio-alti, con un massimo di 4000 UI di vitamina D3 al giorno accettabile. Terapie sintomatiche per affaticamento, depressione, spasticità e deambulazione devono essere discusse con il neurologo e l’ostetrico prima della gravidanza, poiché molte di queste comportano rischi fetali associati e devono essere interrotte prima del concepimento. In caso di recidiva durante la gravidanza, si può prendere in considerazione un breve ciclo di corticosteroidi ad alte dosi. Questa strategia è spesso limitata a gravi recidive, specialmente nel primo trimestre poiché non si possono escludere rischi fetali come schisi orofacciale e peso alla nascita ridotto [47] e per il rischio di precipitare il diabete gestazionale. Metilprednisolone o il prednisone è preferito data la minore esposizione fetale rispetto al desametasone o al betametasone. Questo perché il trasferimento placentare di desametasone o betametasone potrebbe provocare effetti sull’utero come la promozione della maturità polmonare fetale, nonché effetti sullo sviluppo neurologico a lungo termine [48]. Per le recidive più gravi che non rispondono agli steroidi ad alte dosi, può essere preso in considerazione lo scambio plasmatico [49].

Sicurezza dei farmaci durante l’allattamento

Mancano le linee guida per l’uso del DMT durante l’allattamento e, in generale, sono necessari ulteriori studi su allattamento e assunzione di DMT, nonché una valutazione della sicurezza a lungo termine nei neonati esposti ai DMT nel latte materno, per comprendere meglio i rischi associati. In generale, diversi fattori influenzano il trasferimento del farmaco nel latte materno, come il peso molecolare, la liposolubilità, il legame proteico, il volume di distribuzione, i meccanismi di trasporto e lo stadio del latte materno (maggiore trasferimento al colostro rispetto al latte maturo [50]. Altri fattori da considerare includono la biodisponibilità orale di un farmaco in un neonato se entra nel latte materno e la potenziale tossicità di un particolare farmaco per il neonato. 

Nonostante la comprensione del trasferimento del farmaco basata sulle proprietà del farmaco e sugli studi sull’allattamento animale, sono necessari studi sull’uomo per valutare il trasferimento del farmaco nel latte materno nelle donne trattate. La dose relativa infantile (RID) è una misura del trasferimento del latte materno ed è la percentuale della dose materna consumata attraverso il latte materno in 24 h .Valori RID inferiori al 10% sono generalmente accettabili per l’allattamento al seno, sebbene anche la tossicità del farmaco influenzi la sicurezza durante l’allattamento[51]. Sulla base dei dati attualmente disponibili, i DMT iniettabili e mAb sono probabilmente compatibili con l’allattamento al seno, mentre i DMT orali sono molto probabilmente meno sicuri durante l’allattamento, almeno in teoria, ma i dati sul trasferimento del latte materno non sono disponibili per la maggior parte dei farmaci. Tra gli iniettabili, GA è una grande molecola che suggerisce un trasferimento limitato nel latte materno senza effetti avversi previsti per il bambino, sebbene non ci siano studi sugli animali o sull’uomo sul trasferimento nel latte materno [52]. Anche gli IFN-beta sono molecole grandi, con uno studio sull’uomo che mostra un RID accettabile dello 0,006%[61]. Ciò suggerisce che IFN-beta è compatibile con l’allattamento al seno, e IFN-beta è stato recentemente approvato per l’uso durante l’allattamento dall’EMA[16], e la FDA ha aggiornato i dati sulla bassa presenza di IFN-beta-1a nel latte materno [17,55]. Ci sono prove rassicuranti da una recente revisione sistematica che gli anticorpi monoclonali IgG1 infusi, che sono grandi molecole, si trasferiscano in piccole quantità nel latte materno [55]. Inoltre, anche se ingeriti nel latte, hanno una biodisponibilità orale limitata. Sebbene alcune molecole di IgG non digerite entrino nella circolazione neonatale attraverso il recettore neonatale Fc nei roditori, questo assorbimento orale sembra essere molto più basso nell’uomo [56]. Ad oggi, gli studi non hanno rilevato effetti negativi sulla salute dei neonati allattati al seno da madri trattate con mAb [55,57]. 

