Accessi in Pronto Soccorso dei malati di sclerosi multipla: quali fattori li condizionano?

Un gruppo di specialisti italiani ha eseguito uno studio per valutare la probabilità di ricovero in Pronto Soccorso dei malati con sclerosi multipla nella Regione Campania. I risultati hanno indicato una frequenza del 17% di accessi al Pronto Soccorso e un effetto del trattamento con i farmaci modificanti la malattia nel ridurre il rischio di accedere a tale struttura.

Negli ultimi vent’anni sono stati introdotti nella pratica clinica numerosi farmaci modificanti la malattia per la cura della sclerosi multipla. Essi possono ridurre l’attività della patologia, la frequenza delle recidive e, almeno in parte, la progressione della disabilità, con un livello variabile di rischio di effetti indesiderati. In generale, le persone affette dalla sclerosi multipla hanno frequenze di ricovero che arrivano al 7.5% su periodi di osservazione di tre mesi. Sia i sintomi della sclerosi multipla, che quelli di altre malattie che in alcuni casi le si associano, che la comparsa di effetti indesiderati dei trattamenti possono richiedere accessi al Pronto Soccorso. Moccia e colleghi hanno eseguito uno studio per verificare l’assistenza erogata ai malati di sclerosi multipla presso il Pronto Soccorso, per valutare i fattori che favoriscono l’accesso di questi soggetti a tale struttura e per individuare le cause di esiti negativi del ricorso al Pronto Soccorso. Si è trattato di una ricerca di popolazione, basata sui dati del Servizio Sanitario Nazionale raccolti in Campania tra il 2015 e il 2019. Le persone affette da sclerosi multipla in questa Regione sono seguite da 10 Centri dedicati e possono accedere al Pronto Soccorso di 30 Ospedali, che servivano, al 1° gennaio 2020, una popolazione di 5.801.692 abitanti. Sono stati analizzati in particolare: le cartelle di dimissione degli Ospedali, le prescrizioni di farmaci e i dati relativi ai malati ambulatoriali. I risultati hanno indicato che, su un totale di 5.765 malati di sclerosi multipla presenti in Regione, 1.001 hanno avuto 1.225 accessi in Pronto Soccorso. I fattori associati a un più frequente ricorso a tali strutture sono stati l’età (rapporto di rischio 1.02; intervallo di confidenza al 95% 1.01-1.03; p<0.01) e la presenza di malattie associate alla sclerosi multipla (rapporto di rischio 1.62; intervallo di confidenza al 95% 1.54-1.71; p<0.01). La probabilità di accedere al Pronto Soccorso è invece diminuita di circa l’80% nei malati in cura con farmaci modificanti la malattia. In particolare, rispetto a chi non era in terapia, per quelli in trattamento con interferone beta, con interferone peghilato o con glatiramer acetato il rapporto di rischio è stato di 0.19 (intervallo di confidenza al 95% 1.15-0.25; p<0.01), per chi assumeva teriflunomide, dimetilfumarato o fingolimod è stato di 0.18 (intervallo di confidenza al 95% 0.14-0.23; p<0.01) e per le persone in cura con alemtuzumab, cladribina, natalizumab od ocrelizumab il rapporto di rischio è stato di 0.21 (intervallo di confidenza al 95% 0.14-0.29; p<0.01). Considerando solo i soggetti in cura con i farmaci modificanti la malattia, non si è rilevata un’associazione tra probabilità di accesso al Pronto Soccorso e tipo di trattamento assunto. Nella casistica è stata analizzata anche la relazione tra aderenza alla terapia e rischio di accesso al Pronto Soccorso e si è rilevato che, chi aveva una maggiore aderenza, presentava una riduzione dell’82% della probabilità di afferire a tale struttura. Tra gli esiti dell’assistenza ricevuta al Pronto Soccorso è stata valutata la probabilità di un nuovo accesso alla stessa struttura nei 12 mesi successivi ed essa è risultata correlata solo a un indice riferito alla presenza di malattie associate, vale a dire che quante più erano queste ultime, o quanto più erano gravi, tanto più frequenti erano gli ulteriori ricoveri. Il rischio di decesso, come esito dell’accesso al Pronto Soccorso, ha mostrato un’associazione solo con l’età (rapporto di probabilità 1.06; intervallo di confidenza al 95% 1.01-1.10; p<0.01) e la stessa relazione si è osservata con il trasferimento dal Pronto Soccorso a una struttura di assistenza a lungo termine (rapporto di probabilità 1.03; intervallo di confidenza al 95% 1.01-1.06; p=0.01). Il costo stimato complessivo degli accessi al Pronto Soccorso dei malati di sclerosi multipla è stato di 4.143.765 Euro.

