Sclerosi multipla, disturbi dello spettro della neuromielite ottica e sindromi da overlap

Nella pratica quotidiana, il medico si trova spesso a fronteggiare quadri clinici che non si adattano bene ai criteri nosografici validi per diagnosticare una determinata malattia in quel contesto storico. Questo, ovviamente, vale anche per la sclerosi multipla (SM) e per le malattie a essa correlate.

In questo articolo, voglio suggerire una riflessione sul fatto che non dobbiamo solo impegnarci a migliorare la diagnosi differenziale tra le forme che classifichiamo nella nosografia attuale, ma ammettere la presenza di “overlap syndrome” e di provare a introdurre raccomandazioni sulla loro diagnosi, follow-up e, soprattutto, sul loro trattamento.

Dalla fine dell’Ottocento, quando Eugène Devic descrisse il termine neuromielite ottica (neuro-myélite optique, NMO), la questione della relazione tra NMO e SM è rimasta sempre controversa, essendo prevalente, per un lungo periodo, l’idea che si trattasse di varianti cliniche diverse di una stessa malattia [1]. Il concetto della NMO come variante di SM si è ribaltato quando alla NMO si è riconosciuto uno specifico inquadramento nosografico con criteri diagnostici ad hoc [2], dopo che si sono evidenziate le differenze neuropatologiche [3-5] e si è giunti alla scoperta degli anticorpi sierici anti-aquaporina-4 (Ac anti-AQP4) [6]. Questi anticorpi, denominati anche NMO-IgG, sono dosabili nel 60-90% delle persone che hanno un quadro clinico caratteristico per NMO [7], ovvero i sintomi e i segni di lesioni infiammatorie principalmente a carico dei nervi ottici e del midollo spinale. In epoca più recente, è considerato tipico anche l’interessamento di alcune specifiche aree dell’encefalo ad alta espressione di aquaporina-4 (proteina canale per l’acqua particolarmente espressa a livello dei pedicelli astrocitari), ovvero le aree periependimali del tronco encefalico, in particolare area postrema/parte dorsale del bulbo, ed il diencefalo [8]. La NMO classica, associata ad Ac anti-AQP4 è in effetti una astrocitopatia. Sebbene con minore frequenza, gli Ac anti-AQP4 si ritrovano anche in persone con forme isolate di interessamento del midollo spinale (cosiddette longitudinally extensive transverse myelitis, LETM) oppure dei nervi ottici (neurite ottica isolata, che può assumere carattere recidivante). Da ciò, è derivato il concetto di NMO spectrum disorders (NMOSD) che, in attesa di nuove acquisizioni scientifiche, permette di portare avanti la ricerca e la pratica clinica in tale ambito. Dunque, con il termine NMOSD, identifichiamo quadri sindromici di astrocitopatia immuno-mediata, prevalentemente anticorpo-mediata, al momento non meglio discernibili ma da tenere distinte dalla SM. In letteratura, si classificano i NMOSD anche all’interno della famiglia nosografica delle “canalopatie neurologiche autoimmuni” [9].

A complicare il quadro, abbiamo espressioni fenotipicamente inquadrabili in NMOSD negativi per Ac anti-AQP4 che presentano un altro tipo di anticorpi che si esprimono nei confronti della myelin oligodendrocyte glycoprotein (Ac anti-MOG) [10]. La presenza degli Ac anti-MOG è stata stimata pari al 42% in pazienti con quadro suggestivo di NMOSD ma Ac-AQP4 negativi [11]. In più, gli Ac anti-MOG sono stati identificati, seppure raramente, in persone alle quali era stata posta diagnosi di SM [10]. Come dice il nome, la MOG è espressa sugli oligodendrociti, sulla superficie della mielina. Si ritiene che la presenza di Ac anti-MOG identifichi un’altra malattia immuno-mediata del sistema nervoso centrale (SNC), distinta da SM e daNMOSD-Ac AQP4 positivi. Dal punto di vista clinico, a parte la già citata espressione con quadro sindromico sovrapponibile ai NMOSD, la malattia associata ad Ac anti-MOG (MOGAD)si può presentare come una encefalomielite disseminata acuta (acute disseminating encephalomyelitis, ADEM) o come un’encefalite del tronco-encefalico; la malattia può avere decorso monofasico o recidivante [12].

Ancora, ci sono persone che, pur soddisfacendo i criteri per una classica SM (lesioni encefaliche e/o midollari tipiche che soddisfino disseminazione spaziale-temporale, positività per bande oligoclonali ecc.) [13], presentano contemporaneamente Ac anti-AQP4 [14].

Per esprimere la complessità e l’indeterminazione che avvolge una parte del nostro sapere sulle malattie infiammatorie del SNC è stata proposta la “famiglia” nosografica delle “malattie idiopatiche infiammatorie demielinizzanti del SNC” [15] che peraltro include malattie di tuttora incerto inquadramento come le ADEM e le più rare e controverse forme ad andamento iperacuto/subacuto (malattia di Marburg, sclerosi concentrica di Baló, malattia di Schilder) ecc.

A parte le forme di sovrapposizione tra NMOSD Ac anti-AQP4+, MOGAD e forme di SM, è interessante ricordare en passant come in tali diagnosi di possano riscontrare anche alterazioni sierologiche o addirittura sintomi tipici di altre malattie immuno-mediate, reumatologiche e non, che possono colpire il SNC. Tra tutte ricordiamo la coesistenza tra SM [16] oppure NMOSD Ac AQP4+ e/o lupus eritematoso sistemico e/o sindrome di Sjögren [17] e/o altre malattie immuno-mediate sistemiche o anche a sola espressione neurologica come l’encefalite associata ad anticorpi anti-recettore NMDA [18].

Quali problemi di gestione pongono questi casi di overlap?

Possiamo iniziare dalla comunicazione della diagnosi. Infatti, si tratta di casi “grigi” in cui gli specialisti consultati possono dare conclusioni diverse, con un discreto grado di indeterminazione. L’indeterminazione in Medicina è un problema sempre presente che va apertamente affrontato [19]; pertanto situazioni del genere pongono, senza dubbio, difficoltà di comunicazione con il paziente, anche per la prognosi. Su quest’ultimo punto, la “classica NMO” ha prognosi generalmente considerata peggiore in letteratura rispetto ad esempio alla SM, almeno in era precedente agli odierni trattamenti disease-modifying [20]. Dunque al malato si pongono diagnosi diverse, con indeterminazione prognostica maggiore.

Ne consegue poi il problema della terapia con farmaci disease-modifying (DMD) da proporre.

Sappiamo oggi che NMOSD e SM rispondono differentemente a trattamenti immunomodulatori e/o immunosoppressivi e si ritiene che alemtuzumab, dimetil-fumarato, fingolimod, glatiramer acetato, i vari tipi di interferone beta e natalizumab, DMD approvati per la terapia della SM, siano inefficaci, se non addirittura dannosi, nei NMOSD [21].

La soluzione che si propone è l’uso di farmaci che possono ritenersi efficaci sia nella SM sia nei NMOSD. In primo luogo si può pensare ad azatioprina. L’azatioprina è utilizzata in Italia per la SM secondo le modalità previste dalla lista dei farmaci approvati “per uso consolidato” ex Legge 648/96. In particolare, uno studio indipendente ha dimostrato che, nella SM recidivante remittente (SMRR), azatioprina ha un‘efficacia non inferiore a quella degli interferoni beta [22] e una revisione Cochrane ha evidenziato un effetto positivo nella SMRR [23]. Azatioprina viene utilizzata come terapia di prima linea nelle varie forme di NMOSD [24] ed è proposta anche per la MOGAD [25].

Ciclofosfamide è stata in passato un’opzione utilizzata in forme di SM aggressiva [26] ed è proposta nei NMOSD [27] e nella MOGAD [25].

Micofenolato mofetile, proposto per NMOSD [28] e MOGAD [29], non ha mai accumulato prove di efficacia tali da giustificarne l’uso nella SM, seppure alcuni studi abbiano evidenziato una potenzialità [30].

Particolare menzione è da attribuire a rituximab. Numerosi studi ci permettono di affermare che rituximab è efficace nelle varie forme di SM [31-34] e nel contesto dei NMOSD [27] e nella MOGAD [29,35].

Per quanto riguarda le nuove terapie per NMOSD (eculizumab, inebilizumab, satralizumab, tocilizumab) [27] non abbiamo dati per comprenderne la loro efficacia nella SM [36-38].

Il trattamento ciclico con immunoglobuline endovena è stato proposto per NMOSD e MOGAD [39,40]; i dati di efficacia nella SM non sono univoci [41].

Rituximab è da considerare, pertanto, la terapia più affidabile per le sindromi da overlap qui trattate allo stato dell’arte.

