Negli ultimi anni all’interno delle teorie e degli studi psicologici si è iniziato a parlare sempre più frequentemente del concetto di “resilienza”, tanto che alcuni studiosi hanno condotto degli studi clinici con l’intento ad esempio di individuare le variabili che più facilmente correlano con la resilienza, oppure di delineare e validare protocolli in grado di favorire e/o potenziare la resilienza. Recentemente simili studi sperimentali sono stati estesi anche alla popolazione affetta da sclerosi multipla.

Ma che cos’è la resilienza e da dove deriva questo concetto?

Il vocabolario Treccani ne dà definizioni diverse a seconda della cornice di riferimento:

  1. “Nella tecnologia dei materiali, la resistenza a rottura per sollecitazione dinamica, determinata con apposita prova d’urto: prova di r.; valore di r., il cui inverso è l’indice di fragilità.
  2. Nella tecnologia dei filati e dei tessuti, l’attitudine di questi a riprendere, dopo una deformazione, l’aspetto originale.
  3. In psicologia, la capacità di reagire di fronte a traumi, difficoltà ecc.” (Treccani).

Nel campo della psicologia è possibile, dunque, intendere la resilienza come la capacità di far fronte a qualsiasi evento traumatico (ad es. trauma fisico, lutto, grave malattia, perdita del lavoro, catastrofi naturali ecc.), ripristinando l’equilibrio precedente al trauma (matrice latina del termine è resilire, da re-salire ovvero saltare indietro, rimbalzare) o addirittura raggiungendo uno stato migliore di quello iniziale. La psicologa Edith E. Grotberg, studiosa di resilienza, nel 2001 definisce la resilienza come la “capacità umana di affrontare le avversità della vita, superarle e uscirne rinforzato o addirittura trasformato” [1].

Il termine resilienza inizia a essere usato da Werner e Smith, due studiose di psicologia clinica e dello sviluppo, che nel 1982 pubblicarono i risultati di una ricerca longitudinale (iniziata nel 1955) condotta su 698 bambini dell’isola Kauai, nell’arcipelago delle isole Hawaii (lavoro pubblicato col titolo “Vulnerable but Invincibile: a longitudinal study of resilient children and youth”). Lo studio aveva lo scopo di fare previsioni sullo sviluppo di problemi psicologici a fronte di fattori di rischio identificati dagli studiosi: nascita in povertà, malattie mentali, famiglie con storie di dipendenza o violenza domestica. La ricerca permise di constatare che all’età di 30 anni il 30% dei soggetti considerati a rischio era alfabetizzato, lavorava e aveva costituito una famiglia, era cresciuto senza difficoltà psicologiche personali e di relazione.

Gli studiosi cominciarono, quindi, a chiedersi cosa rendesse più forti le persone di fronte a eventi negativi e quali caratteristiche dovessero avere per resistere meglio a condizioni iniziali stressanti, avversità e traumi. Si svilupparono così diverse ricerche psicologiche volte sia a individuare i tratti individuali dei cosiddetti soggetti resilienti sia a rintracciare il processo multifattoriale secondo cui più variabili concorrerebbero a rendere resiliente un individuo.

Molti studi si sono avvicendati negli anni e oggi sappiamo che più numerosi sono i fattori protettivi nella vita di una persona, più aumentano le probabilità che la persona dia segni evidenti di resilienza, dimostrando capacità di autoriparazione e adattamento per sopravvivere.

Uno dei più potenti fattori protettivi sembra essere lo stile di attaccamento (la teoria dell’attaccamento è stata proposta dallo psicologo britannico J. Bowlby). Un buon attaccamento nei primi 3 anni di vita fa sentire amati e sicuri e ha effetti psico-fisici positivi:

  • a breve termine: stato di benessere generale che permette al bambino di crescere, interagire ed esplorare;
  • a lungo termine: osservare il mondo intorno e prendere iniziative; incoraggia lo sviluppo del pensiero; facilita la socializzazione; promuove la formazione di una coscienza; aiuta a reagire agli stress, a fronteggiare frustrazioni, dolori e paure; consente un giusto equilibrio tra dipendenza e indipendenza; favorisce la formazione dell’identità; aiuta a superare più facilmente i conflitti; fornisce la certezza che si può trovare una via d’uscita; favorisce lo sviluppo di relazioni affettive sane [2].