Nelle conclusioni gli autori hanno evidenziato che, secondo i risultati della loro ricerca, ci sono molti fattori che aumentano la probabilità di accesso al Pronto Soccorso per i malati di sclerosi multipla e la maggior parte di essi si può prevenire. Se la malattia è curata in Centri dedicati, se c’è un’aderenza adeguata ai trattamenti con farmaci modificanti la malattia e se c’è una gestione coordinata delle patologie associate, si riduce il ricorso all’assistenza del Pronto Soccorso e questo diminuisce il peso sociale, medico ed economico che tale assistenza comporta.          

Source: Fondazione Serono SM


Vivere la sessualità con la sclerosi multipla

Una giovane donna in visita presso il Centro Specialistico per la Sclerosi Multipla si trova a ricevere dal neurologo che aveva seguito la sua situazione fin dall’esordio dei primi sintomi la diagnosi di malattia. Il colloquio con lo specialista affronta tantissime tematiche riguardanti il trattamento, le difficoltà legate alla sintomatologia ma anche le paure della paziente sul decorso della malattia e le eventuali implicazioni nelle proprie autonomie e nella vita lavorativa.

La visita termina e la ragazza sembra essere tranquilla ma è durante il successivo colloquio con lo psicologo che emerge un argomento che non era stato ancora affrontato: alla domanda riguardante la sessualità risponde con molto imbarazzo, poi, sentendosi accolta dallo specialista, si apre e racconta le sue difficoltà sessuali e relazionali, iniziate con l’esordio dei sintomi legati alla sclerosi multipla e rese ancora più marcate dall’inesperienza dovuta alla giovane età.

Questo breve racconto ci offre l’occasione di parlare dei disturbi sessuali, quelli direttamente collegati alla sclerosi multipla, come vedremo più avanti nel dettaglio, e quelli più specificatamente psicologici, causati dalla difficoltà di vivere con serenità e libertà la propria sessualità quando si è affetti da una patologia cronica, che investe sia il corpo sia l’immagine che di esso ha la persona.

I disturbi sessuali nella sclerosi multipla sono sottodiagnosticati: solo il 2,2-5,7% dei pazienti riferisce al proprio medico di soffrirne [1], mentre è verificato che più dell’80% delle donne affette da sclerosi multipla manifesta una disfunzione sessuale; queste possono riguardare la riduzione del desiderio, la riduzione della sensibilità durante la stimolazione sessuale, il dolore (vaginismo) o l’anorgasmia. Anche gli uomini soffrono di disfunzioni sessuali legate prevalentemente alla difficoltà di erezione o all’eiaculazione precoce e dunque in entrambi i sessi le ricerche evidenziano che solamente il 40% delle persone con sclerosi multipla dichiara di essere soddisfatta della propria attività sessuale.

La sessualità è ancora oggi vista come un argomento “delicato” e molto personale, per cui risulta difficile che il paziente ne parli con il medico ma anche che quest’ultimo indaghi tale ambito con la persona in cura, offrendo ascolto e sostegno.

La sfera sessuale è invece centrale nella qualità della vita delle persone e nello sviluppo psicofisico dei più giovani, per cui è indispensabile parlarne e affrontare eventuali problematiche, sia con lo psicologo sia con il neurologo, che attiveranno in seguito altri specialisti, se ritenuto necessario.

Le disfunzioni sessuali nella sclerosi multipla possono essere raggruppate in tre categorie [2]: le primarie, dovute a lesioni demielinizzanti che causano danni in aree del sistema nervoso centrale (SNC), direttamente chiamate in causa nei meccanismi del funzionamento dell’attività sessuale; le secondarie, causate da sintomi comuni alla sclerosi multipla quali fatica, disturbi sfinterici, spasticità, dolore e debolezza muscolare; le terziarie, dovute a problematiche psicologiche e relazionali conseguenti alla presenza della patologia fisica.

Ci soffermeremo sull’ultima categoria, quella in cui l’aspetto emozionale è predominante, soprattutto per far comprendere il messaggio che anche se il problema non è organico, deve essere affrontato e curato, perché le ripercussioni che la sclerosi multipla può avere sulla vita sessuale possono essere notevoli.

