Il deterioramento cognitivo è una manifestazione comune e disabilitante in corso di sclerosi multipla (SM), esercitando un impatto significativo sulle attività quotidiane e la qualità della vita dei pazienti. Deficit cognitivi vengono descritti in una percentuale variabile dal 34% al 65% dei pazienti con SM, a seconda dei criteri utilizzati per la definizione del deterioramento cognitivo [1,2]. Il deterioramento cognitivo è stato descritto in tutte le fasi di malattia conclamata, dalla sindrome clinicamente isolata (clinically isolated syndrome, CIS, deterioramento cognitivo osservato nel 20-25% dei casi), alle forme recidivanti-remittenti (RR, deterioramento cognitivo osservato nel 30-45% dei casi) e secondariamente progressive (SP, deterioramento cognitivo osservato nel 50-75% dei casi), mentre i dati relativi alle forme primarie progressive (PP) sono meno conclusivi per la presenza di pochi lavori con ridotta numerosità campionaria [1].

L’esordio del deficit cognitivo può essere acuto (se si realizza in corrispondenza di una ricaduta) o insidioso, sviluppandosi gradualmente nel tempo. I domini più frequentemente implicati sembrano essere la velocità di elaborazione delle informazioni, l’apprendimento e la memoria, mentre meno frequentemente si osserva un coinvolgimento delle funzioni esecutive e visuospaziali. Più recentemente è stato descritto un deficit della fluenza semantica nei pazienti in età più avanzata (superiore ai 50 anni) [3]. Tuttavia, parallelamente a quanto accade per la disabilità motoria, la disabilità cognitiva mostra un’elevata variabilità interindividuale. Le forme a esordio pediatrico non fanno eccezione, mostrando, in sovrapposizione alle forme a esordio in età adulta, una compromissione prevalente della velocità di elaborazione delle informazioni e della memoria, cui si associano una compromissione dell’intelligenza verbale, un ritardo nell’acquisizione delle competenze cognitive e un più rapido declino in età adulta, oltre a una peculiare dissociazione tra stato cognitivo e disabilità motoria [1]. Anche se tale dissociazione è tipica delle forme pediatriche, anche nell’adulto deficit cognitivi possono instaurarsi in condizioni di stabilità clinica e radiologica di malattia [4].

La presenza di deficit cognitivi può essere rilevata anche in fase preclinica, in pazienti con sindrome radiologicamente isolata (radiologically isolated syndrome, RIS) [5], e, in soggetti sani, è predittiva di conversione a SM a breve e lungo termine [6]. Nelle forme benigne di SM (EDSS <3 dopo 15 anni di malattia), i deficit cognitivi sono associati a un maggior rischio di disabilità a medio e lungo termine (5 e 12 anni) [7,8]. Tale valore predittivo si conferma nelle forme RR, dove deficit cognitivi al basale, e in particolare deficit della velocità di elaborazione delle informazioni e della memoria verbale, risultano predittivi di conversione a SP e raggiungimento di un EDSS pari a 4,0 [9] e nelle forme a esordio precoce (età inferiore ai 25 anni) dove basse capacità di elaborazione delle informazioni al basale sono associate a un maggior rischio di progressione della disabilità a 7 anni (incremento di 1 punto dell’EDSS) [10].

Data la rilevanza clinica del deterioramento cognitivo, grande interesse riveste l’approfondimento dei suoi correlati strutturali e funzionali. A tal fine, un recente lavoro ha identificato i pattern di danno associati a diversi profili di deterioramento cognitivo, identificando, in soggetti con prevalente deficit della memoria verbale e della fluenza semantica, una maggiore atrofia ippocampale rispetto ai pazienti SM con abilità cognitive conservate [11]. Altre associazioni venivano identificate tra i profili “lieve coinvolgimento multidominio”, “coinvolgimento severo delle funzioni attentive ed esecutive”, “severo coinvolgimento multidominio” e la presenza di atrofia corticale, elevato carico lesionale e atrofia diffusa [11]. L’identificazione di diversi profili cognitivi, sottesi da diversi substrati biologici, apre la strada alla possibilità di sviluppare approcci terapeutici mirati e personalizzati, nell’ottica di un patient-tailored treatment. L’applicazione clinica di questa (o altre) classificazioni tuttavia presuppone la possibilità di poter attribuire al singolo paziente l’appartenenza a una specifica classe o profilo. Tale possibilità potrebbe concretizzarsi nel prossimo futuro grazie all’applicazione di metodiche di machine learning non supervisionato. Tali metodiche sono in grado di modellare la progressione di malattia sulla base di variazioni osservate in biomarcatori di scelta, non necessitando di informazioni cliniche a priori o della definizione di valori soglia nei singoli biomarcatori [12]. Tali metodiche sono state recentemente applicate nell’ambito delle patologie neurodegenerative del sistema nervoso centrale [12,13] e hanno mostrato risultati promettenti quando traslate nel campo della SM allo scopo di caratterizzare la sequenza delle modifiche clinico-radiologiche in corso di SM [14] o applicate alla classificazione dei fenotipi SM guidata da parametri di RM [15].

Particolarmente promettente tra le metodiche di machine learning non supervisionato è l’algoritmo SuStaIn [13], che è in grado di identificare, a partire da caratteristiche estratte da esami di RM, sottotipi distinti caratterizzati da traiettorie di progressivo accumulo di danno in specifici biomarcatori. I punti di forza di tale algoritmo sono costituiti dalla possibilità di arrivare alle definizione dei sottotipi sulla base di dati trasversali, e sulla sua capacità di assegnare l’esame RM del singolo paziente a uno specifico sottotipo e stadio lungo la traiettoria identificata. L’applicazione di un algoritmo di tale natura consentirebbe di classificare, sulla base di un singolo esame RM, ogni paziente come appartenente a uno specifico sottotipo caratterizzato da un peculiare pattern di atrofia, fornendo nel contempo informazioni circa la posizione del paziente nell’ambito dell’evoluzione temporale del singolo sottotipo (stadio più precoce o più avanzato della traiettoria evolutiva di uno specifico pattern di atrofia), contribuendo alla possibilità di predire l’outcome clinico a lungo termine, stratificando prognosticamente il paziente e facilitando così l’applicazione di interventi terapeutici personalizzati.

Source: Fondazione Serono SM