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Quali relazioni ci sono fra depressione e cadute nella sclerosi multipla?

Uno studio eseguito negli Stati Uniti ha valutato la relazione fra la depressione e le cadute, nelle persone affette dalla sclerosi multipla. I risultati hanno indicato che tale relazione esiste ed è mediata, almeno in parte, dagli effetti negativi della depressione sulle funzioni cognitive.

La depressione è presente in una discreta percentuale di casi. Un disturbo depressivo maggiore può essere osservato in circa la metà dei malati di sclerosi multipla. Anche se associazioni simili si osservano in molte malattie croniche, la frequenza riscontrata nella sclerosi multipla è fra le più alte.  A complicare la gestione del problema nella pratica clinica, c’è che la depressione è diagnosticata spesso in ritardo, anche perché i suoi sintomi possono sfuggire e, di conseguenza, le cure non sono tempestive. Le difficoltà nel definire la presenza della depressione sono amplificate dalla non specificità di alcuni sintomi, che possono essere attribuiti, invece che a un’alterazione del tono dell’umore, a modificazioni delle funzioni cognitive o direttamente alla sclerosi multipla. Le cadute sono un altro problema frequente nella sclerosi multipla e possono essere dovute a varie cause, prima tra tutte il carente coordinamento dei movimenti, che porta a sbilanciarsi camminando, tanto che i malati tendono ad allargare la base di appoggio. Secondo Cohen e colleghi, pochi studi hanno valutato la relazione fra depressione e cadute nelle persone affette dalla sclerosi multipla. Per questo motivo hanno analizzato una casistica di 147 soggetti che sono stati sottoposti ad almeno una valutazione neuropsicologica, comprensiva di: raccolta di informazioni relative alle cadute, misurazione del livello della depressione, verifica della funzionalità motoria e definizione della efficienza delle funzioni cognitive. Una relazione che è risultata evidente è quella fra maggiore gravità dei sintomi depressivi e minore efficienza della funzione motoria. Inoltre, sintomi più gravi di depressione si sono associati ad una probabilità più elevata del 64% di cadute nell’anno precedente all’avvio dello studio (rapporto di probabilità 1.64; intervallo di confidenza al 95% 1.16-2.31), applicando un’analisi che ha tenuto conto dell’età. Un aspetto interessante emerso dalla ricerca è stato che l’associazione fra depressione e cadute è passata attraverso un peggioramento delle funzioni cognitive e di quelle motorie (stima=0.060; intervallo di confidenza al 95% 1.01-0.15).

Nelle conclusioni gli autori hanno sottolineato che, analizzando approfonditamente il ruolo delle alterazioni delle funzioni cognitive e di quelle motorie nella sclerosi multipla, è risultato che esse contribuiscono a sostenere la relazione fra depressione e cadute. Volendo semplificare il concetto, si potrebbe ipotizzare che la depressione peggiori le funzioni cognitive e che l’alterazione di queste ultime aumenti il rischio di cadute.   

Tommaso Sacco

Fonte: Cognitive and motor slowing mediate the relationship between depression and falls in multiple sclerosis patients; Multiple Sclerosis and Related Disorders, 2021 Feb 3;50:102808. 

Source: Fondazione Serono SM


Neurofilamento come biomarker nella sclerosi multipla

I neurofilamenti sono componenti del citoscheletro dei neuroni particolarmente abbondanti negli assoni con la funzione di supporto strutturale e di mantenimento di forma e calibro degli stessi [1]. I neurofilamenti appartengono alla famiglia dei filamenti intermedi e tra questi ci sono neurofilamenti a catena leggera (NF-L), neurofilamenti a catena media (NF-M) e neurofilamenti a catena pesante (NF-H). In caso di danno assonale nel sistema nervoso centrale (SNC), si è visto che studiando i neurofilamenti nel liquido cerebro-spinale (LCS) è possibile prevedere l’andamento del danno assonale e della degenerazione dei neuroni. In uno studio su 12 pazienti con sclerosi laterale amiotrofica (SLA) e su 11 con malattia di Alzheimer (AD), i neurofilamenti sono stati usati per la prima volta come biomarker di danno neurologico [2]. In seguito, i neurofilamenti sono stati trovati nel LCS di 60 pazienti con sclerosi multipla recidivante-remittente (SMRR) e ciò ha suggerito che possano essere usati come biomarker nel valutare l’attività della malattia. Tuttavia bisogna anche considerare che i livelli dei NF-L sono elevati anche in altri disordini neurologici severi e hanno la caratteristica di essere età-dipendenti.

