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Sclerosi multipla, disturbi dello spettro della neuromielite ottica e sindromi da overlap

Nella pratica quotidiana, il medico si trova spesso a fronteggiare quadri clinici che non si adattano bene ai criteri nosografici validi per diagnosticare una determinata malattia in quel contesto storico. Questo, ovviamente, vale anche per la sclerosi multipla (SM) e per le malattie a essa correlate.

In questo articolo, voglio suggerire una riflessione sul fatto che non dobbiamo solo impegnarci a migliorare la diagnosi differenziale tra le forme che classifichiamo nella nosografia attuale, ma ammettere la presenza di “overlap syndrome” e di provare a introdurre raccomandazioni sulla loro diagnosi, follow-up e, soprattutto, sul loro trattamento.

Dalla fine dell’Ottocento, quando Eugène Devic descrisse il termine neuromielite ottica (neuro-myélite optique, NMO), la questione della relazione tra NMO e SM è rimasta sempre controversa, essendo prevalente, per un lungo periodo, l’idea che si trattasse di varianti cliniche diverse di una stessa malattia [1]. Il concetto della NMO come variante di SM si è ribaltato quando alla NMO si è riconosciuto uno specifico inquadramento nosografico con criteri diagnostici ad hoc [2], dopo che si sono evidenziate le differenze neuropatologiche [3-5] e si è giunti alla scoperta degli anticorpi sierici anti-aquaporina-4 (Ac anti-AQP4) [6]. Questi anticorpi, denominati anche NMO-IgG, sono dosabili nel 60-90% delle persone che hanno un quadro clinico caratteristico per NMO [7], ovvero i sintomi e i segni di lesioni infiammatorie principalmente a carico dei nervi ottici e del midollo spinale. In epoca più recente, è considerato tipico anche l’interessamento di alcune specifiche aree dell’encefalo ad alta espressione di aquaporina-4 (proteina canale per l’acqua particolarmente espressa a livello dei pedicelli astrocitari), ovvero le aree periependimali del tronco encefalico, in particolare area postrema/parte dorsale del bulbo, ed il diencefalo [8]. La NMO classica, associata ad Ac anti-AQP4 è in effetti una astrocitopatia. Sebbene con minore frequenza, gli Ac anti-AQP4 si ritrovano anche in persone con forme isolate di interessamento del midollo spinale (cosiddette longitudinally extensive transverse myelitis, LETM) oppure dei nervi ottici (neurite ottica isolata, che può assumere carattere recidivante). Da ciò, è derivato il concetto di NMO spectrum disorders (NMOSD) che, in attesa di nuove acquisizioni scientifiche, permette di portare avanti la ricerca e la pratica clinica in tale ambito. Dunque, con il termine NMOSD, identifichiamo quadri sindromici di astrocitopatia immuno-mediata, prevalentemente anticorpo-mediata, al momento non meglio discernibili ma da tenere distinte dalla SM. In letteratura, si classificano i NMOSD anche all’interno della famiglia nosografica delle “canalopatie neurologiche autoimmuni” [9].

A complicare il quadro, abbiamo espressioni fenotipicamente inquadrabili in NMOSD negativi per Ac anti-AQP4 che presentano un altro tipo di anticorpi che si esprimono nei confronti della myelin oligodendrocyte glycoprotein (Ac anti-MOG) [10]. La presenza degli Ac anti-MOG è stata stimata pari al 42% in pazienti con quadro suggestivo di NMOSD ma Ac-AQP4 negativi [11]. In più, gli Ac anti-MOG sono stati identificati, seppure raramente, in persone alle quali era stata posta diagnosi di SM [10]. Come dice il nome, la MOG è espressa sugli oligodendrociti, sulla superficie della mielina. Si ritiene che la presenza di Ac anti-MOG identifichi un’altra malattia immuno-mediata del sistema nervoso centrale (SNC), distinta da SM e daNMOSD-Ac AQP4 positivi. Dal punto di vista clinico, a parte la già citata espressione con quadro sindromico sovrapponibile ai NMOSD, la malattia associata ad Ac anti-MOG (MOGAD)si può presentare come una encefalomielite disseminata acuta (acute disseminating encephalomyelitis, ADEM) o come un’encefalite del tronco-encefalico; la malattia può avere decorso monofasico o recidivante [12].

Ancora, ci sono persone che, pur soddisfacendo i criteri per una classica SM (lesioni encefaliche e/o midollari tipiche che soddisfino disseminazione spaziale-temporale, positività per bande oligoclonali ecc.) [13], presentano contemporaneamente Ac anti-AQP4 [14].

Per esprimere la complessità e l’indeterminazione che avvolge una parte del nostro sapere sulle malattie infiammatorie del SNC è stata proposta la “famiglia” nosografica delle “malattie idiopatiche infiammatorie demielinizzanti del SNC” [15] che peraltro include malattie di tuttora incerto inquadramento come le ADEM e le più rare e controverse forme ad andamento iperacuto/subacuto (malattia di Marburg, sclerosi concentrica di Baló, malattia di Schilder) ecc.