Oltre a continuare la ricerca per definire effettivamente un migliore inquadramento diagnostico, dovremo cercare di abbandonare il concetto di dover necessariamente soddisfare il principio del “rasoio di Occam”, ovvero il principio metodologico che indica di scegliere, tra più soluzioni possibili di un problema, quella più semplice. Tale principio, applicato in Medicina, presume che, quando un paziente ha multipli sintomi/segni, il clinico debba cercare una singola diagnosi piuttosto che diagnosi multiple. In realtà, la complessità della biologia in generale, e in particolare nelle malattie correlate a un disordine immunologico, deve farci porre in posizione critica rispetto all’applicazione del “rasoio di Occam” e ammettere l’esistenza di più disordini all’interno dello stesso individuo, eventualmente dettati da una medesima predisposizione, da coincidenti fattori di rischio ecc.

Source: Fondazione Serono SM


Disturbi del linguaggio nella sclerosi multipla: dall’afasia al disturbo di comprensione delle metafore

I sintomi più comuni della sclerosi multipla (SM) sia d’esordio sia in corso di ricadute sono caratterizzati da un deficit funzionale dei sistemi sensoriali primari o del sistema motorio: ad esempio un calo della vista, una perdita di sensibilità a un arto o deficit di forza a uno o più arti [1]. Nel corso degli ultimi anni, si è tuttavia addivenuti a una notevole espansione del possibile corteo sintomatologico associato alla SM includendo deficit non facilmente diagnosticabili se non altrimenti attentamente valutati. I deficit cognitivi sono esemplificativi di tali sintomi cosiddetti below-the-radar, ovvero che sfuggono alla normale valutazione clinica. Circa il 50-70% dei pazienti affetti da SM manifesta un deficit cognitivo con un grosso impatto negativo sulla loro qualità della vita [2]. Con l’accumularsi delle evidenze scientifiche a conferma di tale diffuso coinvolgimento della funzione cognitiva in SM, oggi in molti Centri dedicati alla diagnosi e cura della SM si effettuano valutazioni cognitive e si adattano le strategie terapeutiche anche in funzione della presenza o assenza di tale deficit. Se tanto è stato possibile è stato anche grazie all’introduzione di un test di screening della durata di 90 secondi, il symbol digit modality test che permette una rapida e specifica valutazione delle funzioni cognitive anche in un contesto clinico dai tempi ristretti [3].

Tra gli altri sintomi che i pazienti affetti da SM possono manifestare below-the-radar vi sono i deficit del linguaggio, uno degli strumenti che gli umani utilizzano per veicolare messaggi, per comunicare. Sebbene i pazienti affetti da SM raramente manifestino una completa afasia (mancanza di comprensione e produzione verbale) [4], sovente a una valutazione più estesa è possibile evidenziare deficit di denominazione, comprensione di frasi complesse, lettura e comprensione uditiva [5]. Tuttavia, questi aspetti del linguaggio appena citati tengono conto della conoscenza dei vocaboli e della struttura della frase ma non del contesto in cui tale frase viene pronunciata, né delle modulazioni non verbali associate a esse. Immaginiamo per esempio che un ragazzo si ritrovi con il suo gruppo di amici e, parlando di una partita di calcio, esclami che “tale calciatore è stato una saetta in campo”. Dal punto di vista strettamente semantico dovremmo immaginarci che mettendo al replay la partita a un certo punto il “tale calciatore” dovrebbe trasformarsi nell’immagine di un fulmine. Eppure, riguardando quel match, l’unica cosa che vedremo è che quel “tal giocatore” corre velocemente da un lato all’altro del campo ma non si trasforma. Nella frase “tale calciatore è stato una saetta in campo”, si è fatto infatti uso di un aspetto del linguaggio non convenzionale, in cui si utilizza un’immagine per eccellenza della velocità per descrivere l’abilità del calciatore. Pochi studi sono disponibili sulla valutazione degli aspetti non convenzionali del linguaggio in SM. Questo in parte è ascrivibile al fatto che solo nel 2013, per la prima volta, nella tassonomia dei disturbi mentali si è introdotto il termine “comunicazione sociale” e “pragmatica” facendo riferimento alla “capacità dell’uso sociale della comunicazione verbale e non verbale”.

Nello specifico, un disturbo della comunicazione sociale (pragmatica) si caratterizzava per un deficit in quattro aspetti del linguaggio: 1) uso di una comunicazione appropriata allo scopo da raggiungere; 2) modulazione della comunicazione al fine di adeguarsi alla situazione e all’ascoltatore (ad es., se ci riferiamo a un bambino o a un adulto); 3) capacità di seguire regole di strutturazione della narrazione; 4) comprensione di ciò che non è esplicitamente detto, ad esempio sarcasmo, idiomi, metafore. Altro motivo per cui la pragmatica rimane ancora poco valutata nelle patologie del sistema nervoso centrale è legato alla mancanza di uno strumento validato nelle diverse lingue per la valutazione di tali deficit. Un primo sforzo nella valutazione dei deficit comunicazionali sociali nella SM ha messo in evidenza come i pazienti possano manifestare deficit nella comprensione di frasi ambigue, di metafore e di un discorso narrativo [6]. A una valutazione ancora più estensiva, utilizzando uno strumento validato in italiano per la valutazione della pragmatica detto Assessment of Pragmatic Abilities and Cognitive Substrates (APACS) [7,8], si è osservato che il 55% dei pazienti affetti da SM mostra un deficit della pragmatica indipendentemente dalla durata di malattia o dalla gravità della medesima [9]. Nello specifico, i pazienti affetti da SM mostrano una performance non ottimale nella comprensione del linguaggio non letterale (linguaggio figurato e umorismo) e nella produzione di un quantitativo adeguato di contenuto in risposta a domande dell’intervistatore, risultando sotto-informativi [9]. Tali deficit non sono legati a deficit degli aspetti basilari del linguaggio e, soprattutto, non sono legati a un decadimento cognitivo globale, risultando tuttavia associati a un selettivo deficit delle funzioni cognitive esecutive frontali [9]. Questo dato sottolinea come, nonostante una valutazione estensiva dei pazienti affetti da SM, alcuni sintomi possono comunque passare inosservati se non opportunamente valutati.

La ricerca dei substrati patologici determinanti deficit comunicativi ha subito negli ultimi 30 anni un grosso interesse grazie allo sviluppo di tecniche convenzionali e avanzate di risonanza magnetica (RM) che permettono l’osservazione diretta del danno cerebrale e di relazionarlo allo specifico deficit comunicativo. A lungo si è ritenuto che mentre le lesioni in determinate aree dell’emisfero sinistro del cervello fossero responsabili di afasia, lesioni nelle stesse aree cerebrali ma all’emisfero destro si manifestassero come deficit del linguaggio sociale. Questa dicotomia si è però rivelata non proprio corretta dal momento che studi di attivazione cerebrale misurata attraverso RM funzionale hanno dimostrato che i soggetti che svolgevano compiti di comprensione di metafore, idiomi e ironia, funzioni tipiche della comunicazione sociale (pragmatica), attivavano aree cerebrali di entrambi gli emisferi [10,11]. A partire da questi e altri successivi studi oggi è noto che la comunicazione è una funzione che richiede l’integrità di una rete di network neuronali distribuiti in entrambi gli emisferi cerebrali, diversi a seconda dello specifico aspetto del linguaggio esplorato con un alto livello di integrazione e scambio dati tra networks e un ruolo specifico di una regione cerebrale detta giunzione temporo-parientale nella modulazione della comunicazione pragmatica [12]. Nella SM, le lesioni demielinizzanti a carico dei fasci di connessione tra diverse aree del cervello provocano una disconnessione tra aree cerebrali distanti tra loro, esitando in una rimodulazione non sempre funzionale all’interno dei network funzionali e nei processi di integrazione tra i medesimi [13].

Il primo studio pilota condotto nei pazienti affetti da SM volto a esplorare i correlati neuropatologici dei deficit pragmatici ha sottolineato una ridotta connettività funzionale tra la giunzione temporo-parietale (prevalentemente di destra) e la corteccia del paracingolo nei pazienti con deficit pragmatici [14]. La corteccia del paracingolo rappresenta un’area corticale fortemente implicata sia in processi cognitivi quali le funzioni esecutive frontali sia nella risoluzione dei problemi sociali complessi [14]. Pertanto, per quanto si tratti ancora di un risultato preliminare, la corretta funzione della giunzione temporo-parietale e della corteccia del paracingolo, nonché la loro connessione, sembra rivestire un ruolo primario nella corretta comprensione e produzione della comunicazione, soprattutto nelle sue componenti “sociali”.

Purtroppo, a oggi ancora non esistono farmaci efficaci per poter trattare deficit della comunicazione nei pazienti affetti da SM. Tuttavia, un forte contributo in tal senso potrebbe giungere da protocolli riabilitativi ad hoc. Uno studio molto promettente in tal senso è stato pubblicato di recente e ha mostrato l’efficacia terapeutica del protocollo riabilitativo Cognitive Pragmatic Treatment nei pazienti affetti da schizofrenia con deficit di pragmatica [15]. Per l’applicazione di tale protocollo nella SM si attendono nuovi studi in merito.