Neurofilamenti nella sclerosi multipla

La presenza neurofilamenti NF nel LCS è stata oggetto di intensi studi da quando si è notato un livello elevato di NF-L in pazienti con SMRR. I NF-H sono stati utilizzati come biomarker nella SM e il livello sembra correlare con il livello di disabilità all’Expanded Disability Status Scale (EDSS) nei pazienti con SMRR e in quelli con sindrome clinicamente isolata (CIS); inoltre risultano aumentati nei pazienti con riacutizzazioni di malattia [3]. Tuttavia, comparando i NF-H con i NF-L si è visto che questi ultimi permettono una valutazione migliore dell’attività di malattia nella SM [4]. Infine, considerato che la ricerca di questi neurofilamenti nel LCS arrecava disagi ai pazienti sottoposti a puntura lombare, diversi studi hanno dimostrato che la ricerca di queste proteine anche nel siero riflette bene o un danno o una diffusione attraverso la barriera emato-encefalica (BEE). Per questa ragione, i NF-L possono essere ricercati anche nel sangue, ed essere poi valutati tramite tecniche immunoenzimatiche come ELISA o tramite elettrochemiluminescenza [5]. In uno studio con 373 soggetti, di cui 286 con SM, si è visto che i livelli di NF-L nel siero erano paragonabili a quelli presenti nel LCS e ciò è stato confermato in molti studi successivi [6]. Pazienti con neurite ottica (NO), sindrome radiologicamente isolata (RIS) e CIS sono considerati ormai tutti a rischio di sviluppare una forma definita di SM. Studi sul NF-L come predittore della conversione di queste sindromi in SM conclamata non hanno portato ancora molti risultati soddisfacenti. Per quanto concerne gli studi dei biomarker su pazienti con neurite ottica, si è notato che l’aumento dei livelli di NF-L non correlava con la gravità dei sintomi [7], ma è interessante notare come questo aumento potrebbe riflettere la presenza di un danno assonale silente. In uno studio retrospettico su pazienti con diagnosi di CIS, il livello di NF-L nel LCS mostrava un significativo aumento nei pazienti che successivamente sviluppavano SM. Tuttavia, questo aumento risultava essere un debole fattore di rischio di conversione in SM se comparato al numero delle bande oligo-clonali e alle lesioni in T2 alla risonanza magnetica (RM) [8].Questi risultati sono stati confermati in moltissimi altri studi in cui NF-L risultava aumentato anche nel siero dei pazienti. In contrasto con questi studi, un’indagine su 47 pazienti con CIS aventi alti livelli di NF-L nel LCS rispetto ai controlli, non trovava però differenze nei valori NF-L tra pazienti che convertivano e quelli che non-convertivano [9]. È evidente quindi che i NF-L sono validi biomarker di danno assonale e neuronale nella SM, e potrebbero essere utilizzati in modo da prevedere l’andamento a lungo termine dai primi stadi clinici della SM. Studi che confrontavano pazienti con SM ai controlli sani dimostravano un aumento generale dei livelli di NF-L nei pazienti e una correlazione con le riacutizzazioni [10], sottolineando il rapporto tra danno assonale e ricadute cliniche.

Riguardo la progressione di malattia, non sempre è stata riscontrata una correlazione con il peggioramento del punteggio alla scala EDSS [10,12].Nei pazienti con SMRR e SM progressiva, i livelli di NF-L erano più elevati in presenza di attività di malattia [13]. In uno studio di coorte su pazienti SMRR infatti, con elevati livelli di NF-L nel LCS, è stato evidenziato un peggioramento dell’evoluzione di malattia e una più frequente conversione a SM secondariamente progressiva [14].