A parte le forme di sovrapposizione tra NMOSD Ac anti-AQP4+, MOGAD e forme di SM, è interessante ricordare en passant come in tali diagnosi di possano riscontrare anche alterazioni sierologiche o addirittura sintomi tipici di altre malattie immuno-mediate, reumatologiche e non, che possono colpire il SNC. Tra tutte ricordiamo la coesistenza tra SM [16] oppure NMOSD Ac AQP4+ e/o lupus eritematoso sistemico e/o sindrome di Sjögren [17] e/o altre malattie immuno-mediate sistemiche o anche a sola espressione neurologica come l’encefalite associata ad anticorpi anti-recettore NMDA [18].

Quali problemi di gestione pongono questi casi di overlap?

Possiamo iniziare dalla comunicazione della diagnosi. Infatti, si tratta di casi “grigi” in cui gli specialisti consultati possono dare conclusioni diverse, con un discreto grado di indeterminazione. L’indeterminazione in Medicina è un problema sempre presente che va apertamente affrontato [19]; pertanto situazioni del genere pongono, senza dubbio, difficoltà di comunicazione con il paziente, anche per la prognosi. Su quest’ultimo punto, la “classica NMO” ha prognosi generalmente considerata peggiore in letteratura rispetto ad esempio alla SM, almeno in era precedente agli odierni trattamenti disease-modifying [20]. Dunque al malato si pongono diagnosi diverse, con indeterminazione prognostica maggiore.

Ne consegue poi il problema della terapia con farmaci disease-modifying (DMD) da proporre.

Sappiamo oggi che NMOSD e SM rispondono differentemente a trattamenti immunomodulatori e/o immunosoppressivi e si ritiene che alemtuzumab, dimetil-fumarato, fingolimod, glatiramer acetato, i vari tipi di interferone beta e natalizumab, DMD approvati per la terapia della SM, siano inefficaci, se non addirittura dannosi, nei NMOSD [21].

La soluzione che si propone è l’uso di farmaci che possono ritenersi efficaci sia nella SM sia nei NMOSD. In primo luogo si può pensare ad azatioprina. L’azatioprina è utilizzata in Italia per la SM secondo le modalità previste dalla lista dei farmaci approvati “per uso consolidato” ex Legge 648/96. In particolare, uno studio indipendente ha dimostrato che, nella SM recidivante remittente (SMRR), azatioprina ha un‘efficacia non inferiore a quella degli interferoni beta [22] e una revisione Cochrane ha evidenziato un effetto positivo nella SMRR [23]. Azatioprina viene utilizzata come terapia di prima linea nelle varie forme di NMOSD [24] ed è proposta anche per la MOGAD [25].

Ciclofosfamide è stata in passato un’opzione utilizzata in forme di SM aggressiva [26] ed è proposta nei NMOSD [27] e nella MOGAD [25].

Micofenolato mofetile, proposto per NMOSD [28] e MOGAD [29], non ha mai accumulato prove di efficacia tali da giustificarne l’uso nella SM, seppure alcuni studi abbiano evidenziato una potenzialità [30].

Particolare menzione è da attribuire a rituximab. Numerosi studi ci permettono di affermare che rituximab è efficace nelle varie forme di SM [31-34] e nel contesto dei NMOSD [27] e nella MOGAD [29,35].

Per quanto riguarda le nuove terapie per NMOSD (eculizumab, inebilizumab, satralizumab, tocilizumab) [27] non abbiamo dati per comprenderne la loro efficacia nella SM [36-38].

Il trattamento ciclico con immunoglobuline endovena è stato proposto per NMOSD e MOGAD [39,40]; i dati di efficacia nella SM non sono univoci [41].

Rituximab è da considerare, pertanto, la terapia più affidabile per le sindromi da overlap qui trattate allo stato dell’arte.

Oltre a continuare la ricerca per definire effettivamente un migliore inquadramento diagnostico, dovremo cercare di abbandonare il concetto di dover necessariamente soddisfare il principio del “rasoio di Occam”, ovvero il principio metodologico che indica di scegliere, tra più soluzioni possibili di un problema, quella più semplice. Tale principio, applicato in Medicina, presume che, quando un paziente ha multipli sintomi/segni, il clinico debba cercare una singola diagnosi piuttosto che diagnosi multiple. In realtà, la complessità della biologia in generale, e in particolare nelle malattie correlate a un disordine immunologico, deve farci porre in posizione critica rispetto all’applicazione del “rasoio di Occam” e ammettere l’esistenza di più disordini all’interno dello stesso individuo, eventualmente dettati da una medesima predisposizione, da coincidenti fattori di rischio ecc.