Gli anticorpi monoclonali IgG1 utilizzati per la SM includono ATZ, OCZ e RTX. C’è un basso trasferimento di latte materno di RTX, suggerendo che questo è compatibile con l’allattamento al seno [58]. Inoltre, è stata riportata una normale conta delle cellule B in 5 bambini che hanno ricevuto RTX o OCZ durante l’allattamento [35]. Sono necessari studi sul trasferimento del latte materno per ATZ e OCZ, sebbene si preveda che il trasferimento sia altrettanto basso e che le molecole di IgG1 infuse non entrino nella circolazione neonatale in quantità biologicamente rilevanti. NTZ, una molecola IgG4, potrebbe avere un trasferimento maggiore nel latte materno, con un RID stimato fino al 5,3% [64]. Sebbene vi sia una preoccupazione teorica per gli effetti cumulativi con il dosaggio mensile, uno studio recente non ha trovato prove di accumulo di NTZ nel latte materno dopo un massimo di 4 infusioni e nessuna anemia in 2 neonati esposti solo attraverso il latte materno [35]. Ciò suggerisce che il bambino che allatta al seno non assorbe in modo significativo NTZ. Sfortunatamente, il piccolo peso molecolare dei DMT orali può consentire il trasferimento nel latte materno e la loro biodisponibilità orale aumenta la probabilità di assorbimento se il latte materno viene ingerito dal bambino. Il trasferimento di FGL, SPN e TER nel latte materno è stato dimostrato in studi su animali [18,19,21,25,26], ma non sono stati riportati studi sull’uomo. Al momento, i DMT orali non sono raccomandati e CLAD è specificamente controindicata [22,23] durante l’allattamento. Il metilprednisolone, che è usato sia per prevenire che per trattare le ricadute dopo il parto, viene trasferito nel latte materno [60,61]. Lo studio più ampio ha incluso 9 pazienti trattati per recidiva acuta con 1000 mg ev di metilprednisolone al giorno per 3 giorni e 7 pazienti trattati una volta al mese su base profilattica; RID era 0,71%, che è ben all’interno dell’intervallo accettabile [60].

Trattamento farmacologico post-partum

Esiste preoccupazione per un aumento del rischio di recidive di SM post-partum [4], sebbene questo rischio fosse più basso in una recente coorte di SM con forma meno grave [8]. Nelle donne che non hanno intenzione di allattare o che non possono a causa di fattori materni o neonatali, si raccomanda una rapida ripresa della DMT entro 2-4 settimane dopo il parto. Dato l’effetto protettivo dell’allattamento al seno sulle ricadute della SM, le donne con SM che desiderano allattare dovrebbero essere incoraggiate ad allattare esclusivamente al seno, se possibile, per i primi 6 mesi.. Per le donne con SM più attiva, possono essere prese in considerazione strategie di trattamento aggiuntive, inclusi i DMT, da utilizzare durante l’allattamento al seno per ridurre ulteriormente il rischio di recidiva post-partum. Per queste donne, quando si valuta se riprendere o meno il DMT prima dello svezzamento, i medici e le pazienti dovrebbero considerare il rischio di ricadute post-partum e i potenziali effetti avversi dell’uso di DMT durante l’allattamento al seno del bambino. Per le donne con SM più attiva e più alto rischio di ricadute post-partum, i benefici sia dell’allattamento al seno che dell’uso di DMT iniettabili o mAb possono superare i rischi teorici per il bambino. Allo stesso modo, l’uso di mAb durante l’allattamento al seno è stato raccomandato per le forme NMOSD [39]. Se le recidive si verificano dopo il parto, i corticosteroidi sono il trattamento di prima linea e occasionalmente i corticosteroidi possono essere somministrati anche dopo il parto per prevenire le ricadute con dati di supporto limitati [62]. Il metilprednisolone può essere utilizzato durante l’allattamento poiché il trasferimento nel latte materno è basso [60,61]. Le immunoglobuline endovena (IVIG) non sono un trattamento standard per le recidive della SM e, sebbene controversi, dati recenti non hanno supportato il loro uso nella profilassi contro le ricadute post-partum [63]. Inoltre, i rischi di tromboembolia venosa associati alle IVIG sono particolarmente preoccupanti nel periodo post-partum, quando questo rischio è già elevato.