Le modificazioni alla RM (aumento del carico lesionale e atrofia cerebrale) sono considerate i dati più obiettivi per quanto riguarda l’andamento della malattia, e diversi studi hanno mostrato un importante valore predittivo dei livelli di NF-L nei confronti delle modificazioni radiologiche. Due studi di coorte, uno trasversale e uno longitudinale, tra pazienti con elevati livelli di NF-L e controlli sani, ha mostrato la correlazione tra tali livelli e la presenza di ricadute, peggioramento dell’EDSS e aumento del numero delle lesioni alla RM [6]. Queste evidenze indicano i NF-L come promettenti biomarker per la valutazione dell’attività di malattia.

Neurofilamenti e risposta al trattamento

Diversi studi, indipendentemente dal tipo di trattamento modificante il decorso della malattia (DMT), hanno mostrato una correlazione inversa tra i livelli di NF-L e l’efficacia del trattamento. Si sono riscontrati livelli stabili di NF nei campioni sierici e di LCS di pazienti naïve o che venivano indirizzati verso una terapia di pari efficacia, mentre i livelli sierici scendevano quando i pazienti venivano avviati al trattamento o cambiavano terapia verso farmaci con maggiore efficacia [13]. In uno studio di coorte in pazienti affetti da SM trattati in dall’inizio con natalizumab, i campioni liquorali raccolti al basale (prima del trattamento) e dopo 6 e 12 mesi, mostravano una significativa riduzione dei livelli di neurofilamenti, simili ai livelli dei controlli sani [15]. Questa osservazione è stata confermata anche da altri studi, basati su trattamenti differenti. In pazienti con SMRR stabile sottoposti a trattamento, il decremento dei livelli di NF-L si è dimostrato un valido indicatore di risposta ottimale al trattamento [16]. In un ulteriore studio su 59 pazienti con SM, di cui 33 trattati con interferone-beta (IFN-beta), 19 con natalizumab e i restanti senza trattamento, si è visto che i livelli di NF-L risultavano diminuiti in entrambi i gruppi sottoposti a trattamento rispetto ai non trattati, ma i livelli di quelli trattati con IFN-beta erano significativamente più alti di quelli dei pazienti trattati con natalizumab [17]. Si evidenziava quindi una chiara dimostrazione di come i NF-L fossero un ottimo indicatore per la risposta al trattamento nella SM, in particolar modo per i farmaci con più elevata efficacia terapeutica.

Neurofilamenti: quale futuro e come usare i NF-L in pratica clinica?

La maggior parte degli studi che si sono focalizzati sul ruolo dei neurofilamenti era di tipo retrospettivo. Saranno necessari studi prospettici basati su coorti costituite da un più ampio numero di pazienti. È stato dimostrato un fisiologico aumento dei valori di NF-L età-correlato. La SM non è l’unica patologia neurologica in cui si riscontrano elevati livelli di neurofilamenti. Ad esempio la SLA e la malattia di Creutzfeldt-Jacobs hanno livelli particolarmente elevati di NF-L. Sono disordini prevalentemente caratterizzati da neurodegenerazione assonale, che ci fanno supporre che i livelli elevati anche nella SM siano indicativi non solo del caratteristico danno infiammatorio, ma anche di una neurodegenerazione in corso. Quindi i NF-L non possono essere utilizzati come biomarcatore specifico di SM, ma in associazione ad altri biomarcatori (attività di malattia alla RM, presenza o meno di ricadute, peggioramento dell’EDSS, atrofia cerebrale) assumono un importante ruolo come indicatore della attività di malattia e della risposta al trattamento. Un recente studio ha mostrato come elevati livelli sierici di NF-L al momento delle nuove diagnosi di SM possano potenzialmente predire il carico lesionale e l’atrofia corticale alla RM a 10 anni [18]. Questo dato potrebbe suggerirci un intervento terapeutico subito aggressivo al momento della diagnosi in pazienti con livelli sierici elevati di NF-L e quindi la necessità di individuare un valore di cut-off. I pazienti con SM potrebbero essere monitorati tramite i livelli sierici di neurofilamenti a intervalli di 3-6 mesi, a seconda del decorso della malattia riducendo esami routinari neuroradiologici. Concludendo, i livelli sierici di NF-L potrebbero essere sistematicamente utilizzati come biomarcatori per monitorare la progressione, l’attività di malattia e la risposta al trattamento nei pazienti con SM.