Source: Fondazione Serono SM


Il dolore neuropatico nella sclerosi multipla

In questo articolo sarà descritto il dolore neuropatico cronico nella sclerosi multipla (SM), focalizzando l’attenzione soprattutto sulla classificazione, fornendo elementi sui correlati anatomo-funzionali, senza però entrare in merito al trattamento.

Anzitutto come definire il dolore in generale? La International Association for the Study of Pain (IASP) lo definisce come “un’esperienza sensitiva ed emotiva spiacevole, associata con, o simile a quella associata con, un effettivo o potenziale danno tissutale” [1].

Il dolore può essere classificato sulla base dell’interpretazione dei meccanismi patogenetici, mediante la correlazione sintomo/segno. In altre parole, possiamo riconoscere diversi tipi di dolore grazie all’integrazione, da parte del clinico, di tutte le informazioni disponibili: le caratteristiche del sintomo descritte dal malato, l’osservazione del comportamento di quest’ultimo, i segni evidenziabili all’esame obiettivo (ad es., la coesistenza di un disturbo di sensibilità, la dolorabilità alla mobilizzazione di un’articolazione, lo scatenamento attraverso un trigger ecc.) e i risultati di indagini di laboratorio e strumentali [2,3].

La classificazione del dolore è però storia complessa nella nosografia e oggettivamente difficile alla luce del criterio di base utilizzato, con complesse implicazioni all’interno del costrutto medico-scientifico di riferimento [4].

Per superare tale complessità, ad oggi, possiamo fare riferimento alle indicazioni della IASP.

Il dolore neuropatico è stato definito dalla IASP come un dolore che è correlabile a una lesione primaria o a una disfunzione a qualsiasi livello del sistema nervoso [5]. In realtà la IASP stessa, più recentemente [6], fa riferimento a una definizione che vede il dolore neuropatico semplicemente descritto come quello causato da una lesione o malattia che colpisce il sistema nervoso nella sua componente somatosensitiva [7]. Senza dubbio, la dimostrazione di una lesione a livello del sistema nervoso, clinicamente compatibile, soprattutto per la distribuzione topografica delle algie, rafforza la classificazione del dolore come neuropatico [3].

La recente classificazione IASP del dolore cronico per la International Classification of Diseases (ICD-11) prevede di classificare il dolore neuropatico cronico associato alla SM nelle forme di “dolore cronico secondario”, dove la qualità di “cronico” è definita sulla base della persistenza della sindrome algica per più di 3 mesi [6].

Il dolore neuropatico può essere spontaneo o provocato da stimoli sensitivi, acquisendo il carattere di iperalgesia e/o di allodinia. Per iperalgesia si intende un’esagerata percezione dolorosa a uno stimolo nocicettivo. L’iperalgesia può associarsi a una riduzione della sensibilità tattile: ad esempio, la puntura con spillo può provocare un dolore intenso, sproporzionato, e nel contempo il riconoscimento delle caratteristiche della “puntura” può essere alterato a confronto di altre zone cutanee non interessate. Si distingue col termine allodinia quella condizione in cui il dolore avviene in risposta a uno stimolo che in condizioni normali non evoca dolore.

Il dolore neuropatico cronico è percepito nel territorio che è somatotopicamente correlabile alla struttura del sistema nervoso lesionata; nel caso delle forme secondarie a SM, ovviamente, si fa riferimento al sistema nervoso centrale (“dolore neuropatico cronico centrale”).

D’altra parte, si pone un problema classificativo per la compromissione SM-correlata di aree del sistema nervoso al confine tra la classica e convenzionale distinzione anatomica tra sistema nervoso periferico e centrale. Esempio di ciò è la nevralgia trigeminale secondaria a SM. Quest’ultima, seppure dovuta a una lesione demielinizzante a livello della regione ventrolaterale del ponte, è infatti attualmente classificata nell’ambito del “dolore neuropatico cronico periferico” [6] perché in realtà dovuta alla compromissione del segmento intrapontino del nervo trigemino, in un’area anatomica localizzata tra la zona di ingresso della radice trigeminale e i nuclei sensitivi del trigemino. Nella SM, come nella classica nevralgia trigeminale idiopatica, il dolore è caratterizzato da improvvisi parossismi dolorosi (di pochi secondi o qualche minuto) trafittivi, “a coltellata” o “scossa elettrica”, unilaterali che recidivano e che si distribuiscono a livello di una o più branche del nervo trigemino. Tali parossismi sono tipicamente evocati dalla stimolazione cutanea o mucosa nell’ambito del territorio trigeminale interessato (zone trigger), ad esempio da toccamenti, a volte solo sfioramenti, del volto oppure da azioni come parlare, masticare ecc. [8].

La già citata classificazione IASP del dolore cronico per la International Classification of Diseases (ICD-11) prevede proprio un “dolore neuropatico centrale cronico causato da SM” [6]. Si tratta di un dolore che si ritiene causato da una lesione demielinizzante di una regione del sistema nervoso centrale che presiede aree di integrazione somatosensitiva o che interessa una via sensitiva afferente o di connessione tra tali aree. Il dolore può essere spontaneo o evocato e può assumere le caratteristiche suddette di iperalgesia o allodinia. Come già accennato in generale, è elemento fondamentale di riconoscimento clinico un coesistente deficit di sensibilità (ipoestesia) oppure una disestesia (tatto, temperatura ecc. destano percezioni dello stimolo diverse dal normale) e/o parestesia (insorgenza di una sensazione elementare come formicolio, solletico ecc., in assenza di una stimolazione specifica); sintomi sensitivi che indicano compromissione di una zona del sistema nervoso centrale nella regione corporea dove si proietta il dolore.

Nella SM che si accompagna a interessamento motorio piramidale è molto frequente un dolore che è associato alla spasticità. In realtà questo tipo di dolore non è classificato come neuropatico ma come dolore muscoloscheletrico [6].

Di difficile inserimento nella tassonomia del dolore che, ormai da anni, sta proponendo la IASP, resta di difficile classificazione il “fenomeno di Lhermitte” descritto da Jean Jacques Lhermitte, neuropsichiatra francese, in un caso di SM nel 1924 [9]. Il fenomeno di Lhermitte è caratterizzato da una sensazione parossistica a tipo scarica elettrica, in realtà non sempre riportata come dolorosa dal paziente, provocata dalla flessione del capo, che dalla base del collo si propaga lungo il rachide o verso altre parti del corpo; si presenta per un certo periodo di tempo (da giorni a mesi in genere) per poi risolversi; è correlato a una placca demielinizzante a carico delle colonne dorsali del midollo cervicale che causa la generazione ectopica di un impulso nocicettivo lungo le vie afferenti sensitive [10]. In effetti, non si trova citato nell’ambito del suddetto capitolo del “dolore neuropatico centrale cronico causato da SM” [6], verosimilmente in conseguenza delle caratteristiche parossistiche e per il fatto che tende a risolversi anche prima dei 3 mesi (questo però è vero anche per la nevralgia trigeminale che invece trova il suo posto nella classificazione IASP).

Secondo il PaIMS Study Group [11] il dolore neuropatico è la sindrome dolorosa prevalente nella SM. In particolare, la sindrome algica in assoluto più frequente è quella che i ricercatori hanno classificato come “dolore disestesico”, rilevato nel 18% dei casi nella popolazione italiana studiata. Il “dolore disestesico” può essere classificato nel “dolore neuropatico cronico secondario a SM” nella ormai più volte citata classificazione IASP [6]. C’è sufficiente evidenza che il dolore disestesico sia direttamente correlato alla formazione ed evoluzione delle placche nell’encefalo e nel midollo spinale delle persone affette da SM [12,13].

Nella SM è frequente la compromissione delle vie sensitive che includono il tratto spinotalamico (la cui lesione si correla con caratteristiche di dolore più acuto, trafittivo, lancinante ecc.) e il sistema spino-reticolo-talamico (dolore sordo, urente, non ben localizzabile ecc.). Questi sistemi ascendenti proiettano a diverse e complesse strutture neuronali (la cosiddetta “pain matrix”), anzitutto a livello del talamo e della corteccia somatosensoriale secondaria, ma poi anche a livello della corteccia anteriore del cingolo, dell’insula e della sostanza grigia periacqueduttale, come dimostrato in soggetti sani con tecniche di risonanza magnetica funzionale [14,15].

L’alterazione di questa “pain matrix”, a seguito delle classiche placche di demielinizzazione e della più diffusa neuro-infiammazione delle cosiddette “sostanza bianca apparentemente normale” e ”sostanza bianca diffusamente anormale” [16], determina una continua anomala risposta a stimoli nocicettivi transitori causando dolore cronico.