Conclusioni

Idealmente, la consulenza sulla pianificazione familiare dovrebbe iniziare prima del concepimento per garantire l’attuazione di strategie per proteggere la salute e il benessere della madre, così come quella del feto e infine del neonato. La pianificazione della gravidanza dovrebbe considerare l’attività della malattia materna, il rischio di riattivazione della malattia con l’interruzione della terapia, il rischio di recidiva post-partum e i piani di allattamento al seno. L’allattamento al seno può essere protettivo contro le ricadute post-partum; tuttavia, nelle donne con malattia attiva, deve essere preso in considerazione l’uso concomitante di alcuni DMT. I dati emergenti dimostrano che le terapie con anticorpi iniettabili e monoclonali possono essere prese in considerazione durante l’allattamento. 

Source: Fondazione Serono SM


L’uso della tecnologia digitale per lo studio della sclerosi multipla

La sclerosi multipla è la più frequente causa di disabilità non traumatica nei giovani e comprende una grande varietà di sintomi neurologici, come debolezza, instabilità e deficit visivi. Tuttavia, diversi sintomi sono molto difficili da valutare durante la visita neurologica (ad es., affaticamento, dolore, disturbi cognitivi) e, pertanto, sono spesso chiamati sintomi “invisibili”, pur rappresentando un’importante causa di peggioramento della qualità della vita. È quindi necessaria una valutazione multidisciplinare e multidimensionale delle persone con sclerosi multipla, al fine di gestire i sintomi in maniera completa, e la tecnologia digitale potrebbe venirci in aiuto in tal senso.

La tecnologia digitale in ambito sanitario include interventi terapeutici e processi di raccolta dati, e si avvale di diversi strumenti, come cellulari, siti internet, applicazioni e altri dispositivi. Come in altri settori della medicina, anche in ambito sclerosi multipla si sta cercando di ottenere il massimo dalla tecnologia digitale; questa necessità è stata ulteriormente accentuata dalla recente emergenza sanitaria COVID-19 con la necessità di seguire i pazienti a distanza. In questo articolo vogliamo esaminare proprio le diverse modalità con cui la tecnologia è stata utilizzata negli studi clinici per lo sviluppo di farmaci per la sclerosi multipla.

Innanzitutto, la tecnologia digitale è stata usata come intervento terapeutico in ambito riabilitativo e psicologico. Diversi studi infatti hanno usato esercizi basati su realtà virtuale per migliorare le funzioni motorie (inclusa la spasticità), l’affaticamento e le funzioni cognitive. Gli esercizi in realtà virtuale prendono il nome di exergames (una parola intermedia tra esercizio e gioco), perché combinano l’esercizio fisico terapeutico alle componenti divertenti dei videogiochi. Inoltre, la psicoterapia potrebbe essere sviluppata interamente via internet e consentirebbe di migliorare la gestione globale della persona e della sclerosi multipla.

Inoltre, diversi studi hanno usato la tecnologia per migliorare le misurazioni cliniche attualmente utilizzate in ambulatorio sclerosi multipla. I tempi della visita sono necessariamente ristretti e la tecnologia può quindi venirci in aiuto per migliorare la sensibilità dei nostri parametri di valutazione. Ad esempio, la scala EDSS (Expanded Disability Status Scale) è la più comunemente usata in ambito sclerosi multipla e può essere effettuata, nell’ambito di specifici protocolli, interamente online (su tablet) con revisione in tempo reale dei risultati. Questo, ad esempio, consente non solo di migliorare la sensibilità della scala, ma anche di ridurre il rischio di incongruenze. Si stanno inoltre sviluppando alcune App per somministrare test, prove motorie e cognitive e questionari che valutano più aspetti della sclerosi multipla come, ad esempio, la capacità di deambulare, le abilità cognitive, le attività motorie e le funzioni visive. Probabilmente, in futuro, si andranno a integrare le misure cliniche tradizionali con quelle digitali, in modo da avere una visione più completa sulla persona con sclerosi multipla. Tali possibilità di monitoraggio saranno ulteriormente perfezionate grazie alle tecniche di intelligenza artificiale che potrebbero consentire di misurare il livello funzionale della persona con sclerosi multipla in automatico utilizzando, ad esempio, i sensori già presenti nei cellulari di nuova generazione.