Damiano Paolicelli – Dipartimento di Scienze Mediche di Base, Neuroscienze ed Organi di Senso, Azienda Universitaria Ospedaliera Consorziale – Policlinico di Bari

Bibliografia

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  5. Kuhle J, Barro C, Andreasson U, et al. Comparison of three analytical platforms for quantification of the neurofilament light chain in blood samples: ELISA, electrochemiluminescence immunoassay and Simoa. Clin Chem Lab Med 2016 Oct 1;54(10):1655-61.
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Source: Fondazione Serono SM


Dott.ssa Katrin Plewnia

  • Nata a Francoforte sul Meno e diplomata in Germania nell’1984, si è laureata con Lode all’Università degli Studi di Siena nel 1991. Si è specializzata in Neurologia nel 1995 con ricerche incentrate sulle leucoencefalopatie, malattie mitocondriali e altre malattie rare. Dal 1998 lavora come dirigente presso l’U.O. di Neurologia di Grosseto occupandosi prevalentemente della diagnosi e cura delle malattie demielinizzanti. Dal 99 è responsabile del Centro Sclerosi Multipla di Grosseto che da allora ha visto moltiplicare l’affluenza.
  • Autrice di varie pubblicazioni sia scientifiche che di carattere divulgativo, ha organizzato vari convegni inerenti alla diagnosi e la cura delle malattie demielinizzanti e partecipa regolarmente a congressi nazionali ed internazionali (American Accademy of Neurology 2008, 2007, 2006, 2004, ECTRIMS 2010, 2009, 2008, ecc.).
  • Membro della Società Italiana di Neurologia.
  • Partecipa a numerosi studi farmacologici multicentrici riguardanti l’efficacia di nuovi farmaci per la sclerosi multipla oltre ad aspetti di aderenza alla terapia secondo le GCP.

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Source: Fondazione Serono SM


Supporto sociale e dolore nella sclerosi multipla

Una ricerca eseguita in Canada ha valutato il rapporto fra supporto sociale e dolore nelle persone con sclerosi multipla. I risultati hanno indicato che quanto più era completo il supporto ricevuto dai malati, tanto meno frequente era la percezione del dolore.

Il dolore è uno dei sintomi più frequenti della sclerosi multipla, con prevalenze che arrivano al 50% in alcune casistiche. I fattori associati alla presenza del dolore sono l’età, una durata maggiore della malattia, la concomitanza della depressione, maggiori limitazioni alla funzionalità fisica e mentale e la presenza di astenia. Di solito il dolore provoca cambiamenti nel sistema nervoso centrale e influenza negativamente i meccanismi di elaborazione delle emozioni nel cervello. Se si verifica un danno a strutture dei sistemi nervosi centrale o periferico, il dolore che ne può seguire è definito neuropatico. D’altra parte, il dolore associato a malattie caratterizzate da modificazioni di organi e di apparati può derivare da tali danni, ma anche da meccanismi che coinvolgono le funzioni cognitive. Nelle persone con la sclerosi multipla il dolore si può presentare come cefalea, mal di schiena, spasmi o dolore neuropatico. A queste forme ne va aggiunta un’altra, correlata ai meccanismi delle funzioni cognitive e alle risposte che riguardano comportamenti ed emozioni. Inoltre, fattori specifici che hanno dimostrato di influenzare il dolore cronico della sclerosi multipla sono la depressione, l’ansia e le alterazioni del sonno. Il supporto sociale ha dimostrato di avere effetti positivi sulla salute mentale e sulla qualità di vita delle persone con sclerosi multipla e alcuni studi hanno rilevato che tali approcci hanno effetti positivi sulla percezione del dolore nei soggetti con disabilità.