Questo accade, secondo uno studio pubblicato da Walker e Gonzales nel 2007, in particolare quando l’età di insorgenza è giovanile, vi è associata una depressione, il decorso è aggressivo, gli effetti collaterali della terapia sono pesanti e la patologia comporta ripercussioni sulla vita professionale e relazionale [3].

Anche il partner non affetto da patologia risente della stessa per molti fattori, in particolare perché si trova di fronte a una persona diversa rispetto al pre-diagnosi: gli stili di vita così come i ruoli nella coppia possono cambiare, aumentano i problemi e le responsabilità anche nel prendersi cura dell’altro e le aspettative legate alla salute e alla programmazione della vita possono subire delle variazioni. Si sommano inoltre importanti emozioni negative: i partner che richiedono un supporto psicologico riferiscono di vivere sensazioni di paura e compassione ma anche vergogna, rabbia, depressione, avversione, senso di colpa e angoscia del futuro; oltre alla tristezza e alla preoccupazione.

Chiaramente sono tantissime le variabili che possono condizionare l’intimità di una coppia, che dipendono appunto da entrambi gli attori coinvolti. Ecco perché è opportuno parlare, al di là dei condizionamenti dovuti dalla sclerosi multipla, di cosa è la sessualità, in che modo risulti parte dello sviluppo psicofisico delle persone e quando può diventare problematica.

La salute sessuale, come dichiarato dalla World Association for Sexual Health (WAS) nel 2008, è un diritto e rappresenta un elemento essenziale per la salute in generale, il benessere e lo sviluppo umano ed è opportuno, per comprenderla, svincolarla dall’aspetto procreativo e considerarla nella sua complessità che va oltre l’atto sessuale [4].

Questo aspetto dell’essere umano ha la specificità di riunire, nel momento in cui la si vive, la realtà fisica e il pensiero, arricchendolo di fantasia, affetti ed emozioni. La natura della sessualità è quella di soddisfare l’esigenza di rapporto con l’altro, con il corpo ma soprattutto con la realtà interna, con i pensieri e le emozioni dell’altro, permettendo a ciascuno di realizzare la propria identità, di riconoscere se stessi, pur nella fusione con il partner.

È importante sottolineare che la sessualità non risponde a un semplice impulso biologico, come avviene per gli animali; gli esseri umani “si innamorano di un’immagine non di un corpo”, l’attrazione, anche quella fisica, è dovuta alla complessità della persona con cui ci si relaziona, che non riguarda solo la somma delle singole parti di un corpo, ma quell’insieme di aspetti fisici, mentali e affettivi che la rendono unica [5].

È dunque l’esigenza di realizzare un rapporto che spinge le persone ad avvicinarsi e questa esigenza non è finalizzata a uno scopo materiale, non può e non deve essere mai guidata da una valutazione del rapporto in termini di convenienza o in base a schemi sociali e culturali, che tendono ad appiattire e uniformare le persone a modelli estetici privi di originalità e autenticità. L’esigenza di rapporto è una spinta alla scoperta di qualcosa di nuovo in sé e nell’altro, una tensione che non si esaurisce mai e che nel corso della vita può divenire sempre più profonda, prevedendo la capacità di mettersi continuamente in gioco insieme al partner. “La sessualità è realtà umana. È rapporto interumano al massimo grado… È ricerca, approfondimento, perfezionamento, realizzazione di un rapporto sempre migliore, sempre più bello, che fa identità e non la distrugge” [6].

È l’adolescenza il momento in cui la sessualità emerge in modo dirompente, mettendo il ragazzo e la ragazza difronte a una sfida enorme, quella di riconoscere se stessi in un corpo che cambia e ancor più in un assetto psichico completamente diverso da quello dell’infanzia.

Questo passaggio, che di per sé può generare insicurezza nel momento in cui ci si trova o si desidera relazionarsi con la persona che attrae, diventa ancor più complesso quando l’adolescente si trova a inserire in questo quadro una diagnosi di patologia, che nel caso della sclerosi multipla può avere anche ripercussioni nella sfera sessuale.

Riuscire a non rimanere intrappolati in falsi stereotipi, legati particolarmente al corpo, è una conquista a cui l’adolescente arriva quando l’innamoramento e il desiderio per l’altro fa passare in secondo piano le proprie insicurezze o addirittura le risolve, proprio per la soddisfazione di essere riusciti a esprimere le proprie emozioni e aver costruito una situazione relazionale soddisfacente.