Infine, la tecnologia digitale può essere utilizzata per migliorare il riconoscimento di problematiche cliniche e terapeutiche che sarebbero impossibili da valutare in una visita ambulatoriale tradizionale. Queste possibilità rientrano nell’ambito del patient empowerment (letteralmente, potere al paziente) che consente di mettere al centro proprio le necessità della persona con sclerosi multipla. Ad esempio, è stata sviluppata una App per il monitoraggio in tempo reale dell’affaticamento, che potrebbe consentire anche la valutazione della risposta terapeutica. Diverse applicazioni si sono invece dedicate a monitorare l’aderenza (quanto una terapia prescritta viene effettivamente assunta); ad esempio, ci sono sistemi di iniezione che registrano le iniezioni effettuate, così come ci sono dei contenitori per pillole/compresse che registrano quando vengono aperti, in modo da verificare se i medicinali prescritti vengono assunti secondo lo schema raccomandato. Ovviamente, un monitoraggio accurato dell’aderenza può consentire di individuare precocemente una terapia meno gradita alla persona con sclerosi multipla, consentendo il cambio di medicinale in piena sicurezza.

Tuttavia, vi sono delle limitazioni nell’uso della tecnologia digitale nella sclerosi multipla. Innanzitutto, l’accesso a computer e internet è differente in diverse nazioni, regioni, città ecc. e, quindi, non tutte le persone possono beneficiarne ugualmente. In ambito sclerosi multipla poi possono esservi limitazioni derivanti anche dall’eventuale disabilità fisica e cognitiva, che richiedono la creazione di strumenti di facile utilizzo. Infine, esistono limitazioni dovute ai costi che, con qualche rara eccezione, non sono coperti dal sistema sanitario nazionale. Saranno quindi necessari ulteriori studi che dimostrino l’importanza di questi strumenti digitali per il benessere della persona con sclerosi multipla.

In conclusione, abbiamo presentato come gli studi clinici in ambito sclerosi multipla stiano usando le tecnologie digitali per favorire l’accesso, l’aderenza e l’efficacia di riabilitazione motoria e cognitiva, per standardizzare la raccolta e l’interpretazione delle misure cliniche e per individuare caratteristiche cliniche e terapeutiche che altrimenti rimarrebbero inesplorate. Negli studi svolti, nel corso dello sviluppo di questi strumenti si è vista l’importanza che rivestono le persone con SM intorno alle loro necessità, imponendo di fatti un cambiamento culturale con il posizionamento della persona al centro del percorso di cura.

Source: Fondazione Serono SM


Le cure palliative nella sclerosi multipla

Nonostante i trattamenti disease-modifying, sempre più disponibili, permettano una visione più ottimistica della prognosi della sclerosi multipla, peraltro prognosticamente molto eterogenea, dobbiamo ancora prenderci cura di persone con sclerosi multipla che presentano una grave disabilità.

L’Associazione Italiana Sclerosi Multipla stimava in 6221 il numero di persone con sclerosi multipla con “disabilità gravissima” (ovvero con un punteggio >8,5 alla EDSS, secondo la definizione del Fondo Non Autosufficienza) nel 2017 [1].