Altro classico meccanismo fisiopatologico del dolore neuropatico è quello associato con la ipereccitabilità dei neuroni nocicettivi gangliari della radice dorsale. A questo riguardo, alcuni studi su modelli animali di SM hanno permesso di ipotizzare una compromissione dei neuroni sensitivi periferici dei gangli della radice dorsale (e anche dei gangli trigeminali) in risposta alla presenza di neuro-infiammazione a livello del sistema nervoso centrale [17]. Tale ipereccitabilità dei neuroni gangliari della radice dorsale determina che i segnali nocicettivi siano trasmessi centralmente anche in assenza di reali stimoli nocicettivi periferici, promuovendo alla fine il fenomeno della cosiddetta “sensibilizzazione centrale” [18], in cui i neuroni talamici e delle altre strutture della “pain matrix” possono diventare autonomamente iperattivi, con attività neuronale che si innesca indipendentemente da un’attivazione afferente dalla periferia.

In più, c’è il ruolo svolto a livello delle corna dorsali del midollo spinale, messo in evidenza dalle fondamentali ricerche di Melzack e Wall (1965), padri della “teoria del cancello” (Gate Control Theory) che rappresenta una pietra miliare della fisiopatologia del dolore [19].

In parole semplici, la complessità del dolore neuropatico cronico associato alla SM può riconoscere correlati anatomo-funzionali patologici a diversi livelli: da un’alterazione delle afferenze nocicettive, a un’alterazione della “pain matrix” e da un mal funzionamento delle vie inibitorie discendenti.

Infine, un minimo cenno è dovuto al fatto che le correlazioni anatomo-funzionali della fisiopatologia del dolore sono sottese da una ancor più complessa interazione tra sistemi neurotrasmettitoriali (GABAergico su tutti) e neuro-infiammazione [20].

La fisiopatologia del dolore, a maggior ragione nella SM, è dunque complessa, e spesso diversi tipi di dolore coesistono nello stesso paziente, soprattutto in coloro che hanno una disabilità motoria elevata in forme di SM progressiva [11]. Il dolore è correlato alla disabilità [11,21].

Inoltre, non dobbiamo scordare il ruolo della sfera emotivo-affettiva che ha un complesso legame fisiopatologico con il dolore. La componente emozionale del dolore è egualmente importante alla componente somatosensitiva. Il dolore nella SM è strettamente correlato alla fatica SM-correlata, alla depressione e alla disabilità; modifiche di uno di questi sintomi si associano a modifiche degli altri [21]. Sulle possibili spiegazioni e meccanismi comuni fisiopatologici non c’è spazio per soffermarsi. Vale qui solo ricordare che il dolore in sé non è il solo elemento di “sofferenza”, perché esso si associa ad altre componenti tra cui, come detto, l’abbassamento del tono dell’umore, con sentimenti di insicurezza e di ridotta stima di sé, perdita della libido, perdita dell’appetito, ansia, sentimenti di grave disabilità e disturbi del sonno; i pazienti con dolore possono assumere comportamenti di “sick role“, spesso soffrendo dell’anticipazione del dolore (del “pensiero di sentire dolore”) e delle limitazioni imposte in alcune attività che il paziente associa alla possibilità che si scateni dolore [22]. D’altro canto, fattori psicologici modulano la percezione del dolore.

Il dolore, in generale, è associato a compromissione cognitiva nella SM, in particolare recentemente è stata riportata un’associazione tra dolore e alterazione delle funzioni esecutive [23]. Pertanto, più alterate sono le funzioni esecutive, maggiormente è frequente dolore, che peraltro proprio in conseguenza del deficit cognitivo potrebbe essere più difficile da descrivere da parte del paziente, ponendolo a rischio di un mancato trattamento.

È importante ricordare che il peso del dolore sulle attività della vita quotidiana e sulla qualità di vita del paziente con SM [24,25], che apparentemente dovrebbe essere ovvio, è in realtà da poco tempo tenuto in debita considerazione dai medici. Ne è prova il fatto che, nel già citato studio italiano PaIMS [11], solo il 9,4% dei partecipanti stava assumendo una terapia per il dolore e che uno studio nord-americano, basato sul North American Research Committee on MS (NARCOMS) Patient Registry (10.176 pazienti), ha riportato la presenza di una scarsa soddisfazione da parte dei pazienti nella gestione del problema dolore [26].

L’attenzione a un approccio palliativo alla SM con l’avanzare della disabilità è pertanto fondamentale anche per intercettare le necessità di trattamento del dolore [27] ed è questo che auspichiamo possa sempre più realizzarsi nei Centri SM italiani.

Source: Fondazione Serono SM


Il ruolo del trauma nella sclerosi multipla e la neuropsicoterapia

Il rapporto vissuto costantemente con le persone affette da sclerosi multipla (SM) durante le valutazioni e i percorsi psicologici ha fatto emergere un aspetto ricorrente e di notevole importanza, ovvero la frequente presenza di eventi traumatici nelle storie di vita, vissuti durante l’infanzia ma anche da adulti. Eventi stressanti che spesso si verificano in concomitanza di ricadute o di progressioni della malattia oppure accadimenti molto lontani nel tempo ma spesso poco elaborati internamente.

Sappiamo che i traumi infantili influenzano in modo significativo lo sviluppo psicologico, sociale, emotivo e cognitivo del bambino, ma risulta ormai evidente dalle ricerche scientifiche che esistono conseguenze anche sullo sviluppo cerebrale e sulle funzioni neuropsicologiche, infantili e adulte. Le evidenze scientifiche oggi disponibili, per quanto preliminari, suggeriscono che i sistemi di risposta allo stress rivestono un ruolo di primo piano. L’esperienza del trauma sembra attivare una risposta anormale allo stress, che interferisce con il fisiologico sviluppo di aree dell’encefalo più vulnerabili a stimoli stressogeni, che si ripercuotono negativamente su diversi domini cognitivi.

Le esperienze traumatiche infantili influenzano, dunque, il normale sviluppo cerebrale attraverso l’attivazione anomala di questi sistemi biologici dello stress [1], i quali, evoluzionisticamente utili per difenderci dai pericoli ambientali, diventano però disfunzionali nel momento in cui si attivano in modo parossistico; tanto che si è osservata frequentemente la presenza di alterazioni di rilievo nei meccanismi di mielinizzazione del cervello in via di sviluppo, con ripercussioni negative sulle strutture più ricche di fibre mieliniche e con conseguenze sulle abilità cognitive, in particolare sulle funzioni esecutive.

Il percorso di conoscenza e valutazione, in ottica biopsicosociale, di una persona con diagnosi di sclerosi multipla, e cioè con una visione totale della persona stessa da tutti i punti di vista, consente un efficace trattamento neuropsicoterapeutico in grado di intervenire sui deficit cognitivi e sulla compromissione psicologica.

La letteratura medica degli ultimi vent’anni si è ampiamente dedicata a indagare il ruolo dello stress acuto, o per meglio dire la risposta psico-neuro-endocrino-immunologica al trauma psicologico, come elemento scatenante l’insorgenza o l’aggravamento della sclerosi multipla.

Lo studio del 2000, pubblicato su Neurology da Mohr et al. [2], esamina la relazione tra eventi di vita stressanti e disagio psicologico e il successivo sviluppo di lesioni cerebrali che aumentano il gadolinio (Gd+). Per il campione esaminato dallo studio (36 pazienti con SM R-R) è stato rilevato un aumento delle probabilità di sviluppare nuove lesioni cerebrali (Gd+ 8 settimane dopo) a seguito di conflitti e dell’interruzione della routine per via di eventi stressanti. Il risultato dello studio segue l’ipotesi che il trauma e il disagio psicologico siano associati all’aggravamento della malattia nella SM. Questo è il primo studio longitudinale prospettico della relazione tra eventi di vita stressanti, disagio psicologico e attività della malattia misurata dalla risonanza magnetica cerebrale (Gd+).

In un articolo della rivista britannica BMJ [3] è stata studiata la relazione tra gli eventi di vita stressanti non relativi alla malattia e il manifestarsi di aggravamenti delle forme recidivanti-remittenti, e si è giunti alle medesime conclusioni: gli eventi traumatici sono stati associati a un aumento delle esacerbazioni nella sclerosi multipla. Dei 73 pazienti inclusi nello studio, di età compresa tra i 18 e i 55 anni e provvisti di capacità motoria, il 96% (70 persone) ha riportato almeno un evento stressante. Durante lo studio si sono verificate 134 riacutizzazioni in 56 pazienti e 136 infezioni in 57 pazienti.

Un articolo del Journal of Pharmacology and Experimental Therapeutics [4] ha studiato a livelli macroscopici il meccanismo cellulare coinvolto nello stress, illustrando come sia l’ormone implicato nella risposta agli stress, responsabile della corticotropina, sia i mastociti erano coinvolti nella regolazione della barriera emato-encefalica e che probabilmente erano responsabili anche dei disturbi infiammatori del cervello aggravati da stress acuto.