Source: Fondazione Serono SM


Disturbi del linguaggio nella sclerosi multipla: dall’afasia al disturbo di comprensione delle metafore

I sintomi più comuni della sclerosi multipla (SM) sia d’esordio sia in corso di ricadute sono caratterizzati da un deficit funzionale dei sistemi sensoriali primari o del sistema motorio: ad esempio un calo della vista, una perdita di sensibilità a un arto o deficit di forza a uno o più arti [1]. Nel corso degli ultimi anni, si è tuttavia addivenuti a una notevole espansione del possibile corteo sintomatologico associato alla SM includendo deficit non facilmente diagnosticabili se non altrimenti attentamente valutati. I deficit cognitivi sono esemplificativi di tali sintomi cosiddetti below-the-radar, ovvero che sfuggono alla normale valutazione clinica. Circa il 50-70% dei pazienti affetti da SM manifesta un deficit cognitivo con un grosso impatto negativo sulla loro qualità della vita [2]. Con l’accumularsi delle evidenze scientifiche a conferma di tale diffuso coinvolgimento della funzione cognitiva in SM, oggi in molti Centri dedicati alla diagnosi e cura della SM si effettuano valutazioni cognitive e si adattano le strategie terapeutiche anche in funzione della presenza o assenza di tale deficit. Se tanto è stato possibile è stato anche grazie all’introduzione di un test di screening della durata di 90 secondi, il symbol digit modality test che permette una rapida e specifica valutazione delle funzioni cognitive anche in un contesto clinico dai tempi ristretti [3].

Tra gli altri sintomi che i pazienti affetti da SM possono manifestare below-the-radar vi sono i deficit del linguaggio, uno degli strumenti che gli umani utilizzano per veicolare messaggi, per comunicare. Sebbene i pazienti affetti da SM raramente manifestino una completa afasia (mancanza di comprensione e produzione verbale) [4], sovente a una valutazione più estesa è possibile evidenziare deficit di denominazione, comprensione di frasi complesse, lettura e comprensione uditiva [5]. Tuttavia, questi aspetti del linguaggio appena citati tengono conto della conoscenza dei vocaboli e della struttura della frase ma non del contesto in cui tale frase viene pronunciata, né delle modulazioni non verbali associate a esse. Immaginiamo per esempio che un ragazzo si ritrovi con il suo gruppo di amici e, parlando di una partita di calcio, esclami che “tale calciatore è stato una saetta in campo”. Dal punto di vista strettamente semantico dovremmo immaginarci che mettendo al replay la partita a un certo punto il “tale calciatore” dovrebbe trasformarsi nell’immagine di un fulmine. Eppure, riguardando quel match, l’unica cosa che vedremo è che quel “tal giocatore” corre velocemente da un lato all’altro del campo ma non si trasforma. Nella frase “tale calciatore è stato una saetta in campo”, si è fatto infatti uso di un aspetto del linguaggio non convenzionale, in cui si utilizza un’immagine per eccellenza della velocità per descrivere l’abilità del calciatore. Pochi studi sono disponibili sulla valutazione degli aspetti non convenzionali del linguaggio in SM. Questo in parte è ascrivibile al fatto che solo nel 2013, per la prima volta, nella tassonomia dei disturbi mentali si è introdotto il termine “comunicazione sociale” e “pragmatica” facendo riferimento alla “capacità dell’uso sociale della comunicazione verbale e non verbale”.

Nello specifico, un disturbo della comunicazione sociale (pragmatica) si caratterizzava per un deficit in quattro aspetti del linguaggio: 1) uso di una comunicazione appropriata allo scopo da raggiungere; 2) modulazione della comunicazione al fine di adeguarsi alla situazione e all’ascoltatore (ad es., se ci riferiamo a un bambino o a un adulto); 3) capacità di seguire regole di strutturazione della narrazione; 4) comprensione di ciò che non è esplicitamente detto, ad esempio sarcasmo, idiomi, metafore. Altro motivo per cui la pragmatica rimane ancora poco valutata nelle patologie del sistema nervoso centrale è legato alla mancanza di uno strumento validato nelle diverse lingue per la valutazione di tali deficit. Un primo sforzo nella valutazione dei deficit comunicazionali sociali nella SM ha messo in evidenza come i pazienti possano manifestare deficit nella comprensione di frasi ambigue, di metafore e di un discorso narrativo [6]. A una valutazione ancora più estensiva, utilizzando uno strumento validato in italiano per la valutazione della pragmatica detto Assessment of Pragmatic Abilities and Cognitive Substrates (APACS) [7,8], si è osservato che il 55% dei pazienti affetti da SM mostra un deficit della pragmatica indipendentemente dalla durata di malattia o dalla gravità della medesima [9]. Nello specifico, i pazienti affetti da SM mostrano una performance non ottimale nella comprensione del linguaggio non letterale (linguaggio figurato e umorismo) e nella produzione di un quantitativo adeguato di contenuto in risposta a domande dell’intervistatore, risultando sotto-informativi [9]. Tali deficit non sono legati a deficit degli aspetti basilari del linguaggio e, soprattutto, non sono legati a un decadimento cognitivo globale, risultando tuttavia associati a un selettivo deficit delle funzioni cognitive esecutive frontali [9]. Questo dato sottolinea come, nonostante una valutazione estensiva dei pazienti affetti da SM, alcuni sintomi possono comunque passare inosservati se non opportunamente valutati.

