La sclerosi multipla è una patologia infiammatoria cronica demielinizzante del sistema nervoso centrale di origine presumibilmente autoimmune in cui il primum movens della malattia sembrano essere dei cloni di linfociti “autoreattivi” in grado quindi di riconoscere alcune sostanze presenti nel nostro organismo come delle sostanze estranee e pertanto da distruggere [1,2]. Non è ancora completamente chiaro perché alcuni di questi linfociti inizino a distruggere le cellule del nostro organismo. Sappiamo, tuttavia, che la sclerosi multipla viene considerata una patologia multifattoriale dove è l’interazione tra il nostro patrimonio genetico e l’ambiente (ad es., l’interazione con virus o batteri) a determinare il rischio di sviluppare la malattia [3,4].

La sclerosi multipla è la causa più frequente di deficit e disabilità neurologica nel giovane adulto. In tutto il mondo circa un milione di persone di età compresa tra i 18 e i 65 anni è affetto da sclerosi multipla. L’età media in cui si verifica il picco di insorgenza della patologia è intorno ai 30 anni (con il 75% degli esordi tra 20 e 40 anni). Sono tuttavia tutt’altro che rari esordi in età pediatrica (circa il 7% dei casi) o in età senile (dopo i 65 anni). Inoltre, nonostante negli ultimi anni sia stato rilevato un aumento della frequenza nel sesso maschile in età più avanzata e con una prognosi più severa, la sclerosi multipla rimane una patologia con predominanza nel sesso femminile. Se si esaminano i tassi di incidenza globale si evince come 3,7 casi per 100.000 abitanti/anno siano di sesso femminile, mentre solamente 2,0 casi per 100.000 abitanti/anno siano di sesso maschile. Tale rapporto sembrerebbe inoltre in continuo aumento, essendo passato negli ultimi 50 anni da 1,4 nel 1955 a 2,3-2,9 nel 2000. Non sono ancora stati chiariti i fattori ambientali responsabili di questo fenomeno; tuttavia, è possibile notare come il rapporto sembrerebbe aumentare quanto più precocemente si verifica l’esordio della patologia (epoca prepuberale) [5-7].

La prevalenza della sclerosi multipla varia inoltre a seconda delle aree geografiche: risulta essere predominante nelle zone “temperate” rispetto alle zone “tropicali”. Gli studi sugli effetti della migrazione sottolineano l’importanza dei fattori ambientali: si nota infatti come lo spostamento di un paziente da una zona a basso rischio verso un’area a rischio maggiore comporti un aumento del rischio di sviluppare la malattia. Una revisione sistematica sugli studi di incidenza della sclerosi multipla ha infine mostrato anche un’associazione tra incidenza e latitudine, con una maggiore incidenza a latitudini inferiori [8].

Storicamente la sclerosi multipla è stata suddivisa in 3 forme cliniche principali: la forma recidivante-remittente (RR), la forma secondaria progressiva (SP) e la forma primaria progressiva (PP).

La forma RR comprende la maggior parte dei pazienti affetti da sclerosi multipla (circa l’85-90%) con un rapporto femmine-maschi (F:M) superiore a 2:1. In questi pazienti la malattia è caratterizzata da esacerbazioni acute, cui segue la ripresa che può essere completa o incompleta, intervallate da periodi di stabilità clinica che possono essere anche molto lunghi.

La forma SP segue cronologicamente la RRMS. Il 50% dei pazienti con la forma recidivante-remittente, non sottoposti a terapia, va incontro, infatti, dopo circa 10-15 anni a questa forma di malattia caratterizzata da un lento e progressivo accumulo di disabilità che non appare correlato alla presenza di “ricadute” che anzi durante questa fase si riducono in maniera significativa fino, in molti casi, a cessare del tutto. Il passaggio dalla forma recidivante-remittente a quella secondariamente progressiva nella maggior parte dei casi viene riconosciuto solo a posteriori, dopo la conferma della progressione della disabilità.

La forma PP interessa circa il 10-15% dei pazienti affetti da sclerosi multipla con un rapporto femmine-maschi (F:M) pari a 1:2 e si caratterizza per un lento e progressivo accumulo di disabilità fin dalle prime fasi della malattia spesso in completa assenza di ricadute. Eventi acuti sono possibili in questa forma anche se molto meno frequenti della forma RR.

Una recente revisione di tale classificazione, proposta da Lublin e Colleghi [9], suggerisce di valorizzare in ogni paziente le due caratteristiche principali della sclerosi multipla, cioè l’attività acuta intesa come ricadute o formazione di nuove lesioni cerebrali e la progressione intesa come incremento di disabilità non legata alle ricadute, superando quindi la vecchia classificazione RR, SP, PP.