Lo studioso N. Garmezy (Professore di Psicologia e studioso di psicopatologia dello sviluppo) suggerì nel 1985 tre categorie di fattori protettivi: fattori ambientali (sistema di supporto da parte della comunità), fattori familiari (famiglia supportiva e adeguati adulti di riferimento), caratteristiche soggettive (temperamento, intelligenza, carattere e competenze socio-emotive).

Anche la ricerca condotta dal National Institute of Mental Health (1999) è arrivata a individuare cinque tratti di personalità (definiti “big five”) che permetterebbero alle persone di fronteggiare al meglio condizioni negative. Questi tratti sono: l’estroversione, la disponibilità, la coscienziosità, la stabilità emozionale e l’intelletto. Di contro lo studio evidenzia come la timidezza e la tendenza a reprimere le emozioni rendano le persone più vulnerabili alle condizioni negative. I risultati di diversi contributi scientifici permettono di prendere in considerazione come sia importante la funzione di determinati fattori protettivi individuati (l’ottimismo, l’autostima, la robustezza psicologica, il focalizzarsi sulle emozioni positive) ma anche di quelli ambientali (la possibilità di godere di un supporto sociale e familiare).

In Italia, Elena Malaguti (docente di Pedagogia Speciale all’Università di Bologna e componente dell’Osservatorio Internazionale sulla Resilienza di Parigi), è stata una delle prime studiose che ha introdotto le ricerche sulla resilienza definita da lei come “processo, multidimensionale e multifattoriale, di ripresa evolutiva, di natura psicologica, psicosociale, culturale, affettiva e sociale che permette ad un individuo o ad un gruppo sociale di avere un nuovo sviluppo dopo un evento traumatico per lei o per lui”. Per la Malaguti la resilienza è spontanea, ma ha bisogno di aiuto per essere messa in azione. La dottoressa Elena Malaguti rispetto alla resilienza afferma quanto segue: «Non credo esista il gene della resilienza. In generale, sarebbe opportuno parlare di “resilienza naturale” e di “resilienza assistita”, ovvero degli indicatori, dei progetti e dei percorsi che possono essere intenzionalmente avviati ad esempio da genitori, educatori, soccorritori, infermieri, insegnanti. In presenza di un evento traumatico è opportuno individuare le strategie di coping, cioè la capacità di far fronte a un evento; i processi di empowerment, ovvero l’accrescimento e l’acquisizione di competenze, e il processo di resilienza, vale a dire la ripresa evolutiva. È come se fosse una scala» (Ruggiero Corcella, 18 giugno 2012, www.corriere della sera.it).

A proposito della condizione di malattia o di disabilità, secondo la Malaguti sono queste le condizioni che possono far scaturire un evento traumatico capace di interrompere o bloccare lo sviluppo del soggetto, con eventuali altre ripercussioni sul benessere familiare, psicologico e sociale. Queste considerazioni possono condurre alla conclusione di quanto sia importante elaborare l’evento doloroso, trasformandolo in un processo di crescita e apprendimento, acquisendo competenze utili per migliorare la propria qualità di vita e proseguire nel proprio percorso di crescita e realizzazione [3].

Al di là dei numerosi sviluppi di ricerca cui si rimanda altrove per ulteriori approfondimenti, è possibile affermare come il filone di studio sui fattori protettivi permette di comprendere i processi di sviluppo di un soggetto nella sua dimensione biopsicosociale, ma anche di formulare programmi di prevenzione non solo per i bambini e adolescenti ma anche per gli adulti.