La ricerca dei substrati patologici determinanti deficit comunicativi ha subito negli ultimi 30 anni un grosso interesse grazie allo sviluppo di tecniche convenzionali e avanzate di risonanza magnetica (RM) che permettono l’osservazione diretta del danno cerebrale e di relazionarlo allo specifico deficit comunicativo. A lungo si è ritenuto che mentre le lesioni in determinate aree dell’emisfero sinistro del cervello fossero responsabili di afasia, lesioni nelle stesse aree cerebrali ma all’emisfero destro si manifestassero come deficit del linguaggio sociale. Questa dicotomia si è però rivelata non proprio corretta dal momento che studi di attivazione cerebrale misurata attraverso RM funzionale hanno dimostrato che i soggetti che svolgevano compiti di comprensione di metafore, idiomi e ironia, funzioni tipiche della comunicazione sociale (pragmatica), attivavano aree cerebrali di entrambi gli emisferi [10,11]. A partire da questi e altri successivi studi oggi è noto che la comunicazione è una funzione che richiede l’integrità di una rete di network neuronali distribuiti in entrambi gli emisferi cerebrali, diversi a seconda dello specifico aspetto del linguaggio esplorato con un alto livello di integrazione e scambio dati tra networks e un ruolo specifico di una regione cerebrale detta giunzione temporo-parientale nella modulazione della comunicazione pragmatica [12]. Nella SM, le lesioni demielinizzanti a carico dei fasci di connessione tra diverse aree del cervello provocano una disconnessione tra aree cerebrali distanti tra loro, esitando in una rimodulazione non sempre funzionale all’interno dei network funzionali e nei processi di integrazione tra i medesimi [13].

Il primo studio pilota condotto nei pazienti affetti da SM volto a esplorare i correlati neuropatologici dei deficit pragmatici ha sottolineato una ridotta connettività funzionale tra la giunzione temporo-parietale (prevalentemente di destra) e la corteccia del paracingolo nei pazienti con deficit pragmatici [14]. La corteccia del paracingolo rappresenta un’area corticale fortemente implicata sia in processi cognitivi quali le funzioni esecutive frontali sia nella risoluzione dei problemi sociali complessi [14]. Pertanto, per quanto si tratti ancora di un risultato preliminare, la corretta funzione della giunzione temporo-parietale e della corteccia del paracingolo, nonché la loro connessione, sembra rivestire un ruolo primario nella corretta comprensione e produzione della comunicazione, soprattutto nelle sue componenti “sociali”.

Purtroppo, a oggi ancora non esistono farmaci efficaci per poter trattare deficit della comunicazione nei pazienti affetti da SM. Tuttavia, un forte contributo in tal senso potrebbe giungere da protocolli riabilitativi ad hoc. Uno studio molto promettente in tal senso è stato pubblicato di recente e ha mostrato l’efficacia terapeutica del protocollo riabilitativo Cognitive Pragmatic Treatment nei pazienti affetti da schizofrenia con deficit di pragmatica [15]. Per l’applicazione di tale protocollo nella SM si attendono nuovi studi in merito.

Source: Fondazione Serono SM


Il dolore neuropatico nella sclerosi multipla

In questo articolo sarà descritto il dolore neuropatico cronico nella sclerosi multipla (SM), focalizzando l’attenzione soprattutto sulla classificazione, fornendo elementi sui correlati anatomo-funzionali, senza però entrare in merito al trattamento.

Anzitutto come definire il dolore in generale? La International Association for the Study of Pain (IASP) lo definisce come “un’esperienza sensitiva ed emotiva spiacevole, associata con, o simile a quella associata con, un effettivo o potenziale danno tissutale” [1].

Il dolore può essere classificato sulla base dell’interpretazione dei meccanismi patogenetici, mediante la correlazione sintomo/segno. In altre parole, possiamo riconoscere diversi tipi di dolore grazie all’integrazione, da parte del clinico, di tutte le informazioni disponibili: le caratteristiche del sintomo descritte dal malato, l’osservazione del comportamento di quest’ultimo, i segni evidenziabili all’esame obiettivo (ad es., la coesistenza di un disturbo di sensibilità, la dolorabilità alla mobilizzazione di un’articolazione, lo scatenamento attraverso un trigger ecc.) e i risultati di indagini di laboratorio e strumentali [2,3].

La classificazione del dolore è però storia complessa nella nosografia e oggettivamente difficile alla luce del criterio di base utilizzato, con complesse implicazioni all’interno del costrutto medico-scientifico di riferimento [4].

Per superare tale complessità, ad oggi, possiamo fare riferimento alle indicazioni della IASP.