La sclerosi multipla, determinando un possibile danno di qualsiasi funzione del sistema nervoso centrale, pone la necessità di fronteggiare tutta una serie di bisogni correlati alla compromissione dei diversi sistemi funzionali: visivo, troncoencefalico (ad es., disartria, disfagia, nevralgia trigeminale, compromissione della motilità oculare), piramidale (fino a tetraplegia e spasticità), cerebellare (fino all’impossibilità di effettuare movimenti coordinati), sensitivo (non solo perdita delle sensibilità ma spesso componente algo-disestesica), intestinale/vescicale/sfera sessuale (incontinenza urinaria e/o fecale, stipsi cronica grave, ritenzione urinaria; non solo disfunzione sessuale ma anche difficoltà a mantenere le funzioni sessuali per problemi pratici e relazionali), cognitivo-comportamentale (fino alla demenza grave). Ci sono poi da considerare disturbi complessi e di più difficile valutazione e correlazione fisiopatologica, su cui si stratificano anche danni ed effetti secondari: la fatica sclerosi multipla-correlata, l’insufficienza respiratoria restrittiva, le polmoniti ab ingestis, le infezioni (polmoniti, infezioni delle vie urinarie ecc.), le lesioni da decubito, i disturbi psicopatologici, altre manifestazioni di dolore (neuropatico, somatico e viscerale) e altri disturbi disautonomici.

È dunque intuitivo comprendere che una persona con sclerosi multipla e grave disabilità ha bisogni molto complessi che si estendono anche al nucleo familiare e ai caregiver formali e informali. È una persona fragile esposta a gravi complicanze che possono metterla di fronte alla morte o a condizioni di vita particolarmente difficili come quelle condizionate dalla necessità di continui mezzi di assistenza vitale. È una persona che è costretta a vivere a lungo con la propria disabilità, con bisogni che sono spesso altrettanto complessi e gravi quanto quelli di una persona con malattia oncologica terminale alla fine della sua vita.

L’approccio sintomatico tradizionale trova in queste situazioni un valore aggiunto in un intervento più globale che è quello delle “Cure Palliative” (CP) che la Legge italiana [2] definisce come “l’insieme degli interventi terapeutici, diagnostici e assistenziali, rivolti sia alla persona malata sia al suo nucleo familiare, finalizzati alla cura attiva e totale dei pazienti la cui malattia di base, caratterizzata da un’inarrestabile evoluzione e da una prognosi infausta, non risponde più a trattamenti specifici”.

Dunque, le CP sono la cura “attiva” e “globale” prestata alla persona quando la sua malattia non risponde più alle terapie aventi come scopo la guarigione o meglio, nel caso della sclerosi multipla, al controllo della malattia, visto che per definizione la sclerosi multipla è attualmente una malattia inguaribile.

Il controllo del dolore e degli altri sintomi, dei problemi psicologici, sociali e spirituali assume importanza primaria.

Le CP hanno carattere interdisciplinare e coinvolgono il malato, la sua famiglia e la comunità in generale. Prevedono una presa in carico della persona malata e delle persone a lui prossime, che si preoccupi di garantire attenzione ai bisogni ovunque si trovi (a casa, in ospedale ecc.).

Diverse pubblicazioni propongono, anche in Italia, un approccio palliativo in Neurologia precoce e simultaneo, multiprofessionale e multidisciplinare, con diversificazione di intervento “di base/generale” (personale formato ma non dedicato) e “specialistico” (Unità di CP) [3-6]. Vediamo di che cosa si tratta.

Per approccio palliativo precoce e simultaneo si fa riferimento a un modello assistenziale in cui le CP non si occupano più soltanto del “fine vita” e si erogano a prescindere da una prognosi in termine di morte biologica più o meno imminente, e a prescindere dal mantenimento di un approccio sintomatico ad “alta tecnologia” o addirittura di una terapia disease-modifying. Nella sclerosi multipla la simultaneità delle CP trova giustificazione in una serie di interventi, farmacologici e non, che hanno prove di efficacia anche nella disabilità che avanza: i) trattamenti riabilitativi; ii) interventi sintomatici complessi sulla spasticità (ad es., pompa al baclofen); iii) continuazione di farmaci disease-modifying in fase avanzata di malattia, considerando il nuovo approccio terapeutico nelle forme progressive [7].