A tal proposito, all’interno della cornice di riferimento dell’ACT (Acceptance and Commitment Therapy, in italiano “Terapia di accettazione e di impegno nell’azione”), nata in America intorno al 2000 con la “terza ondata” della terapia cognitivo-comportamentale (si veda altro per approfondimenti), è possibile menzionare lo studio pilota di Burton, Pakenham e Brown pubblicato nel 2010 [4,5] con lo scopo di raccogliere informazioni preliminari per sviluppare un programma di formazione sulla resilienza psicosociale di gruppo (REsilience and Activity for every DaY, READY), in un ambiente lavorativo e valutare gli eventuali benefici in termini di benessere. Il READY è un intervento di gruppo breve e strutturato volto a migliorare la resilienza del soggetto e a promuovere la flessibilità psicologica. Il modello include i 5 domini della vita umana cioè il pensare, il sentire, l’agire, le relazioni e l’essere per ognuno dei quali si identificano gli elementi associati positivamente alla resilienza e che si definiscono fattori protettivi (questi elementi insieme ai 5 domini costituiscono lo scudo):

  • emozioni positive/accettazione: capacità di fare esperienza di varie emozioni e sensazioni fisiche senza cercare di controllarle o evitarle;
  • la flessibilità cognitiva: capacità di modificare il modo in cui ci relazioniamo ai pensieri, senza restare incastrati in pensieri del passato/presente/futuro, a eventi o persone; è la capacità di rispondere alla situazione in funzione del contesto senza reagire in modo automatico;
  • le strategie di coping: azioni (interne o esterne) messe in atto per affrontare problemi, eventi stressanti, migliorare la salute psico-fisica;
  • il dare senso: avere uno scopo nella vita, avere valori per cui vivere, impegnarsi in qualcosa; riguarda il vivere consapevolmente, essere consapevoli di sé e delle proprie azioni e può comprendere la spiritualità;
  • le relazioni sociali: è la qualità delle relazioni con gli altri, include gli scambi emotivi, altri tipi di supporto, il sentirsi connesso agli altri, il sentire di appartenere a qualcosa e il ridurre l’isolamento sociale.

Il programma prevedeva 7 sessioni di gruppo settimanali della durata di 2 ore e mezza ciascuna più un’ottava sessione di rinforzo (detta booster) svolta 5 settimane dopo dalla fine dell’ultima.

Le sessioni comprendevano un mix di strategie di intervento: psicoeducazione, discussioni in gruppo, esercizi esperienziali e compiti a casa, volti a lavorare su sei capacità psicologiche: l’accettazione, la defusione, il sé contestualizzato, attività di mindfulness per promuovere il contatto con il momento presente e con i propri valori, attività per favorire l’azione impegnata. Il training previsto dal programma READY ha migliorato il benessere dei partecipanti. In particolare ha portato ad aumentare delle competenze personali, a una maggiore espressione di emozioni positive, a una crescita personale, a minori livelli di stress, a un maggior contatto con il momento presente e maggior accettazione, a una maggiore capacità di stare a contatto con i propri valori personali e infine a minori livelli di colesterolo nel sangue.