Ecco che il rapporto, spesso fonte di ansie, paure e sofferenze può invece rappresentare una risorsa per la costruzione dell’immagine interna, che necessita ad ogni età di essere rafforzata.

La costruzione dell’identità sessuale è un processo che accompagna l’essere umano in tutto l’arco della vita, ad ogni tappa evolutiva è necessario separarsi da vissuti precedenti per dirigersi verso nuovi aspetti di sé.

Trovarsi in un corpo adulto, sessualmente attivo, implica il dover lasciare le modalità relazionali tipiche dell’infanzia, come l’insicurezza, la dipendenza e il timore per l’altro sconosciuto.

I blocchi e gli arresti nel cammino evolutivo, dipesi anche dall’insorgenza di patologie, possono dunque creare problematiche alla sfera della sessualità, in particolar modo quando anche il partner si ritira dal rapporto per timore, scarsa conoscenza della problematica o per propria anaffettività.

La delusione del desiderio però non è mai dovuta a una difficoltà fisica, a una problematica legata al corpo. La delusione emerge quando l’immagine che ci si era fatti della persona desiderata cambia e delude le aspettative in termini di presenza, affetto, attenzione, comprensione, interesse; quando l’altro non riesce a vivere con noi un nostro cambiamento.

Rifiutare queste situazioni è essenziale per non perdere se stessi nella sofferenza di un rapporto deludente e ambire alla ricerca di incontri più validi.

La giovane paziente a questo punto chiede allo psicologo se riuscirà, nonostante la sua difficoltà fisica nell’atto sessuale, a non perdere il suo fidanzato e a vivere con lui una vita soddisfacente. La risposta non è certa, come per ogni rapporto c’è una sfida da affrontare, la sfida della conoscenza e del desiderio reciproci, è così che ogni coppia inventa la propria originale e personale sessualità.

Source: Fondazione Serono SM


Associazione 160 cm: un nuovo riferimento per i malati di sclerosi multipla

Il giorno 1 marzo 2022 si è svolto a Torino un convegno dell’Associazione 160 cm, nel quale si è parlato di numerosi aspetti della sclerosi multipla, compresi quelli relativi alla comunicazione sulla malattia. All’evento ha partecipato anche la Fondazione Merck Serono, che ha presentato il suo approccio all’informazione sulla sclerosi multipla.

L’Associazione 160 cm (https://www.160cm.it) è nata nel 2020 per promuovere un nuovo punto di vista sulla sclerosi multipla. È stata fondata da Fabio Guglierminotti, che dell’Associazione è anche il Presidente e che era un atleta. Una volta ricevuta la diagnosi di sclerosi multipla, ha continuato a impegnarsi in forme di esercizio fisico compatibili con la sua funzionalità fisica, prima fra tutte l’uso della bicicletta, con la quale tuttora fa lunghi viaggi. Proprio partendo dalla sua esperienza, l’Associazione 160 cm si propone di promuovere l’inserimento dell’attività fisica tra le cure della sclerosi multipla e di altre patologie che provocano spasticità dei muscoli. Il 1° marzo 2022, presso il Museo Nazionale del Cinema di Torino, si è tenuto un convegno al quale hanno partecipato figure di vario genere, da politici ad amministratori della Sanità regionale e cittadina, da medici ad altri professionisti della Sanità coinvolti nella gestione della malattia. Tra i medici intervenuti, la Dottoressa Paola Cavalla, Responsabile del Centro della Sclerosi Multipla della Città della Salute e della Scienza di Torino, ha descritto i PDTA (Percorsi Diagnostici Terapeutici Assistenziali) nazionale e regionale del Piemonte per la sclerosi multipla. Tali documenti stabiliscono le modalità di gestione della sclerosi multipla e, mentre quello nazionale fornisce indirizzi generali, quello regionale del Piemonte dà indicazioni più pratiche, tenendo conto dell’Organizzazione Sanitaria nella quale va applicato. Giuseppe Massazza, Direttore del Dipartimento di Ortopedia, Traumatologia e Riabilitazione della Città della Salute e della Scienza di Torino, ha parlato dell’importanza della riabilitazione nella sclerosi multipla e Claudio Solaro, della Casa di Cura Monsignor Luigi Novarese, ha trattato, in particolare, l’argomento della cura della spasticità, che può presentarsi nelle persone che hanno la sclerosi multipla. Del ruolo dello sport nella cura di questa malattia, ha parlato Laura Moriondo, Responsabile dell’attività adattata del Centro Universitario Sportivo di Torino. Una sessione del convegno è stata dedicata alla comunicazione sulla sclerosi multipla e a essa ha partecipato la Fondazione Merck Serono, alla quale è stato chiesto di riportare la sua esperienza nel campo. Un aspetto chiave dell’informazione sulle malattie è quello di trattare argomenti che interessino veramente malati e caregiver, ovviamente selezionando le fonti in base alla loro attendibilità. Proprio per raccogliere dagli utenti le priorità della comunicazione, il sito della Fondazione Merck Serono ha proposto un questionario e al convegno sono stati presentati i risultati preliminari della sua compilazione. Ha suscitato interesse il fatto che, in generale, le priorità segnalate dagli utenti del sito sono coincise, in gran parte, con gli argomenti trattati nel convegno. Nella stessa sessione hanno parlato due giornalisti, che hanno sottolineato l’importanza di modulare correttamente la comunicazione sulla sclerosi multipla, evitando di drammatizzarla e di renderla troppo complessa.