Per questo Alphonsus e colleghi hanno sviluppato una ricerca che ha avuto l’obiettivo di verificare l’effetto del supporto sociale sulla diffusione del dolore in una casistica di soggetti con la sclerosi multipla. Gli autori hanno fatto riferimento a un’indagine denominata The Survey on Living with Neurological Conditions in Canada (abbreviato in SLNCC e traducibile in “indagine sulla vita con malattie neurologiche in Canada”) eseguita fra il 2011 e il 2012. Essa era correlata alla Canadian Community Health Survey (CCHS, traducibile in “indagine sulla salute della comunità canadese”) fatta fra il 2010 e il 2011. L’analisi statistica ha riguardato 78.623 soggetti. La variabile principale è stata il dolore e i fattori presi in considerazione sono stati: problemi psicologici, alterazioni del sonno, stato di salute generale percepito, livello dello stress, durata della sclerosi multipla e fattori sociali. I risultati hanno indicato che la quantità di supporto sociale ricevuto ha avuto un effetto significativo sul dolore. In particolare, le persone che avevano ricevuto massimo tre tipi di supporto sociale avevano una probabilità tre volte maggiore di avere dolore (intervallo di confidenza al 95% 1.06-8.59), rispetto a quelli che avevano ricevuto quattro tipi di supporto sociale.

Nelle conclusioni gli autori hanno sottolineato l’importanza del supporto sociale per ridurre l’effetto del dolore sulle persone con la sclerosi multipla e hanno evidenziato anche come il supporto lo debbano ricevere anche i caregiver, in quanto il loro impegno a sostegno dei malati è di fondamentale importanza.                            

Tommaso Sacco

Fonte: Is There an Association Between Social Support and Pain Among Individuals Living With Multiple Sclerosis? Journal of Evidence-Based Integrative Medicine 2021; Volume 26: 1-6.

Source: Fondazione Serono SM


Medicina di precisione nella sclerosi multipla

Filippo Martinelli Boneschi, Professore di Neurologia dell’Università di Milano e Dirigente del Centro della Sclerosi Multipla dell’Ospedale Maggiore della stessa città, ha spiegato, in una intervista, come la medicina di precisione stia rivoluzionando la cura della sclerosi multipla. Nella prima parte spiega quali sono i principi sui quali si fonda tale approccio.

In neurologia la medicina di precisione è stata introdotta da poco, mentre in altri campi specialistici, come l’oncologia, è da tempo applicata nella pratica clinica. Il presupposto sul quale si fonda tale approccio è che, per alcune malattie, ci possono essere tante cure, delle quali però nessuna è efficace in tutti i casi. Se ciascuna terapia ha successo in un 30-40% dei malati, si può procedere in due modi: o si provano l’uno dopo l’altro i trattamenti, verificando la risposta che ottiene con ciascuno ed eventualmente cambiandoli nel tempo, e questo è un approccio definito medicina di popolazione, oppure si individuano a priori sottogruppi di soggetti con caratteristiche specifiche, che permettono di prevedere quali sono le cure che saranno più efficaci e così di applica la medicina di precisione. Il secondo aspetto illustrato dall’intervistato è quello dei criteri ai quali fare riferimento per creare tali sottogruppi di malati. Dalla genetica alle evidenze cliniche, dagli esiti degli esami per immagini a quelli dei test di laboratorio, molte informazioni concorrono a precisare le caratteristiche della malattia in ciascun caso e a selezionare le cure con le maggiori probabilità di successo. Questo è un campo in rapida evoluzione e si può prevedere che alcune valutazioni oggi impiegate in ricerca, presto saranno travasate nella pratica clinica della sclerosi multipla, nei protocolli della medicina di precisione.

La medicina di precisione offrirà prospettive di cura sempre migliori ai malati di sclerosi multipla, per questo è importante che i malati ne conoscano i principi.

Tommaso Sacco
Video: Marco Marcotulli

Source: Fondazione Serono SM