Le CP devono intervenire più precocemente nella traiettoria di malattia in modo da identificare e anticipare i bisogni (esempio di medicina proattiva) e trattare i sintomi in fase precoce, rispettando le preferenze del malato e mettendo in atto tutte le misure (non solo di tipo medico/infermieristico, ma anche psicologico, sociale e spirituale) per migliorare la sua qualità di vita e quella del suo nucleo di affetti, in senso “attivo” e “globale”.

L’approccio “globale” delle CP è fondamentale proprio per garantire che alcune scelte assistenziali siano valutate non per il loro effetto su un singolo problema ma per l’impatto sulla qualità di vita generale.

Si sottolinea la descrizione delle CP come cure “attive” proprio per contrastare il senso deteriore che ancora si dà nel linguaggio comune al termine “palliativo”, equivocandolo con una situazione in cui “non c’è più niente da fare” perché la terapia disease-modifying ha fallito, in cui resta solo da assistere “passivamente” all’impatto devastante della malattia. Le CP si pongono proprio nello spazio del cosiddetto “fare altro”, rispetto a scelte terapeutiche non più indicate o non accettate dal malato.

Riformulando e completando quanto detto sopra, l’approccio palliativo trova un presupposto fondamentale nel porre la qualità di vita del malato e dei suoi cari a livello prioritario, sottoponendo trattamenti finalizzati a singoli obiettivi, anche quelli relativi al prolungamento della vita biologica, al giudizio del loro impatto sulla qualità di vita e alle preferenze della persona malata, senza mai abbandonare le cure.

Riprendendo la definizione di CP della European Association for Palliative Care (EAPC): “Le cure palliative rispettano la vita e considerano il morire un processo naturale; il loro scopo non è quello di accelerare o differire la morte, ma quello di preservare la migliore qualità della vita possibile fino alla fine” [8]. E tale accompagnamento “fino alla fine” è generalmente molto lungo nel caso delle forme progressive di sclerosi multipla che determinano elevata disabilità.

Le competenze palliative risultano utili nella pianificazione condivisa delle cure (così la Legge italiana [9] definisce il termine advance care planning, più comune nella letteratura internazionale) e nell’indirizzo a scelte come quella dell’amministrazione di sostegno che rappresenta uno strumento di tutela legale per il malato [10].

Alcuni anni or sono, nel consueto spazio delle “Controversies in Multiple Sclerosis” della rivista Multiple Sclerosis Journal, si è discusso il tema dell’eutanasia e dell’assistenza medica al suicidio [11-13].

Si tratta di un tema che rappresenta una grande sfida nell’ambito dell’etica clinica e del diritto e che sta diventando sempre più critico anche alla luce della sentenza 242/2019 della Corte Costituzionale [14] (intervenuta sul decesso di Fabiano Antoniani, più noto come “DJ Fabo”, in relazione a un’accusa di istigazione e aiuto al suicidio) e dell’attuale dibattito politico e sociale (approvazione del testo base della proposta di legge sul “Rifiuto di trattamenti sanitari e sulla liceità dell’eutanasia” da parte delle Commissioni Giustizia e Affari sociali della Camera in data 6 luglio 2021 [15]; raccolta di firme per il referendum che si pone come obbiettivo la modifica dell’articolo 579 del Codice Penale – omicidio del consenziente). Sebbene ci siano posizioni controverse sul ruolo delle CP nell’eutanasia e suicidio medicalmente assistito [16], vi è convergenza sul fatto che gli operatori che si occupano di CP non possono rinunciare alla continuità assistenziale, a un “accompagnamento” in coloro che fanno richiesta di eutanasia o suicidio assistito, perché il contrario sarebbe andare contro uno dei principi fondamentali delle CP, ovvero quello di non abbandonare il paziente sofferente, principio che ben si descrive nella frase di Cecily Saunders, personaggio fondamentale della storia delle CP: “You matter because you are you, and you matter to the end of your life” [17].

C’è un crescente impegno dei neurologi e di altre figure professionali che si occupano di sclerosi multipla, anche in Italia, a porre una attenzione sempre più impeccabile alla cura della disabilità nel rispetto delle preferenze delle persone malate, attraverso un modello di scelte condivise.