Sono ormai numerose le ricerche che supportano la tesi dell’esistenza di una relazione tra stress psicologico, aggravamento clinico e sviluppo di nuove lesioni cerebrali e ancora di più i ricercatori evidenziano come malattie neurodegenerative croniche e pericolose per la vita possono essere associate al disturbo post-traumatico da stress (PTSD). Lo studio di Ostacoli et al. (2013) [5] è stato un’indagine sulla prevalenza del disturbo da stress post-traumatico nei pazienti con SM e l’identificazione di determinanti significativi del PTSD. Duecentotrentadue pazienti con SM sono stati reclutati consecutivamente e sottoposti a screening per la presenza di PTSD con l’impatto dell’Event Scale-Revised, corroborato dall’intervista clinica strutturata per il DSM-IV. Inoltre, ai partecipanti è stata somministrata la scala di ansia e depressione ospedaliera e la scala di gravità della fatica. Dodici pazienti (12/232, 5,17%) sono stati diagnosticati come affetti da PTSD. Gli autori reputano necessarie ulteriori ricerche sulle caratteristiche psicologiche delle malattie neurodegenerative al fine di pianificare trattamenti adeguati e migliorare la qualità della vita dei pazienti.

La lettura di questi risultati evidenzia che il sistema immunitario risponde ai segnali di sofferenza dell’organismo: di solito tende a mantenere l’integrità della persona, ma quando il trauma emotivo è intenso e violento, l’integrità psichica può vacillare. La sensazione di inadeguatezza che spesso si affianca a questi stati di sofferenza emotiva è la stessa situazione che vive il sistema immunitario, la sua azione può diventare confusa e la malattia autoimmune si può presentare con maggiore facilità. La sclerosi multipla con i suoi molteplici aspetti interessa tutte le aree di funzionamento dell’individuo: fisico, psicologico, cognitivo, comportamentale e affettivo/relazionale. Di fronte a una persona in difficoltà, che richiede aiuto, è importante conoscere la patologia organica di cui soffre: il che significa rendersi conto di quali fattori eziopatogenetici possano averla scatenata, quali sintomi che può provocare, quali terapie dovrà affrontare e quali ripercussioni tutto ciò può comportare nelle sue relazioni e nel suo funzionamento generale (lavorativo e sociale). Non vanno assolutamente trascurati la storia personale e l’assetto psicologico prevalente della persona, oltre al contesto familiare e sociale in cui è inserito: tutti aspetti che rendono ogni patologia soggettiva, come dovrà esserlo il trattamento idoneo alle specifiche problematicità.

La patologia neurologica, in particolare, ha necessità di una lettura multifattoriale, per non rischiare di trascurare elementi importanti.

Per riuscire in questo inquadramento viene in aiuto il modello biopsicosociale, che considera lo stato di salute e di malattia determinato da fattori sia biologici sia psicologici e sociali. Questo modello, che analizza il concorrere di più variabili, promuove l’obbligatorietà di una relazione tra le varie figure professionali, il paziente e la famiglia. Lo psicologo psicoterapeuta deve assumere competenze della neuropsicologia, della neurologia e della psicoterapia in modo che il paziente venga trattato sia rispetto alla personalità pregressa e attuale, sia cognitivamente che socialmente, per garantire un ottimale inserimento nella quotidianità.

La neuropsicoterapia è la dimostrazione dell’utilità della visione olistica dell’individuo verso strategie riabilitative di successo, dove sono elaborati contemporaneamente i sentimenti negativi legati alla perdita del normale funzionamento, l’accettazione e il lavoro di recupero dei deficit presenti, la ricerca di nuovi equilibri esistenziali e il rinforzo dell’autostima, affinché vi possa essere un funzionale inserimento sociale. In questa prospettiva la presa in carico del paziente ha come obiettivo la definizione e la riabilitazione dei deficit ma anche l’integrazione delle risorse dell’individuo nel suo contesto di vita [6].

Source: Fondazione Serono SM


Frequenze e caratteristiche delle diagnosi errate nelle persone con sclerosi multipla

Uno studio eseguito in Argentina ha valutato la frequenza delle diagnosi errate formulate nelle persone con sclerosi multipla e ha registrato le malattie con le quali essa è stata confusa. I risultati hanno indicato che la frequenza delle diagnosi errate è stata del 16%.

Gli autori sono partiti dalla considerazione che in Europa e in Nord America sono state fatte indagini per stabilire la frequenza degli errori diagnostici che hanno preceduto una diagnosi confermata di sclerosi multipla. Ad esempio, Solomon e colleghi hanno riportato che una percentuale variabile fra il 30 e il 67% di persone afferite a Centri specialistici con un sospetto diagnostico di sclerosi multipla non era affetto dalla malattia. Un’altra analisi di casi ha indicato che più del 50% di soggetti nei quali era stata confermata una diagnosi di sclerosi multipla ne avevano avuto, in precedenza, una sbagliata per almeno 3 anni e più del 5% l’avevano avuta per più di 20 anni.  Lo stesso tipo di analisi non era mai stata fatta in Sud America dove ci sono sistemi sanitari che hanno strutture e risorse diverse, rispetto alle aree geografiche sopra citate. Per questo motivo hanno eseguito una ricerca con l’obiettivo di definire la frequenza degli errori di diagnosi nelle persone con sclerosi multipla e di individuare eventuali fattori che entrano in gioco in tali errori. In un Centro di riferimento per la sclerosi multipla sono state analizzate, in maniera retrospettiva, le cartelle cliniche di soggetti valutati tra l’aprile 2013 e il marzo 2021. Sono stati registrati: la diagnosi formulata prima dell’accesso al Centro, la diagnosi finale, le caratteristiche cliniche, paracliniche e demografiche di ciascun soggetto e i trattamenti prescritti. Sono stati identificati 736 casi, dei quali 572 hanno ottenuto una diagnosi di sclerosi multipla presso il Centro. Di questi, 89 (16%) avevano ricevuto in precedenza una diagnosi sbagliata. Nelle femmine la probabilità che si verificasse tale problema è stata maggiore dell’83%, con una differenza statisticamente significativa (p=0.034) rispetto ai maschi. Le diagnosi errate ricevute più spesso dai malati di sclerosi multipla sono state: malattie dei vasi del cervello, Sindrome radiologicamente isolata e cefalea. Settantaquattro (83%) dei malati che avevano ricevuto una diagnosi sbagliata, avevano presentato una Sindrome con demielinizzazione atipica, 62 (70%) avevano immagini atipiche alla risonanza magnetica e a 54 (61%) era stato prescritto un farmaco modificante la malattia.

Nelle conclusioni gli autori hanno sottolineato che il 16% dei soggetti che successivamente avevano ricevuto una diagnosi di sclerosi multipla, in precedenza ne avevano avuto un’altra errata e tale problema si è presentato più spesso nelle donne. Hanno raccomandato un’accurata applicazione dei criteri di McDonald per prevenire gli errori diagnostici.                      

Source: Fondazione Serono SM


L’importanza della psicoterapia nella sclerosi multipla

Le malattie fisiche croniche o degenerative sono ad oggi largamente diffuse, soprattutto nei Paesi più sviluppati, e arrivano a interessare circa un quarto della popolazione.

Punto focale per il buon esito delle cure e per il mantenimento e miglioramento della qualità della vita è la dimensione psicosociale della persona che ha la malattia, e non la malattia di per sé [1]. Le persone infatti reagiscono agli eventi della vita secondo la propria soggettività, che porta a sviluppare equilibri adattativi diversi in base alle risorse personali e a quelle provenienti dal contesto in cui la persona vive; risorse che riescono a sostenere il paziente e a farlo sentire protagonista attivo nella gestione della malattia.

Il primo obiettivo del sistema di cura è quello di stabilire e mantenere una funzionale alleanza terapeutica tra paziente e medico e cioè la condivisione tra i due soggetti di obiettivi riguardanti il trattamento della patologia, la chiara definizione di compiti reciproci e il legame di fiducia e rispetto che si stabilisce all’interno della relazione stessa [2]. Un altro importante obiettivo è quello di valutare lo stress, il disagio psicologico e i disturbi psichici innescati o aggravati dalla malattia.

Il ruolo della psicologia verte dunque su questi aspetti: la valutazione psicologica e il sostegno alla costruzione di un’alleanza e aderenza alla terapia, che incidono sul decorso della malattia, sulle complicanze e sulla qualità della vita.

Le patologie neurologiche, tra cui la sclerosi multipla, vengono sempre più studiate nelle loro relazioni con l’ambiente esterno [3], con lo stato interno dell’organismo e con lo stile di vita, grazie alla ricerca interdisciplinare, che include la psicologia e la psicoterapia clinica nell’analisi di queste condizioni.

L’approccio sistemico, definibile anche biopsicosociale, alla malattia neurologica è stato sollecitato dalle evidenze scientifiche sull’influenza del comportamento sulla plasticità cerebrale: la psiche, la cultura e l’organismo intero interagiscono sull’assetto dei circuiti nervosi, modellandoli in senso adattativo e disadattativo.