I risultati dello studio clinico hanno suggerito a Pakenham e coll. [6] di studiare gli effetti del programma READY su soggetti con Sclerosi Multipla giungendo a constatare un miglioramento nelle misure della resilienza, della qualità di vita (fisica e mentale) e una diminuzione dei sintomi di depressione e stress. Significativi sono risultati i processi ACT di accettazione, defusione, contatto con i valori e azione impegnata. I valori e la defusione sono emersi rispettivamente come mediatori della salute fisica e dello stress. La fattibilità del programma READY è stata supportata dai riscontri positivi dati dai partecipanti, dagli alti tassi di reclutamento, dalla frequenza e dall’impegno nello svolgimento dei compiti da svolgere a casa nonché dalla buona fedeltà all’intervento. In un’intervista fatta al Professor K. Pakenhamn occasione del convegno FISM del 2018 ha descritto il programma READY come «una serie di incontri di gruppo che si svolgono una volta a settimana per 7 settimane. Ogni gruppo copre un insieme di competenze di resilienza: per esempio, come gestire efficacemente il pensiero negativo, come gestire i sentimenti non voluti, come vivere a pieno il momento presente invece di essere chiusi nel passato o proiettati nel futuro, come restare fedeli ai propri valori e agire di conseguenza nonostante sentimenti e pensieri contrastanti. Lo abbiamo usato con le persone sane e poi anche con alcuni gruppi di pazienti, malati di cancro, di sclerosi multipla e di diabete. Funziona: dopo il programma le persone affermano che la loro qualità di vita migliora e il risultato si mantiene per settimane, anche per mesi. Per la sclerosi multipla abbiamo disegnato un programma specifico che è stato oggetto di una collaborazione con la FISM» (www.aism.it). Interessata al programma READY, presentato dal Professor Pakenham durante il Convegno nazionale RETE PSI del 2014 cui era stato invitato a partecipare, Ambra Mara Giovannetti (anche in qualità di Psicologa della Rete AISM) ha avviato negli anni successivi una collaborazione con il professore per il dottorato presso l’Università del Queensland in Australia, dove la ricercatrice si è formata sul metodo che poi è diventato un progetto di ricerca finanziato da FISM. La Giovannetti (con finanziamenti della Fondazione Banca del Monte di Lombardia e della FISM nonché supportata dall’AISM) è dunque volata in Australia dove ha potuto tradurre il programma READY in italiano, partecipare al corso del professor K.I. Pakenham all’Università del Queensland e dove ha condotto il programma READY per SM sotto la sua supervisione. Il lavoro della Giovannetti è poi proseguito in Italia con la collaborazione della Fondazione IRCCS dell’Istituto Neurologico Carlo Besta di Milano, l’AISM e dello stesso K. Pakenham. Ha condotto un primo progetto pilota coinvolgendo 37 pazienti con Sclerosi Multipla per valutare la fattibilità e l’efficacia del programma READY per SM in Italia (Studio 1 e 3, 4) e l’effetto del training sugli operatori (Studio 2). (Allestimento italiano del programma “REsilience and Activity every DaY for MS”, degli outcomes, e valutazione pilota di efficacia mediante impiego di metodologia mista (READY-It-MS). Il lavoro, presentato nel compendio della ricerca scientifica FISM 2020 [7], consiste in uno studio pilota randomizzato e controllato mettendolo a confronto con un intervento di controllo attivo (rilassamento). Per la maggior parte dei partecipanti si sono evidenziati miglioramenti significativi indipendentemente dall’intervento cui erano assegnati, mentre i soggetti partecipanti al READY for MS hanno ottenuto risultati in linea con quelli australiani: ottimo livello di coinvolgimento e aderenza al programma, migliorato la resilienza e permesso loro di affrontare al meglio la malattia. Tutti i partecipanti raccomanderebbero questo programma per le persone con sclerosi multipla, ai familiari come pure ad altre condizioni di salute.

A livello quantitativo tuttavia il programma (forse per la bassa numerosità del campione) non è risultato più efficace del rilassamento, risultato contrastante però con i dati qualitativi che dimostrerebbero la superiorità del READY for MS per l’impatto sulla vita quotidiana, le strategie che offre e l’interesse che suscita.

Lo studio (Studio 2) poi si è avviato dentro la stessa “Rete psicologi AISM” che ha visto coinvolti 44 psicologi della “Rete”. Questi Psicologi hanno partecipato a una formazione introduttiva sull’ACT, a un gruppo READY a loro adattato e infine hanno condotto un gruppo READY for MS con persone con patologia nella loro sezione AISM o presso i Centri sclerosi multipla in cui lavorano. I partecipanti hanno evidenziato miglioramenti in tutte le aree: resilienza, benessere, tono dell’umore e flessibilità psicologica, miglioramenti mantenuti anche dopo 15 mesi dalla fine del gruppo READY. Questo dato peraltro confermerebbe l’idea del K. Pakenham secondo cui il programma READY ha un impatto positivo sulla comunità: migliorando la qualità di vita degli operatori essi lavorano più efficacemente con le persone con SM (www.aism.it).