Avremo quindi pazienti che manifestano attività di malattia, pazienti che manifestano una progressione della disabilità e pazienti che manifestano entrambe le caratteristiche. Questo tipo di classificazione risulta più adeguata a descrivere la situazione clinica di un paziente che difficilmente è solo “bianca” o solo “nera”. Anzi oggi riteniamo che una certa quota di “progressione” della malattia sia presente fin dalle prime fasi della vita del paziente affiancando quindi in maniera più o meno rilevante l’attività acuta (nuove lesioni o ricadute) che caratterizza la forma recidivante-remittente.

Tale classificazione permette inoltre di valorizzare in maniera più attenta e precoce proprio quella lenta progressione della disabilità, indipendente dalle ricadute, che risulta peraltro la parte della malattia meno responsiva alle attuali terapie. Sebbene infatti siano recentemente stati immessi in commercio alcuni farmaci in grado di limitare la progressione della disabilità nelle forme sia PP che SP, i migliori effetti delle attuali terapie si esplicano nel ridurre il numero di ricadute e l’accumulo di nuove lesioni. A ciò si deve anche l’osservazione che qualsiasi terapia risulterà tanto più efficace quanto più precocemente viene avviata, non fosse altro che per il fatto che oggi è più semplice prevenire il danno a carico del SNC che non ripararlo una volta avvenuto.

A questo proposito sarà bene ricordare alcune nozioni cruciali di neuroanatomia e neurofisiologia: le fibre nervose nel SNC sono costituite dagli assoni dei neuroni (una specie di “piedi” che partono dal corpo neurone e portano il segnale elettrico) che a loro volta sono rivestiti da mielina, una molecola che funge da isolante e permette una conduzione del segnale elettrico più rapida e meno dispendiosa in termini energetici. La mielina è creata dagli oligodendrociti, cellule specializzate che hanno lo scopo di rivestire gli assoni con i loro prolungamenti.

La sclerosi multipla colpisce specificamente gli oligodendrociti e quindi distrugge la guaina mielinica. La buona notizia è che queste cellule possono riprodursi e sono in grado, entro certe condizioni, di ripristinare la guaina mielinica e con essa una corretta conduzione nervosa. La cattiva notizia è che col tempo la capacità di rigenerarsi degli oligodendrociti può ridursi e un assone demielinizzato, quindi privo della protezione della mielina, può andare incontro con maggiore facilità a una vera e propria neurodegenerazione (cioè alla morte). Studi recenti hanno anche dimostrato come la sclerosi multipla non sia solo una patologia della mielina: spesso l’aggressione autoimmune si rivolge direttamente anche contro assone e corpo neuronale; una volta che il filo elettrico è danneggiato non c’è più speranza di “aggiustare” la fibra [10-12]. Per fortuna, anche in questo caso, il SNC dispone ancora di numerose frecce al suo arco: è infatti possibile utilizzare altri neuroni per svolgere la funzione di quelli che sono andati perduti. Si parla in questo caso di “plasticità” del SNC. Ovviamente questi neuroni vanno “addestrati” al nuovo compito e da qui ne deriva la grande utilità della riabilitazione fisica e cognitiva e più in generale dell’esercizio fisico.

Torniamo però alla fisiopatologia della sclerosi multipla che, come abbiamo visto, è una malattia molto eterogenea che può colpire la sostanza bianca (mielina) ma anche la sostanza grigia (il neurone con il suo assone) e con una sua evoluzione temporale che può essere anche molto complessa intrecciando fasi attive di malattia con fasi progressive.

Da tutto ciò deriva che l’andamento clinico di ogni paziente sarà diverso dagli altri sia come gravità sia come evoluzione temporale. Addirittura sembra lecito supporre da quanto detto finora che la stessa severità della malattia sia in continuo mutamento anche nel singolo soggetto: più leggera nelle fasi iniziali quando il sistema è in grado di riparare le fibre, più severa nelle fasi intermedie in cui il recupero delle funzioni dipende dall’utilizzo dei fenomeni di “plasticità” e quindi richiede un certo “sforzo” anche al paziente almeno in termini riabilitativi, decisamente più grave nelle fasi finali nelle quali i danni accumulati soverchiano le capacità di recupero e di compenso del sistema determinando un accumulo della disabilità finale.

L’eterogeneità della malattia tra un paziente e l’altro e anche nello stesso paziente in tempi diversi rende evidente l’impossibilità di trovare una terapia che vada bene per tutti. E quand’anche si trovasse con assoluta certezza la terapia giusta per un dato paziente, la finestra temporale entro quale somministrarla andrebbe scelta con altrettanta cura. Sbagliare il momento potrebbe infatti compromettere anche la terapia migliore.