La letteratura scientifica concorda ormai da anni sulla presenza in comorbilità di disturbi di natura psicologica in pazienti affetti da patologie neurologiche croniche e degenerative.

Nelle persone affette da sclerosi multiplala prevalenza, nell’ambito della psicopatologia, è dei disturbi dell’umore, soprattutto per gli episodi depressivi, sia rispetto alla popolazione generale sia ad altre patologie neurologiche. Oltre ai disturbi dell’umore si riscontrano stati d’ansia e di stress patologico, con una maggiore incidenza nei primi due anni dopo la diagnosi.

Le problematiche psicologiche vissute dai pazienti sclerosi multipla sono molteplici, complesse e riguardano caregiver, familiari e partner, essendo una patologia estremamente variabile e diagnosticabile in giovane età.

Queste persone devono essere valutate e prese in carico in modo tempestivo, anche per mantenere positivo il tasso di aderenza alla terapia, fattore fondamentale per il buon decorso della patologia. Contemporaneamente è imprescindibile un’analisi della qualità della vita e del contesto socio-relazionale e lavorativo.

Moltissimi sono gli studi e le metanalisi che dimostrano il miglioramento delle persone con patologia cronica che hanno intrapreso una psicoterapia, soprattutto se paragonate a quelle che hanno utilizzato solo una terapia farmacologica per la gestione della sintomatologia psichica [4].

In una metanalisi del 2009 [5] l’effetto della psicoterapia su i soggetti studiati era elevato sia per gli aspetti psicopatologici sia per i sintomi somatici e le funzioni adattive, sia a breve termine (3 mesi dalla fine del trattamento psicoterapico) sia a lungo termine (dai 9 ai 60 mesi dalla fine del trattamento), il che evidenzia l’effetto di cambiamento e ristrutturazione prodotto dalla psicoterapia.

Ma che cos’è la psicoterapia?

Nel 1872 il medico inglese Daniel Hack Tuke coniò il termine guarigione psicoterapeutica, cioè guarigione del corpo mediante le funzioni psichiche del paziente.

Anche Frederik Willem van Eeden nel 1889 utilizza il termine psicoterapia per indicare la guarigione del corpo mediante la mente coadiuvata dall’impulso di una mente sull’altra.

In Italia la pratica psicoterapeutica è stata regolamentata soltanto nel 1989 dalla Legge Ossicini, che ne stabilisce i requisiti legali: solo gli psicologi e i medici possono approdare alla specializzazione in psicoterapia, esercitabile a seguito di regolare iscrizione all’ordine professionale.

La psicoterapia è un atto medico che si fonda su tre presupposti fondamentali: il setting (il luogo e il tempo della cura), il transfert (la relazione del paziente con il teraputa) e l’interpretazione (l’atto terapeutico vero e proprio).

A questo fa seguito un’altra domanda, che cosa cura la psicoterapia?

Il sintomo psichico con cui il paziente arriva a formulare una richiesta di aiuto rappresenta un segnale vitale che indica che qualcosa di profondo è entrato in crisi; l’elaborazione psichica di questo stato di disagio o sofferenza può portare al superamento evolutivo di ciò che è entrato in crisi. La psicoterapia ha in sé un’intenzionalità di cura, un tendere verso la guarigione del paziente, che consiste nell’individuazione dell’agente patogeno (la causa scatenante) e poi, attraverso il rapporto con il terapeuta, recuperare quello che la malattia aveva lesionato in termini di vitalità, affettività e pensiero [6].

La psicoterapia è la cura della mente, cioè di quell’aspetto di noi che si occupa di percepire il mondo, in particolare il mondo umano, e di interagirvi [7].

Per comprendere il concetto di malattia mentale è fondamentale conoscere la fisiologia della mente, che nasce sana e può sviluppare una patologia per fattori ambientali, rintracciabili in rapporti interumani non validi o addirittura malati [8].

Quando la mente funziona bene è conservato il rapporto e lo scambio tra il mondo esterno e quello interno, quando qualcosa non va questo scambio si compromette e la lettura di ciò che abbiamo dentro di noi e di ciò che ci circonda è alterata, la fantasia e la vitalità, competenze prettamente umane, si riducono o si impoveriscono.

La persona non riesce a capire cosa sente, qual è il senso delle cose, fatica a comprendere gli altri e a vivere relazioni sane; fino ad arrivare all’alterazione della percezione fisica, come grado più elevato di gravità.

Le conseguenze di questo malessere possono essere comportamenti abnormi oppure stati d’animo pesanti come angosce, fobie, pensieri incoerenti, anche non visibili esternamente, che però possono invalidare tutti i campi d’azione della persona che ne soffre.

Compito della psicoterapia è dunque rintracciare la malattia nel comportamento, nella mente cosciente e, per lo psicoterapeuta con una formazione psicodinamica, nella mente non cosciente, propria dei sogni ma anche “visibile e conoscibile” nei rapporti interumani profondi, tra cui quello psicoterapeutico.

Il Protocollo di ricerca-intervento psicologico “L’aderenza terapeutica nei pazienti con sclerosi multipla”, svolto presso l’Azienda Ospedaliera S. Maria di Terni a partire dal 2015 con la collaborazione della Struttura Complessa di Neurologia e il Servizio di Psicologia Ospedaliera, ne è un’ulteriore dimostrazione.

Tale Ricerca ha avuto la finalità di migliorare l’aderenza alla terapia farmacologica tenendo sotto controllo la variabile psicologica; partendo dal dato che il miglioramento della rappresentazione di malattia, degli stati d’ansia e depressivi, garantisce: una gestione adeguata dello stress, una maggiore consapevolezza di tutti gli aspetti della malattia stessa e una risposta psicocomportamentale appropriata, che potrebbe esitare in una migliore aderenza alla terapia.

Sono state coinvolte 78 persone con diagnosi di sclerosi multipla, di cui 44 pazienti appartenenti al gruppo sperimentale, che hanno usufruito di un percorso di psicoterapia a seguito di una valutazione clinica, e 34 pazienti appartenenti al gruppo di controllo, a cui sono stati somministrati soltanto i test di valutazione di stress, ansia e depressione (DASS 21) e di aderenza al trattamento (Test di Morisky).

La prima annualità del progetto (iniziata a febbraio 2015 e terminata a gennaio 2016) aveva evidenziato la mancanza di significatività in alcuni aspetti e correlazioni a causa di un campione poco numeroso che però aveva comunque lasciato emergere risultati interessanti. Il gruppo di controllo era rimasto invariato nei mesi che erano intercorsi tra la prima valutazione psicologica e la seconda, a distanza di circa 9 mesi.

Il gruppo sperimentale invece aveva mostrato un evidente cambiamento tra la prima valutazione e la seconda, avvenuta dopo un percorso di psicoterapia individuale; in particolare gli stati di stress e di depressione riportati dalle persone al primo colloquio erano diminuiti di intensità, mentre l’ansia non aveva mostrato cambiamenti rilevanti. Al contempo la misurazione dell’aderenza al trattamento farmacologico aveva mostrato un incremento significativo dopo il percorso psicologico.

Al termine della seconda annualità (febbraio 2015-febbraio 2017), a seguito dell’analisi statistica ma anche di un’analisi qualitativa del progetto, è emerso quanto segue.

Il gruppo di controllo, che non ha usufruito di un percorso di psicoterapia ma soltanto di una valutazione e consulenza psicologica, non ha mostrato cambiamenti a livello psicologico e in termini di aderenza al trattamento, se non un aumento dei livelli di depressione. Gli stati psicologici non trattati tendono, secondo questa analisi, a restare invariati nel tempo o a peggiorare, senza però dimostrare una verificabile incidenza negativa sull’aderenza al trattamento.

Il gruppo sperimentale, che ha usufruito di percorsi di psicoterapia individuale o di gruppo, con eventuale coinvolgimento del caregiver, ha mostrato un miglioramento degli stati psicologici a rischio, quali ansia, stress e depressione, ma soprattutto un miglioramento del livello di aderenza al trattamento. Seppur non ci siano correlazioni statisticamente significative tra questi aspetti, è evidente che un lavoro a livello psicologico, comporta un miglioramento della percezione di sé da parte del paziente, anche in relazione alla malattia.

Alla luce di quanto esposto possiamo considerare raggiunti gli obiettivi del progetto di ricerca-intervento e quindi verificata l’utilità della psicoterapia nel trattamento della Sclerosi Multipla, soprattutto in termini di miglioramento della qualità di vita.

Source: Fondazione Serono SM


Quali fattori aumentano il peso dell’astenia nella sclerosi multipla?

Specialisti norvegesi hanno valutato i fattori che influenzano la gravità dell’astenia nelle persone con sclerosi multipla. I risultati hanno indicato che i livelli di disabilità, di ansia e di depressione e fattori socio-economici possono peggiorare l’astenia.