Il dolore neuropatico è stato definito dalla IASP come un dolore che è correlabile a una lesione primaria o a una disfunzione a qualsiasi livello del sistema nervoso [5]. In realtà la IASP stessa, più recentemente [6], fa riferimento a una definizione che vede il dolore neuropatico semplicemente descritto come quello causato da una lesione o malattia che colpisce il sistema nervoso nella sua componente somatosensitiva [7]. Senza dubbio, la dimostrazione di una lesione a livello del sistema nervoso, clinicamente compatibile, soprattutto per la distribuzione topografica delle algie, rafforza la classificazione del dolore come neuropatico [3].

La recente classificazione IASP del dolore cronico per la International Classification of Diseases (ICD-11) prevede di classificare il dolore neuropatico cronico associato alla SM nelle forme di “dolore cronico secondario”, dove la qualità di “cronico” è definita sulla base della persistenza della sindrome algica per più di 3 mesi [6].

Il dolore neuropatico può essere spontaneo o provocato da stimoli sensitivi, acquisendo il carattere di iperalgesia e/o di allodinia. Per iperalgesia si intende un’esagerata percezione dolorosa a uno stimolo nocicettivo. L’iperalgesia può associarsi a una riduzione della sensibilità tattile: ad esempio, la puntura con spillo può provocare un dolore intenso, sproporzionato, e nel contempo il riconoscimento delle caratteristiche della “puntura” può essere alterato a confronto di altre zone cutanee non interessate. Si distingue col termine allodinia quella condizione in cui il dolore avviene in risposta a uno stimolo che in condizioni normali non evoca dolore.

Il dolore neuropatico cronico è percepito nel territorio che è somatotopicamente correlabile alla struttura del sistema nervoso lesionata; nel caso delle forme secondarie a SM, ovviamente, si fa riferimento al sistema nervoso centrale (“dolore neuropatico cronico centrale”).

D’altra parte, si pone un problema classificativo per la compromissione SM-correlata di aree del sistema nervoso al confine tra la classica e convenzionale distinzione anatomica tra sistema nervoso periferico e centrale. Esempio di ciò è la nevralgia trigeminale secondaria a SM. Quest’ultima, seppure dovuta a una lesione demielinizzante a livello della regione ventrolaterale del ponte, è infatti attualmente classificata nell’ambito del “dolore neuropatico cronico periferico” [6] perché in realtà dovuta alla compromissione del segmento intrapontino del nervo trigemino, in un’area anatomica localizzata tra la zona di ingresso della radice trigeminale e i nuclei sensitivi del trigemino. Nella SM, come nella classica nevralgia trigeminale idiopatica, il dolore è caratterizzato da improvvisi parossismi dolorosi (di pochi secondi o qualche minuto) trafittivi, “a coltellata” o “scossa elettrica”, unilaterali che recidivano e che si distribuiscono a livello di una o più branche del nervo trigemino. Tali parossismi sono tipicamente evocati dalla stimolazione cutanea o mucosa nell’ambito del territorio trigeminale interessato (zone trigger), ad esempio da toccamenti, a volte solo sfioramenti, del volto oppure da azioni come parlare, masticare ecc. [8].

La già citata classificazione IASP del dolore cronico per la International Classification of Diseases (ICD-11) prevede proprio un “dolore neuropatico centrale cronico causato da SM” [6]. Si tratta di un dolore che si ritiene causato da una lesione demielinizzante di una regione del sistema nervoso centrale che presiede aree di integrazione somatosensitiva o che interessa una via sensitiva afferente o di connessione tra tali aree. Il dolore può essere spontaneo o evocato e può assumere le caratteristiche suddette di iperalgesia o allodinia. Come già accennato in generale, è elemento fondamentale di riconoscimento clinico un coesistente deficit di sensibilità (ipoestesia) oppure una disestesia (tatto, temperatura ecc. destano percezioni dello stimolo diverse dal normale) e/o parestesia (insorgenza di una sensazione elementare come formicolio, solletico ecc., in assenza di una stimolazione specifica); sintomi sensitivi che indicano compromissione di una zona del sistema nervoso centrale nella regione corporea dove si proietta il dolore.

Nella SM che si accompagna a interessamento motorio piramidale è molto frequente un dolore che è associato alla spasticità. In realtà questo tipo di dolore non è classificato come neuropatico ma come dolore muscoloscheletrico [6].

Di difficile inserimento nella tassonomia del dolore che, ormai da anni, sta proponendo la IASP, resta di difficile classificazione il “fenomeno di Lhermitte” descritto da Jean Jacques Lhermitte, neuropsichiatra francese, in un caso di SM nel 1924 [9]. Il fenomeno di Lhermitte è caratterizzato da una sensazione parossistica a tipo scarica elettrica, in realtà non sempre riportata come dolorosa dal paziente, provocata dalla flessione del capo, che dalla base del collo si propaga lungo il rachide o verso altre parti del corpo; si presenta per un certo periodo di tempo (da giorni a mesi in genere) per poi risolversi; è correlato a una placca demielinizzante a carico delle colonne dorsali del midollo cervicale che causa la generazione ectopica di un impulso nocicettivo lungo le vie afferenti sensitive [10]. In effetti, non si trova citato nell’ambito del suddetto capitolo del “dolore neuropatico centrale cronico causato da SM” [6], verosimilmente in conseguenza delle caratteristiche parossistiche e per il fatto che tende a risolversi anche prima dei 3 mesi (questo però è vero anche per la nevralgia trigeminale che invece trova il suo posto nella classificazione IASP).