La terza e ultima fase del training è quella che ha impegnato gli psicologi AISM formati a condurre gruppi READY for MS con pazienti cui è stato richiesto di rispondere a dei questionari (prima di iniziare il gruppo, subito dopo l’intervento e dopo tre mesi). L’inserimento dei dati è ancora in corso e si sta lavorando per pubblicare i risultati di questa complessa ricerca che intende iniziare da settembre 2020 una quarta fase per avviare uno studio multicentrico che permetterà di valutare l’efficacia del programma READY for MS.

Conclusioni

Negli ultimi anni la resilienza è stata al centro di diversi dibattiti e studi scientifici; in molti sono d’accordo sull’importanza di rafforzare i fattori protettivi anche attraverso programmi specifici. Infatti in letteratura esistono diversi contributi scientifici che hanno cercato di comprendere quali siano i fattori che rendono un soggetto resiliente, mentre altri hanno cercato di sistematizzare programmi per promuovere la resilienza. Il programma READY consiste in un training di gruppo per migliorare la flessibilità psicologica e si basa sulla teoria dell’ACT; questo programma è stato validato all’estero e introdotto in Italia da una psicologa e ricercatrice italiana A. Giovannetti che ha attivato la collaborazione per uno studio di ricerca ancora in essere [8].

È certamente desiderabile trovare interventi fruibili e disseminabili sul territorio in grado di rinforzare la resilienza dei pazienti così da favorire un loro migliore adattamento alla malattia, alleviare gli effetti negativi dello stress e mantenere il più possibile un adeguato stato di salute mentale.

In attesa di conoscere ulteriori sviluppi scientifici in campo italiano, è importante sottolineare il valore del supporto psicologico individuale e/o familiare. Inoltre all’interno di un lavoro di psicoterapia (anche di stampo integrato) lo specialista, a seconda del caso e della propria formazione, può proporre metodi e tecniche (ad esempio la mindfulness di matrice cognitivo-comportamentale oggigiorno sempre più proposta) che aiutino il soggetto ad affrontare e cambiare la consistenza dell’impatto della propria condizione di malattia.

Dott.ssa Laura Compagnucci – Psicologa-Psicoterapeuta Libero Professionista per l’AISM (Associazione Italiana Sclerosi Multipla) della sezione di Ancona e Pesaro-Urbino, inserita nel Progetto Rete PSI AISM

Bibliografia

  1. Loriedo C. Resilienza e fattori di protezione nella psicoterapia familiare sistemica, in Rivista di psicoterapia relazionale. Fascicolo 21. Milano: Franco Angeli, 2005.
  2. Ferraris AG, Oliviero A. Più forte delle avversità. Torino: Bollati Boringhieri, 2014.
  3. Malaguti E, Cyrulnik B. Costruire la resilienza. La riorganizzazione positiva della vita e la creazione di legami significativi. Trento: Erikson, 2005.
  4. Burton NW, Pakenham KI, Brown WJ. Evaluating the effectiveness of psychosocial resilience training for heart health, and the added value of promoting physical activity: a cluster randomized trial of the READY program. BMC Public Health 2009 Nov 23;9:427.
  5. Burton NW, Pakenham KI, Brown WJ. Feasibility and effectiveness of psychosocial resilience training: a pilot study of the READY program. Psychol Health Med. 2010 May;15(3):266-77.
  6. Pakenham KI, Mawdsley M, Brown FL, et al. Pilot evaluation of a resilience training program for people with multiple sclerosis. Rehabil Psychol 2018 Feb;63(1):29-42.
  7. Compendio della ricerca scientifica FISM 2020. www.aism.it
  8. Giovannetti AM, Quintas R, Tramacere I, et al. A resilience group training program for people with multiple sclerosis: Results of a pilot single-blind randomized controlled trial and nested qualitative study. PLoS One 2020 Apr 9;15(4):e0231380.

Source: Fondazione Serono SM