Nonostante questi presupposti, ancora i servizi di CP non sono, ad esempio, menzionati nella “Multiple Sclerosis Care Unit” [18] che prevede una variegata lista, multidisciplinare e multiprofessionale, di operatori sanitari coinvolti nell’assistenza alla persona con sclerosi multipla e ai suoi familiari/caregiver.

Nell’ottica di migliorare l’integrazione delle CP nella “Multiple Sclerosis Care Unit”, sono state proposte tre azioni fondamentali [19]. Una è quella della ricerca, che ci aiuta e ci aiuterà ulteriormente a far comprendere meglio alla comunità neurologica e agli altri stakeholder coinvolti nella cura delle persone con sclerosi multipla, la necessità di un forte investimento sulle CP in Neurologia. A questo riguardo, segnalo che lo studio italiano PeNSAMI, che ha valutato l’efficacia di un intervento domiciliare palliativo dispensato nell’arco di 6 mesi su malati con EDSS≥8 da parte di un team costituito da un medico (neurologo o fisiatra), un infermiere (case manager), uno psicologo e un assistente sociale, ha dimostrato la riduzione del carico di alcuni sintomi fisici [20] e il senso di isolamento [21]. Lo studio PeNSAMI ha evidenziato i limiti di un intervento tardivo, troppo breve e senza copertura per emergenze 24/24 ore, dimostrando che i pazienti e i loro cari hanno carenze informative, difficoltà a identificare i loro bisogni e sono preoccupati di affrontare la disabilità più della morte, portando alla luce la scarsità dei servizi assistenziali disponibili, l’eccesso di burocrazia, l’incapacità dei servizi esistenti di fare rete [21,22].

Ancora sul fronte ricerca, nel 2020 sono state pubblicate le linee guida della European Academy of Neurology (EAN) sulle CP per le persone affette da forme gravi di sclerosi multipla progressiva, che sono state sviluppate con il coinvolgimento di persone malate e dei loro caregiver [23]. Le linee guida della EAN suggeriscono che le CP siano offerte nei vari settingdi cura a persone con sclerosi multipla grave, tenendo conto delle preferenze del malato e delle sue condizioni sociali. Esse danno una serie di raccomandazioni sulla terapia della spasticità, della fatica, del dolore e dei problemi vescicali, sugli interventi per i caregivere sulla riabilitazione multidisciplinare, con prove di efficacia generalmente deboli (unica forte per l’efficacia sulla spasticità di nabiximols). Nessun dato risulta invece disponibile sui seguenti temi: advance care planning, discussione con gli operatori sanitari delle preferenze di anticipazione della morte, interventi formativi per gli operatori sanitari.

Altra linea di azione riguarda la formazione degli operatori sanitari in modo da introdurre e potenziare le competenze in CP, partendo dai temi della comunicazione, della condivisone delle scelte e del loro background di etica clinica, del lavoro di équipeinterdisciplinare tra le aree della neurologia, della medicina palliativa e della neuroriabilitazione; il percorso formativo deve ovviamente iniziare dalla formazione universitaria con programmi didattici più generali e propedeutici, per poi approfondirsi nelle tematiche più particolari nei corsi di formazione specialistica e nella formazione continua delle varie professionalità.

Infine, ma non ultima, l’azione a livello di consapevolezza pubblica. È fondamentale che la cultura della palliazione si faccia strada nella società italiana attraverso quei processi (empowerment/engagement) mediante i quali le persone, le organizzazioni e le comunità acquisiscono competenza sulle proprie vite, sulle malattie e sulle loro conseguenze, in modo da permettere la loro partecipazione nei processi decisionali che riguardano le scelte sulla propria salute e, più in generale, sull’organizzazione dei servizi sociosanitari.

Concludendo, l’integrazione delle CP (intese nell’approccio precoce e simultaneo) nelle attività dei Centri sclerosi multipla rappresenta una prassi euristica per cui si prevede una efficiente presa in carico assistenziale, eticamente fondata, della sclerosi multipla (e delle altre malattie correlate) lungo l’intera traiettoria di malattia.

Source: Fondazione Serono SM