Secondo il PaIMS Study Group [11] il dolore neuropatico è la sindrome dolorosa prevalente nella SM. In particolare, la sindrome algica in assoluto più frequente è quella che i ricercatori hanno classificato come “dolore disestesico”, rilevato nel 18% dei casi nella popolazione italiana studiata. Il “dolore disestesico” può essere classificato nel “dolore neuropatico cronico secondario a SM” nella ormai più volte citata classificazione IASP [6]. C’è sufficiente evidenza che il dolore disestesico sia direttamente correlato alla formazione ed evoluzione delle placche nell’encefalo e nel midollo spinale delle persone affette da SM [12,13].

Nella SM è frequente la compromissione delle vie sensitive che includono il tratto spinotalamico (la cui lesione si correla con caratteristiche di dolore più acuto, trafittivo, lancinante ecc.) e il sistema spino-reticolo-talamico (dolore sordo, urente, non ben localizzabile ecc.). Questi sistemi ascendenti proiettano a diverse e complesse strutture neuronali (la cosiddetta “pain matrix”), anzitutto a livello del talamo e della corteccia somatosensoriale secondaria, ma poi anche a livello della corteccia anteriore del cingolo, dell’insula e della sostanza grigia periacqueduttale, come dimostrato in soggetti sani con tecniche di risonanza magnetica funzionale [14,15].

L’alterazione di questa “pain matrix”, a seguito delle classiche placche di demielinizzazione e della più diffusa neuro-infiammazione delle cosiddette “sostanza bianca apparentemente normale” e ”sostanza bianca diffusamente anormale” [16], determina una continua anomala risposta a stimoli nocicettivi transitori causando dolore cronico.

Altro classico meccanismo fisiopatologico del dolore neuropatico è quello associato con la ipereccitabilità dei neuroni nocicettivi gangliari della radice dorsale. A questo riguardo, alcuni studi su modelli animali di SM hanno permesso di ipotizzare una compromissione dei neuroni sensitivi periferici dei gangli della radice dorsale (e anche dei gangli trigeminali) in risposta alla presenza di neuro-infiammazione a livello del sistema nervoso centrale [17]. Tale ipereccitabilità dei neuroni gangliari della radice dorsale determina che i segnali nocicettivi siano trasmessi centralmente anche in assenza di reali stimoli nocicettivi periferici, promuovendo alla fine il fenomeno della cosiddetta “sensibilizzazione centrale” [18], in cui i neuroni talamici e delle altre strutture della “pain matrix” possono diventare autonomamente iperattivi, con attività neuronale che si innesca indipendentemente da un’attivazione afferente dalla periferia.

In più, c’è il ruolo svolto a livello delle corna dorsali del midollo spinale, messo in evidenza dalle fondamentali ricerche di Melzack e Wall (1965), padri della “teoria del cancello” (Gate Control Theory) che rappresenta una pietra miliare della fisiopatologia del dolore [19].

In parole semplici, la complessità del dolore neuropatico cronico associato alla SM può riconoscere correlati anatomo-funzionali patologici a diversi livelli: da un’alterazione delle afferenze nocicettive, a un’alterazione della “pain matrix” e da un mal funzionamento delle vie inibitorie discendenti.

Infine, un minimo cenno è dovuto al fatto che le correlazioni anatomo-funzionali della fisiopatologia del dolore sono sottese da una ancor più complessa interazione tra sistemi neurotrasmettitoriali (GABAergico su tutti) e neuro-infiammazione [20].

La fisiopatologia del dolore, a maggior ragione nella SM, è dunque complessa, e spesso diversi tipi di dolore coesistono nello stesso paziente, soprattutto in coloro che hanno una disabilità motoria elevata in forme di SM progressiva [11]. Il dolore è correlato alla disabilità [11,21].

Inoltre, non dobbiamo scordare il ruolo della sfera emotivo-affettiva che ha un complesso legame fisiopatologico con il dolore. La componente emozionale del dolore è egualmente importante alla componente somatosensitiva. Il dolore nella SM è strettamente correlato alla fatica SM-correlata, alla depressione e alla disabilità; modifiche di uno di questi sintomi si associano a modifiche degli altri [21]. Sulle possibili spiegazioni e meccanismi comuni fisiopatologici non c’è spazio per soffermarsi. Vale qui solo ricordare che il dolore in sé non è il solo elemento di “sofferenza”, perché esso si associa ad altre componenti tra cui, come detto, l’abbassamento del tono dell’umore, con sentimenti di insicurezza e di ridotta stima di sé, perdita della libido, perdita dell’appetito, ansia, sentimenti di grave disabilità e disturbi del sonno; i pazienti con dolore possono assumere comportamenti di “sick role“, spesso soffrendo dell’anticipazione del dolore (del “pensiero di sentire dolore”) e delle limitazioni imposte in alcune attività che il paziente associa alla possibilità che si scateni dolore [22]. D’altro canto, fattori psicologici modulano la percezione del dolore.