La frequenza di comparsa della sclerosi multipla sta aumentando e in Norvegia è passata da 203 casi su 100.000 nel 2012 a 232 su 100.000 nel 2018. L’astenia provocata dalla sclerosi multipla è un problema rilevante in un’ampia quota di persone affette dalla malattia. Si può presentare in qualsiasi sua fase e in qualsiasi momento della sua evoluzione e influenza negativamente la qualità di vita e la capacità di lavorare. L’astenia può essere definita come una percezione soggettiva di mancanza di energia fisica e/o mentale, che interferisce con le attività che si svolgono quotidianamente o con quelle che si desidererebbe svolgere. Un altro modo di spiegarla è il seguente: una sensazione di stanchezza, di mancanza di energia e di spossatezza, non giustificata dagli sforzi fatti, che sopraffà la persona e che va distinta dalla tristezza e dalla debolezza che è percepita da un malato o dal suo caregiver. Studi precedenti hanno riportato una prevalenza dell’astenia nella sclerosi multipla variabile fra il 60 e il 90% e Broch e colleghi, gli autori del presente articolo, hanno rilevato di recente una frequenza dell’81% nelle persone affette dalla malattia. Si è anche osservato che alcuni fattori ne favoriscono la comparsa e tra c’è essi un maggiore livello di disabilità. Broch e colleghi hanno quindi eseguito uno studio di coorte su una casistica di persone con sclerosi multipla seguita in tre Centri Norvegesi. Hanno usato la scala dell’astenia per le funzioni motorie e cognitive compilata dai malati e hanno raccolto, dal Servizio Nazionale di Statistica della Norvegia e da questionari specifici, informazioni sulla loro situazione socio-economica. Inoltre, per individuare la presenza di ansia e di depressione, è stata impiegata una scala specifica. Le caratteristiche cliniche sono state raccolte dalle cartelle cliniche dei Centri. La frequenza di risposta ai questionari è stata del 64% e ha riguardato, quindi, 1599 casi su 2512. Il 70% di chi ha risposto era di sesso femminile e l’età media è stata di 52 anni. Le persone con un livello di scolarità maggiore hanno riportato una minore gravità di astenia. Ricevere una pensione di invalidità, essere divorziati e avere figli sono stati tutti fattori associati a una maggiore gravità dell’astenia, come lo sono stati una minore scolarità dei genitori, un reddito basso, la condizione di fumatore e la presenza di altre malattie autoimmuni associate alla sclerosi multipla. Infine, Broch e colleghi hanno osservato una frequenza più alta di ansia e di depressione nei soggetti con sclerosi multipla e astenia, rispetto a quelli che non presentavano quest’ultimo sintomo. Nelle conclusioni gli autori hanno sottolineato che, nella loro casistica, oltre a sesso femminile, disabilità più avanzata, ansia e depressione, anche condizioni socio-economiche svantaggiate si sono associate, in maniera indipendente dagli altri fattori, all’astenia. Hanno aggiunto che di tali fattori bisogna tener conto nel pianificare strategie che la gestiscano. 

Source: Fondazione Serono SM


Nuovi parametri di efficacia dalla parte del paziente

Nella sclerosi multipla, così come in tutte le patologie, il “paziente” deve essere considerato come l’elemento centrale su cui organizzare la gestione dell’attività clinica. A causa della natura eterogenea della malattia, lo sviluppo di misure valide e affidabili per valutare le caratteristiche della malattia dalla prospettiva del paziente è diventato un’esigenza primaria al fine di consentire una gestione efficiente e olistica della sclerosi multipla [1,2]. Negli ultimi anni abbiamo assistito a una notevole espansione delle opzioni terapeutiche nella sclerosi multipla e la necessità di rilevare fenomeni clinici e para-clinici ha alimentato la concezione di identificare un profilo preciso del paziente, per consentire decisioni terapeutiche più individualizzate [3,4]. I risultati della gestione terapeutica, grazie ai patient reported outcome (PRO), acquisiscono importanza pari a quella degli altri outcome clinici o di neuroimmagine classicamente valutati nella sclerosi multipla [5]. Il termine PRO è generico e viene utilizzato per definire qualsiasi informazione “sulle condizioni di salute di un paziente che proviene direttamente dal paziente stesso, senza interpretazione della risposta del paziente da parte del medico”[6].

L’identificazione e la raccolta di misure di outcome chiare, complete e universalmente accettate rappresentano il primo passo della medicina centrata sul paziente ma, sfortunatamente, manca un “gold standard” di queste misure nella ricerca e nella pratica clinica. I PRO vengono raccolti tramite questionari standardizzati per la routine clinica. I PRO comunemente usati come raggiungimento di risultati principali nei trial clinici e negli studi di pratica clinica includono misure riguardanti i sintomi, la funzionalità, la qualità della vita (QoL), la soddisfazione, la compliance e la preferenza verso il trattamento del paziente [7,8]. Forniscono quindi preziose informazioni.

Selezione di PRO

I PRO possono essere classificati come generici o mirati. I PRO generici includono domande utilizzabili sia in pazienti sani sia in pazienti affetti da una qualsiasi patologia. I PRO mirati hanno come target malattie, gruppi di sintomi, domini o popolazioni specifici [5]. Per poter selezionare un PRO possiamo basarci su una triade di domande classica: qual è l’outcome appropriato da misurare nello studio? Come misurare questo outcome? Chi potrebbe fornire informazioni rilevanti sugli outcome? [9] E in aggiunta nel contesto clinico dobbiamo considerare come poter dare significato clinico agli outcome. Infine, la decisione definitiva non può prescindere dalla valutazione dell’appropriatezza della scelta effettuata nel contesto linguistico. I PRO una volta selezionati devono essere valutati nella loro capacità di fornire risultati affidabili, validi e utili [10]. Queste caratteristiche sono sufficienti a stabilire i PRO utilizzati nei trial clinici, mentre i PRO applicati nella pratica clinica devono presentare ulteriori importanti caratteristiche quali l’essere ben accettati dai pazienti ed essere efficienti in termini di tempo e costi [6].

Limiti dei PRO nella sclerosi multipla

L’utilizzo dei PRO comprende alcuni limiti, tra i quali i più comuni sono:

  • La presenza di domande irrilevanti per i pazienti con sclerosi multipla, specialmente nell’utilizzo di scale generiche, che possono far sentire le loro opinioni non pienamente apprezzate.
  • Alcune modalità e metodi di somministrazione dei questionari complicano l’attribuzione dei punteggi e l’analisi dei PRO [11].
  • Spesso, nella realtà della sclerosi multipla, i PRO vengono selezionati e utilizzati senza una chiara giustificazione [12].
  • Le scale generiche, utilizzate frequentemente nella sclerosi multipla, contengono alcune domande irrilevanti per specifici gruppi di pazienti e mancano aree di particolare rilevanza [7].

Nell’attuale panorama della sclerosi multipla, l’uso dei PRO è limitato quasi esclusivamente ai trial clinici. Nella pratica clinica, i PRO di ciascun paziente sono raccolti mediante interviste cliniche durante le visite nei centri sclerosi multipla e il fattore tempo diviene un limite importante. Il paziente, infatti, deve permanere un tempo maggiore in ambulatorio per compilare i questionari, i cui risultati devono essere successivamente elaborati non essendo subito a disposizione del clinico. Questo ne limita l’impiego e l’effettiva efficacia nella pratica clinica.

Approcci futuri di ricerca

L’utilizzo dei PRO dovrebbe contribuire a rafforzare la relazione paziente-medico, nota però per essere incline a prospettive discordanti. È fondamentale determinare se le percezioni dei pazienti sono coerenti con quelle dei medici [4]. I trial clinici con l’applicazione programmata di scale di valutazione rappresentano una modalità per allineare medico e pazienti nelle loro rispettive visioni della malattia [6]. Invece nella pratica clinica tale concordanza è minore, viste le diverse modalità di raccolta dei dati e le visite più brevi e meno frequenti. Comprendere le disparità tra le valutazioni del medico e quelle del paziente è importante per garantire che i piani terapeutici siano allineati con le esigenze dei pazienti.

In una malattia complessa come la sclerosi multipla, non è affatto raro che i pazienti ricorrano alle cure di diversi specialisti sanitari, e la possibilità per il neurologo di parlare un “linguaggio comune” in termini di outcome di malattia potrebbe aumentare l’efficienza nell’utilizzo delle risorse dei servizi sanitari. Pertanto, il neurologo dovrebbe essere in grado di integrare più strumenti di cura in una gestione terapeutica dinamica e interattiva attorno alle molteplici esigenze dei pazienti [13]. Il passaggio da un dialogo di tipo qualitativo a uno di tipo quantitativo e standardizzato, come la raccolta di dati attraverso PRO, nel setting multidisciplinare è necessario per produrre dati sulle prospettive e le esperienze dei pazienti che siano coerenti, affidabili e semplici, tali da supportare il passaggio successivo nella gestione della sclerosi multipla, il processo decisionale condiviso, il quale garantisce anche la partecipazione del paziente [14].