È quindi oggi assolutamente necessario “personalizzare” con grande attenzione la terapia. Per fare questo è necessario prima di tutto comprendere se la malattia mostra segni di attività o se ha già iniziato a mostrare i segni della progressione. In questo senso la collaborazione del paziente è cruciale: nessuno meglio di lui (o lei) sa se le cose che faceva l’anno prima è in grado di farle anche l’anno dopo. È sempre importante infatti l’evoluzione temporale, ma va compreso che mentre la fase acuta si descrive nell’arco di giorni, la progressione della disabilità è un qualcosa che avviene in maniera molto lenta, spesso impercettibile tra un giorno e l’altro o addirittura tra un mese e l’atro. A volte ci vogliono anni per accorgersi del peggioramento: questo è determinato anche dal fatto che le condizioni cliniche di un paziente non sono sempre uguali ma fluttuano, tra un giorno e l’altro e a volte anche nella stessa giornata in conseguenza di fenomeni intercorrenti spesso anche ambientali; basta un aumento della temperatura (magari a causa di una banale infezione), o anche semplicemente un evento stressante o un eccessivo sforzo fisico o lavorativo per far peggiorare in maniera sensibile, anche se transitoria, le performance fisiche e cognitive di una persona. In conseguenza di tali importanti fluttuazioni, non è sempre facile per il neurologo né per lo stesso paziente comprendere, nel breve periodo, se il quadro clinico sia stabile o in progressione.

Per tale motivo oggi il neurologo si avvale di tutta una serie di “fattori di rischio epidemiologici” [13-16]che aiutano a prevedere l’aggressività della patologia e quindi la probabilità che il paziente presenti precocemente segni di progressione. Per esempio, un esordio con una lesione spinale (mielite) o la presenza di lesioni in zone particolarmente critiche come il tronco encefalico o il cervelletto sono considerati importanti fattori di rischio. Anche il tipo di lesioni così come vengono visualizzate dalla RM ha la sua importanza: lesioni più destruenti che hanno lasciato un “buco nero” i famosi Black holes” sono un noto segno radiologico di una malattia più aggressiva. A questi “marcatori” di gravità si aggiungono il sesso e l’età di esordio: uomini con esordio oltre i 45 anni hanno in generale un andamento peggiore delle donne sotto i 30 anni, come anche un alto numero di ricadute nei primi anni di malattia.

Sulla base di tutti questi dati clinici e radiologici, il neurologo si costruisce il profilo di rischio di ogni suo paziente e decide quindi il tipo di terapia più adatto a quel soggetto.

Semplificando molto per ragioni di spazio, possiamo dire che la principale scelta riguarda se avviare una terapia di prima o seconda linea. Tra le prime ricordiamo tutte le varianti di interferone beta, glatiramer acetato, dimetilfumarato e teriflunomide; tra le seconde fingolimod e siponimod, cladribina, natalizumab, ocrelizumab e alemtuzumab. I primi farmaci sono riservati ai pazienti che iniziano per la prima volta una terapia o che hanno una malattia poco aggressiva; i secondi si suggeriscono ai pazienti che esordiscono con una malattia più aggressiva o che hanno fallito la terapia di prima linea.

Negli ultimi anni [17], tuttavia, la ricerca scientifica ha fatto importanti passi avanti nella ricerca dei meccanismi patogenetici che portano alla progressione di malattia. Si è scoperto infatti che alcuni linfociti “cattivi”, quelli responsabili della malattia, in particolare del gruppo B, tendono ad accumularsi all’interno del SNC, in particolare nelle meningi o intorno alle “placche” e da lì quindi “dall’interno” continuano a produrre molecole proinfiammatorie e a causare quei danni lenti e progressivi che poi alla lunga metteranno in crisi il sistema minando le sue capacità di compenso.

Oggi studi avanzati sul profilo infiammatorio dei pazienti con sclerosi multipla [18,19] hanno dimostrato che è possibile rilevare nel liquido cerebrospinale che avvolge tutto il SNC le molecole prodotte da queste “linfociti autoreattivi”. Mediante tale analisi è quindi possibile identificare già al momento della diagnosi quei pazienti che hanno una marcata infiammazione liquorale. Uno studio condotto presso il nostro Centro su un vasto campione di pazienti affetti da sclerosi multipla e monitorati con tecniche di risonanza magnetica avanzate per oltre 4 anni ha dimostrato come il profilo infiammatorio liquorale si associ in maniera molto stretta con il rischio di presentare una rilevante attività di malattia nei primi anni di malattia. Con questa tecnologia è possibile, inoltre, identificare precocemente quei pazienti in cui è maggiore il rischio di sviluppare danni non solo a carico della sostanza bianca (la mielina) ma anche della sostanza grigia (neurone e assone) e quindi potenzialmente più gravi quoad valetudinem.

Siamo quindi alle soglie di una nuova stagione nella cura della sclerosi multipla; una stagione in cui è possibile una vera personalizzazione della terapia, basata non solo su dati epidemiologici ma sull’evidenza nel singolo paziente di un profilo di fattori di rischio che suggeriscono una specifica aggressività della malattia e quindi il rischio di entrare in fase progressiva.

Video: Marco Marcotulli

Source: Fondazione Serono SM