Il dolore, in generale, è associato a compromissione cognitiva nella SM, in particolare recentemente è stata riportata un’associazione tra dolore e alterazione delle funzioni esecutive [23]. Pertanto, più alterate sono le funzioni esecutive, maggiormente è frequente dolore, che peraltro proprio in conseguenza del deficit cognitivo potrebbe essere più difficile da descrivere da parte del paziente, ponendolo a rischio di un mancato trattamento.

È importante ricordare che il peso del dolore sulle attività della vita quotidiana e sulla qualità di vita del paziente con SM [24,25], che apparentemente dovrebbe essere ovvio, è in realtà da poco tempo tenuto in debita considerazione dai medici. Ne è prova il fatto che, nel già citato studio italiano PaIMS [11], solo il 9,4% dei partecipanti stava assumendo una terapia per il dolore e che uno studio nord-americano, basato sul North American Research Committee on MS (NARCOMS) Patient Registry (10.176 pazienti), ha riportato la presenza di una scarsa soddisfazione da parte dei pazienti nella gestione del problema dolore [26].

L’attenzione a un approccio palliativo alla SM con l’avanzare della disabilità è pertanto fondamentale anche per intercettare le necessità di trattamento del dolore [27] ed è questo che auspichiamo possa sempre più realizzarsi nei Centri SM italiani.

Source: Fondazione Serono SM


Il ruolo del trauma nella sclerosi multipla e la neuropsicoterapia

Il rapporto vissuto costantemente con le persone affette da sclerosi multipla (SM) durante le valutazioni e i percorsi psicologici ha fatto emergere un aspetto ricorrente e di notevole importanza, ovvero la frequente presenza di eventi traumatici nelle storie di vita, vissuti durante l’infanzia ma anche da adulti. Eventi stressanti che spesso si verificano in concomitanza di ricadute o di progressioni della malattia oppure accadimenti molto lontani nel tempo ma spesso poco elaborati internamente.

Sappiamo che i traumi infantili influenzano in modo significativo lo sviluppo psicologico, sociale, emotivo e cognitivo del bambino, ma risulta ormai evidente dalle ricerche scientifiche che esistono conseguenze anche sullo sviluppo cerebrale e sulle funzioni neuropsicologiche, infantili e adulte. Le evidenze scientifiche oggi disponibili, per quanto preliminari, suggeriscono che i sistemi di risposta allo stress rivestono un ruolo di primo piano. L’esperienza del trauma sembra attivare una risposta anormale allo stress, che interferisce con il fisiologico sviluppo di aree dell’encefalo più vulnerabili a stimoli stressogeni, che si ripercuotono negativamente su diversi domini cognitivi.

Le esperienze traumatiche infantili influenzano, dunque, il normale sviluppo cerebrale attraverso l’attivazione anomala di questi sistemi biologici dello stress [1], i quali, evoluzionisticamente utili per difenderci dai pericoli ambientali, diventano però disfunzionali nel momento in cui si attivano in modo parossistico; tanto che si è osservata frequentemente la presenza di alterazioni di rilievo nei meccanismi di mielinizzazione del cervello in via di sviluppo, con ripercussioni negative sulle strutture più ricche di fibre mieliniche e con conseguenze sulle abilità cognitive, in particolare sulle funzioni esecutive.

Il percorso di conoscenza e valutazione, in ottica biopsicosociale, di una persona con diagnosi di sclerosi multipla, e cioè con una visione totale della persona stessa da tutti i punti di vista, consente un efficace trattamento neuropsicoterapeutico in grado di intervenire sui deficit cognitivi e sulla compromissione psicologica.

La letteratura medica degli ultimi vent’anni si è ampiamente dedicata a indagare il ruolo dello stress acuto, o per meglio dire la risposta psico-neuro-endocrino-immunologica al trauma psicologico, come elemento scatenante l’insorgenza o l’aggravamento della sclerosi multipla.

Lo studio del 2000, pubblicato su Neurology da Mohr et al. [2], esamina la relazione tra eventi di vita stressanti e disagio psicologico e il successivo sviluppo di lesioni cerebrali che aumentano il gadolinio (Gd+). Per il campione esaminato dallo studio (36 pazienti con SM R-R) è stato rilevato un aumento delle probabilità di sviluppare nuove lesioni cerebrali (Gd+ 8 settimane dopo) a seguito di conflitti e dell’interruzione della routine per via di eventi stressanti. Il risultato dello studio segue l’ipotesi che il trauma e il disagio psicologico siano associati all’aggravamento della malattia nella SM. Questo è il primo studio longitudinale prospettico della relazione tra eventi di vita stressanti, disagio psicologico e attività della malattia misurata dalla risonanza magnetica cerebrale (Gd+).