I sintomi e le disabilità fisiche dei pazienti spesso non vengono rilevati dagli operatori sanitari, in particolare negli intervalli tra le visite cliniche. Inoltre, i pazienti con sclerosi multipla sono spesso colpiti da diversi gradi di deterioramento cognitivo e possono dimenticare e non essere in grado di riferire come si sentivano nei giorni prima delle visite programmate. Una potenziale soluzione a questo problema è far sì che i pazienti rispondano elettronicamente alle domande sui loro sintomi, tramite Internet o tramite app sui loro dispositivi elettronici come smartphone o tablet [15]. Le loro risposte potrebbero quindi essere trasmesse in un sistema di cartelle cliniche elettroniche e i medici potrebbero ricevere notifiche automatiche sui sintomi che meritano attenzione. Si avrebbe un enorme impatto nel modificare la conduzione clinica, il monitoraggio e la gestione dei dati, consentendo una raccolta di informazioni più rapida ed efficiente e un’elevata sicurezza nella memorizzazione dei dati.

Conclusioni

Abbiamo sempre più conferme a sostegno dell’uso dei PRO nella pratica clinica, in quanto fondamentale supporto per valutare l’efficacia dei diversi trattamenti e interventi terapeutici. La necessità di prestare maggiore attenzione ai PRO nella sclerosi multipla è direttamente collegata alla consapevolezza, da parte dei medici, che una valutazione completa e di alta qualità dell’impatto del trattamento e dell’assistenza richiedono un approccio centrato sul paziente. Nessuna terapia personalizzata può essere sviluppata senza stabilire metriche incentrate sul paziente perché il successo di un intervento, in termini di efficacia e sicurezza, dipende dal suo impatto specifico sulla vita di ogni singolo paziente. I PRO potrebbero essere la chiave per soddisfare le esigenze irrisolte del paziente con sclerosi multipla, permettendo di misurarne specifiche caratteristiche di malattia in modo da concentrarci su aspetti della sclerosi multipla più definiti.

L’utilizzo della tecnologia informatica potrebbe rappresentare una delle modalità per la raccolta di PRO permettendo l’integrazione di dati individuali e lo sviluppo di protocolli di cura multidisciplinari, ma senza le dovute precauzioni e pianificazioni l’aggiunta di dati riportati dai pazienti può contribuire a generare confusione nello sviluppo di tali protocolli. Vi è dunque una evidente necessità di sviluppo di PRO di alta qualità e specifici per la sclerosi multipla, che valutino le reali problematiche dei pazienti e il reale impatto dei nostri interventi clinici.

Source: Fondazione Serono SM


Interazioni tra farmaci nella cura della sclerosi multipla

Uno studio eseguito in Germania ha valutato frequenza e rilevanza clinica delle interazioni fra i farmaci assunti dalle persone in cura per la sclerosi multipla. I risultati hanno indicato che in questi soggetti è frequente la somministrazione di più prodotti e, in oltre la metà dei casi, c’è un rischio almeno potenziale di interazione.

La somministrazione di più farmaci in uno stesso soggetto viene definito politrattamento e, nella maggior parte dei casi, si riferisce all’associazione di almeno 5 prodotti diversi. Il politrattamento è frequente soprattutto negli anziani, che spesso sono affetti da più di una patologia, e nelle persone che hanno malattie croniche gravi, inclusa la sclerosi multipla. In anni recenti si è significativamente prolungata la durata media della vita ed è aumentata anche la prevalenza della sclerosi multipla, fino a un numero stimato di 2.8 milioni di malati a livello mondiale. La fisiopatologia della sclerosi multipla è autoimmune e provoca danni a varie strutture del sistema nervoso centrale, diffondendosi nel tempo e determinando combinazioni di sintomi diverse da un caso all’altro. Non esiste una cura della malattia, ma ci sono trattamenti che, rispettivamente, controllano i sintomi o riducono la diffusione del danno e il peggioramento della disabilità. A ciò consegue che un malato di sclerosi multipla può dover assumere un farmaco modificante la malattia e uno o più prodotti per ridurre i sintomi. Se a queste cure se ne devono aggiungere altre per eventuali malattie associate, si configura un politrattamento. L’assunzione di più farmaci non crea solo problemi di accettazione da parte del malato, ma amplifica anche il rischio di interazioni tra le molecole assunte. Per definire il rischio di tali interazioni, Bachmann e colleghi hanno analizzato le informazioni relative a 627 malati di sclerosi multipla, nei quali hanno verificato il numero e la gravità delle interazioni eventualmente rilevate. Del totale della casistica, il 53.3% assumeva almeno 5 farmaci, considerando sia quelli prescritti dal medico che quelli acquistati direttamente dal malato, e il 38.6% assumeva almeno 5 farmaci tutti prescritti dal medico. In media, ogni soggetto riceveva 5.3 prodotti. Sempre riferendosi ai 627 casi considerati, si è osservato che il 63.8% ha avuto almeno un’interazione fra farmaci con una media di 4.6 interazioni per persona. Infine, meno del 4% delle interazioni verificatesi è stato moderato o moderato grave e, per la maggior parte, sono state lievi.

Nelle conclusioni gli autori hanno sottolineato che le prescrizioni di farmaci dovrebbero essere attentamente verificate per il rischio di interazioni, in modo da prevenirle. Secondo Bachmann e colleghi, sia i medici che i farmacisti dovrebbero essere più interessati al problema delle interazioni e alle soluzioni per evitarle.   

Source: Fondazione Serono SM


Sclerosi multipla, malattie vascolari e funzioni cognitive

Uno studio ha valutato gli effetti dell’associazione di malattie vascolari alla sclerosi multipla sulle evidenze raccolte con la risonanza magnetica e sull’efficienza delle funzioni cognitive. I risultati hanno indicato che, nelle persone con tali quadri, con la risonanza magnetica si osservano specifiche alterazioni, alle quali corrisponde una minore efficienza delle funzioni cognitive.  

Precedenti ricerche hanno rilevato che l’associazione di malattie vascolari alla sclerosi multipla comporta alterazioni nella struttura del cervello e che le persone che presentano tali quadri hanno una riduzione dell’efficienza delle funzioni cognitive. Definire i rapporti tra causa ed effetto di questi fenomeni è utile a programmare interventi che riducano il loro impatto sulla vita dei malati e a verificare l’efficacia degli interventi stessi. Per questo, Marrie e colleghi hanno eseguito uno studio mirato a verificare le relazioni fra patologie vascolari, alterazioni delle funzioni cognitive e modificazioni della struttura del cervello in malati di sclerosi multipla. Hanno arruolato nella ricerca persone affette dall’insieme di queste malattie e le hanno sottoposte a verifiche relative a pressione arteriosa, concentrazioni nel sangue dell’emoglobina glicata ed efficienza delle funzioni cognitive. Queste ultime sono state valutate utilizzando quattro diversi test standardizzati. I punteggi dei singoli test sono stati convertiti in punteggi-z compensati per età, sesso e livello scolastico. Inoltre, è stata eseguita una risonanza magnetica del cervello, con misurazioni dei volumi del talamo e dell’ippocampo e valutando la diffusività media della materia grigia e della materia bianca apparentemente normale. Anche tutti questi riscontri sono stati convertiti in punteggi-z compensati per età e sesso. Nell’analisi finale sono state poste in relazione le combinazioni delle valutazioni delle funzioni cognitive e della risonanza magnetica. Un metodo statistico specifico è stato usato per definire le relazioni fra il numero di malattie vascolari presenti e i dati relativi alle funzioni cognitive. I 105 soggetti considerati erano per l’84.8% di sesso femminile, avevano un’età media di 51.8 ± 12.8 anni e l’età alla comparsa dei sintomi della sclerosi multipla era di 29.4 ± 10.5 anni. Il 35.2% della casistica aveva riportato una patologia vascolare associata, il 15.2% ne aveva riferite due e l’8.6% tre o più. L’analisi della correlazione canonicale tra le variabili relative alle funzioni cognitive e quelle della risonanza magnetica ha identificato un paio di variate (traccia di Pillai = 0.45, p=0.035). In particolare, due dei test delle funzioni cognitive hanno fornito i dati più significativi, mentre il volume del talamo e la diffusività media nella materia grigia sono stati i riscontri della risonanza magnetica più importanti. La correlazione fra alterazioni delle funzioni cognitive e risultati della risonanza magnetica è stata di 0.50 e questi dati sono stati usati per un’ulteriore analisi, che ha dimostrato un’associazione tra la presenza di malattie vascolari, le evidenze della risonanza magnetica e le alterazioni delle funzioni cognitive.                         

Gli autori hanno concluso che i risultati della loro ricerca hanno dimostrato che la presenza di malattie vascolari, nei malati di sclerosi multipla, si associa a una riduzione dell’efficienza delle funzioni cognitive e che questa relazione è, almeno in parte, dovuta a modificazioni della struttura macroscopica o microscopica del cervello. 

Source: Fondazione Serono SM