Comunicare agli altri la propria malattia è una difficoltà frequente, che spesso nasconde una più complessa resistenza, quella di parlare con se stessi.

Sono tante le persone affette da sclerosi multipla che si nascondono, evitano di parlare della propria malattia oppure la confessano solo alle persone più intime, genitori o partner, ma faticano o hanno timore di dirlo a datori e colleghi di lavoro e anche agli amici.

Temono di essere incontrati nei Centri di Sclerosi Multipla e arrivano perfino a rifiutare di partecipare a gruppi terapeutici, psicoeducativi o a incontri di associazioni.

Queste persone raccontano di avere ancora paura di essere stigmatizzate o di subire ripercussioni sul lavoro, pensano che il partner potrebbe arrivare a lasciarli, così come gli amici a evitarli.

Eventi spiacevoli e spesso traumatici come quelli riportati possono accadere: subire ingiustizie o annullamenti anche da parte di chi si ama è possibile, ma molto spesso dietro al timore di essere attaccati c’è la sofferenza di chi si trova a fronteggiare una diagnosi di patologia cronica e neurodegenerativa.

È pensabile che il disagio o la vergogna siano dovute prevalentemente e più profondamente al problema di accettare la malattia.

Accettare etimologicamente sta a significare prendere con un fine, con intenzione, come a sottolineare il carattere attivo di questa azione. Ricevere una diagnosi di malattia non è solo un evento che subiamo passivamente, accompagnato da emozioni negative. Ricevere e ancor più accettare una diagnosi implica un impegno della persona ad integrare questo nuovo fatto nella quotidianità, al fine di mantenere una qualità di vita soddisfacente.

Questo passaggio è estremamente complesso e vale la pena approfondire alcuni concetti chiave per comprendere al meglio quale potrebbe essere l’atteggiamento più funzionale da adottare, per superare questa fase critica.

I sentimenti che accompagnano la comunicazione di una diagnosi di malattia come la sclerosi multipla sono spesso la tristezza, la rabbia e l’ansia, accompagnate da un certo grado di stress psicofisico. È normale vivere queste emozioni, sarebbe altrettanto dannoso fingere di non provarle o arrivare a uno stato di dissociazione, cioè di disconnessione dai propri pensieri, tale da non sentirle.

Viviamo in un mondo che fatica a tollerare la sofferenza, che pensa gli uomini e le donne come invincibili e dunque il primo passaggio è proprio quello di rifiutare questo stereotipo e vivere le sensazioni più critiche e forti che si possono scatenare in conseguenza a certi “lutti”.

Accettare autenticamente una malattia equivale a provare un sentimento di lutto, nel senso di perdita o profondo cambiamento del proprio stile di vita, delle aspettative, dei progetti futuri e dell’immagine che si ha di sé; e il lutto necessita di tempo per essere elaborato.

Vivere con il proprio dolore è segno di un corretto rapporto con la realtà e ci permette, con il tempo adeguato, di reagire grazie alla vitalità: un concetto importantissimo che va ben oltre la comune accezione di forza muscolare o agilità fisica, essa è caratteristica costitutiva dell’essere umano [1] e ha un ruolo cardine per la costituzione dell’affettività, altro aspetto interessante di cui parleremo più avanti.

Hayes e Wilson definiscono l’accettazione come “la resa nella futile lotta per fermare i pensieri automatici e intrusivi sulla malattia”, “la sosta nella ricerca di una soluzione definitiva per i sintomi fisici” [2]. Questo approccio non vuole rattristare ulteriormente la persona ma spingerla a indirizzare le proprie energie e i propri affetti verso altri o nuovi obiettivi e progetti, vuole rimettere al centro l’individuo nella sua bella complessità e non tenere sempre il focus sulla malattia, che invece rischia di assorbire ogni pensiero e attività.

È confermato da molti studi, uno dei quali di Krats et al. del 2013 [3], che la maggiore accettazione della propria situazione di vita si associ a una minore depressione e a una migliore qualità di vita.

Quest’ultimo concetto, la qualità di vita o più specificatamente la health-related quality of life (HRQoL) cioè la qualità stessa in riferimento alla salute, è di fondamentale importanza in campo sanitario, poiché restituisce al paziente la sua soggettività: ogni evento o intervento medico è valutato in base a come viene percepito dalla persona in questione.

L’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) al riguardo proponeva nel 1995 la seguente definizione: “la qualità di vita è la percezione dell’individuo della propria posizione nella vita nel contesto dei sistemi culturali e dei valori di riferimento nei quali è inserito e in relazione ai propri obiettivi, aspettative, standard e interessi” [4].

Fondamentale per reagire in ogni situazione critica che la vita ci riservi è l’insieme dei valori culturali e personali che ogni individuo si è costruito, insieme al proprio grado di affettività: “la capacità di investire con interesse, curiosità e sapienza la realtà umana propria e altrui” [5].

La Psicologia moderna affronta questo aspetto di reazione utilizzando il concetto di coping, cioè il modo in cui le persone rispondono e fronteggiano le situazioni avverse e stressanti, quali risorse si è in grado di mettere in campo per gestire richieste esterne (provenienti dall’ambiente) o richieste interne (della persona) particolarmente complesse. Gli sforzi introdotti per gestire lo stress costituiscono il coping, un processo adattivo e dinamico che media la continua interazione tra ambiente e individuo e che dovrebbe condurre alla modificazione del significato, attribuito inizialmente all’evento negativo. Alcune persone tentano di affrontare e dominare l’evento, compiendo azioni per intervenire sul problema; altre si concentrano prevalentemente sulle emozioni, sforzandosi di modificare l’impatto emozionale negativo dell’evento. Queste diverse modalità rappresentano i diversi stili di coping, che ognuno possiede.

Una terza strategia, meno funzionale, descritta da Endler e Parker (1990) è quella “centrata sull’evitamento”, un modo per distanziarsi dall’evento ignorandolo o costruendo espedienti, come ad esempio negare la malattia e i suoi sintomi agli altri [6].

Lo studio di Ahlstrom e Sjoden (1996) ci ha dimostrato però come una strategia di coping di non accettazione correli negativamente con la qualità di vita. Evitare o dissimulare il problema non lo risolve e soprattutto non aiuta a sentirsi meglio o a mettersi al riparo da altre situazioni spiacevoli [7].

Ma allora come riuscire ad affrontare al meglio il cambiamento di vita che la diagnosi di sclerosi multipla porta, mantenendo una qualità di vita soddisfacente?

Alcuni presupposti psicologici utili per attivare strategie di coping funzionali sono: l’ottimismo, cioè la capacità di valutare ogni aspetto della situazione, cercando di trarre “insegnamenti” e di crescere nel fronteggiare la criticità; il senso di padronanza degli eventi, il non sentirsi totalmente sopraffatto e impotente; una buona autostima e il supporto sociale, inteso come la sensazione di far parte di una rete su cui fare affidamento.

La comprensibile difficoltà di comunicare agli altri la malattia, che abbiamo visto nasconde in sé una più profonda accettazione dell’evento e delle conseguenze che esso può comportare o che si teme potrebbero sopraggiungere, altro non è che una strategia disfunzionale di reazione. Un comportamento frequente, che porta però ad allontanarsi dagli altri e dal sentirsi parte di una rete sociale e che rischia di indebolire la nostra affettività, nucleo centrale della capacità di reagire e del sapersi reinventare.

Source: Fondazione Serono SM