In un articolo della rivista britannica BMJ [3] è stata studiata la relazione tra gli eventi di vita stressanti non relativi alla malattia e il manifestarsi di aggravamenti delle forme recidivanti-remittenti, e si è giunti alle medesime conclusioni: gli eventi traumatici sono stati associati a un aumento delle esacerbazioni nella sclerosi multipla. Dei 73 pazienti inclusi nello studio, di età compresa tra i 18 e i 55 anni e provvisti di capacità motoria, il 96% (70 persone) ha riportato almeno un evento stressante. Durante lo studio si sono verificate 134 riacutizzazioni in 56 pazienti e 136 infezioni in 57 pazienti.

Un articolo del Journal of Pharmacology and Experimental Therapeutics [4] ha studiato a livelli macroscopici il meccanismo cellulare coinvolto nello stress, illustrando come sia l’ormone implicato nella risposta agli stress, responsabile della corticotropina, sia i mastociti erano coinvolti nella regolazione della barriera emato-encefalica e che probabilmente erano responsabili anche dei disturbi infiammatori del cervello aggravati da stress acuto.

Sono ormai numerose le ricerche che supportano la tesi dell’esistenza di una relazione tra stress psicologico, aggravamento clinico e sviluppo di nuove lesioni cerebrali e ancora di più i ricercatori evidenziano come malattie neurodegenerative croniche e pericolose per la vita possono essere associate al disturbo post-traumatico da stress (PTSD). Lo studio di Ostacoli et al. (2013) [5] è stato un’indagine sulla prevalenza del disturbo da stress post-traumatico nei pazienti con SM e l’identificazione di determinanti significativi del PTSD. Duecentotrentadue pazienti con SM sono stati reclutati consecutivamente e sottoposti a screening per la presenza di PTSD con l’impatto dell’Event Scale-Revised, corroborato dall’intervista clinica strutturata per il DSM-IV. Inoltre, ai partecipanti è stata somministrata la scala di ansia e depressione ospedaliera e la scala di gravità della fatica. Dodici pazienti (12/232, 5,17%) sono stati diagnosticati come affetti da PTSD. Gli autori reputano necessarie ulteriori ricerche sulle caratteristiche psicologiche delle malattie neurodegenerative al fine di pianificare trattamenti adeguati e migliorare la qualità della vita dei pazienti.

La lettura di questi risultati evidenzia che il sistema immunitario risponde ai segnali di sofferenza dell’organismo: di solito tende a mantenere l’integrità della persona, ma quando il trauma emotivo è intenso e violento, l’integrità psichica può vacillare. La sensazione di inadeguatezza che spesso si affianca a questi stati di sofferenza emotiva è la stessa situazione che vive il sistema immunitario, la sua azione può diventare confusa e la malattia autoimmune si può presentare con maggiore facilità. La sclerosi multipla con i suoi molteplici aspetti interessa tutte le aree di funzionamento dell’individuo: fisico, psicologico, cognitivo, comportamentale e affettivo/relazionale. Di fronte a una persona in difficoltà, che richiede aiuto, è importante conoscere la patologia organica di cui soffre: il che significa rendersi conto di quali fattori eziopatogenetici possano averla scatenata, quali sintomi che può provocare, quali terapie dovrà affrontare e quali ripercussioni tutto ciò può comportare nelle sue relazioni e nel suo funzionamento generale (lavorativo e sociale). Non vanno assolutamente trascurati la storia personale e l’assetto psicologico prevalente della persona, oltre al contesto familiare e sociale in cui è inserito: tutti aspetti che rendono ogni patologia soggettiva, come dovrà esserlo il trattamento idoneo alle specifiche problematicità.

La patologia neurologica, in particolare, ha necessità di una lettura multifattoriale, per non rischiare di trascurare elementi importanti.

Per riuscire in questo inquadramento viene in aiuto il modello biopsicosociale, che considera lo stato di salute e di malattia determinato da fattori sia biologici sia psicologici e sociali. Questo modello, che analizza il concorrere di più variabili, promuove l’obbligatorietà di una relazione tra le varie figure professionali, il paziente e la famiglia. Lo psicologo psicoterapeuta deve assumere competenze della neuropsicologia, della neurologia e della psicoterapia in modo che il paziente venga trattato sia rispetto alla personalità pregressa e attuale, sia cognitivamente che socialmente, per garantire un ottimale inserimento nella quotidianità.

La neuropsicoterapia è la dimostrazione dell’utilità della visione olistica dell’individuo verso strategie riabilitative di successo, dove sono elaborati contemporaneamente i sentimenti negativi legati alla perdita del normale funzionamento, l’accettazione e il lavoro di recupero dei deficit presenti, la ricerca di nuovi equilibri esistenziali e il rinforzo dell’autostima, affinché vi possa essere un funzionale inserimento sociale. In questa prospettiva la presa in carico del paziente ha come obiettivo la definizione e la riabilitazione dei deficit ma anche l’integrazione delle risorse dell’individuo nel suo contesto di vita [6].

Source: Fondazione Serono SM