L’Associazione 160 cm si propone di promuovere la gestione della sclerosi multipla in ogni malato, affrontandola da tutti i punti di vista e soddisfacendo il più possibile le sue necessità. Un’enfasi particolare viene data all’attività fisica, che si ritiene debba essere parte integrante della cura.          

Source: Fondazione Serono SM


Vitamina D e recidive della sclerosi multipla

Risultati preliminari hanno individuato una correlazione inversa tra i livelli di vitamina D e il verificarsi di recidive negli affetti da sclerosi multipla recidivante-remittente, suggerendo un impiego della vitamina D nel trattamento delle recidive.

La sclerosi multipla è una malattia autoimmune che provoca infiammazione, demielinizzazione e degenerazione nel sistema nervoso centrale. A causa della sua elevata complessità, ancora oggi non ne sono state definite le cause e i meccanismi d’insorgenza. Ciononostante, si attribuisce un contributo fondamentale all’interazione tra diversi fattori genetici predisponenti, che aumentano la suscettibilità di un individuo a sviluppare la malattia, e l’esposizione a fattori ambientali capaci di indurre e contribuire al processo patologico [1].

Tra questi fattori, negli ultimi anni, ha suscitato particolare interesse la vitamina D. Uno stato di ipovitaminosi, inteso come un livello insufficiente di vitamina D nell’organismo, è un riconosciuto fattore di rischio per la sclerosi multipla e altre malattie autoimmuni. Ciò si accorda con la sua capacità di interagire con il sistema immunitario. Oltre al più noto ruolo nella regolazione dell’equilibrio del calcio e del metabolismo osseo, la vitamina D ha, infatti, un’azione antinfiammatoria in grado di sopprimere le risposte iperattive del sistema immunitario. Pertanto, il deficit è comune negli affetti da sclerosi multipla, i quali possiedono, complessivamente, concentrazioni di vitamina nel sangue minori rispetto alla popolazione sana [1,2].

La carenza vitaminica, in genere, è determinata da un’inadeguata esposizione alla luce solare, più che da una dieta povera di vitamina D. Questo perché la maggior parte di quella presente nel nostro organismo viene sintetizzata a livello della pelle, quando ci si espone alla radiazione ultravioletta B (UVB) derivante dal sole. Solo una piccola quota del fabbisogno giornaliero può essere assunta con la dieta, da alimenti come pesce grasso, latte e prodotti caseari. L’associazione tra i livelli di vitamina D e il rischio di sviluppare la sclerosi multipla è supportata, così, dalla particolare distribuzione geografica dei casi di malattia: la frequenza aumenta più ci si allontana dall’equatore. Nelle regioni meno esposte alla luce solare è facile incorrere, quindi, in un deficit di vitamina, risultando più vulnerabili nei confronti della sclerosi multipla [2].

Tuttavia, la vitamina D non contribuisce soltanto al rischio di sviluppare la malattia. Diversi studi clinici evidenziano un’associazione inversa tra i suoi livelli nel sangue e l’andamento della sclerosi multipla nella forma recidivante-remittente: i pazienti con dosaggi più bassi manifestano una maggiore attività di malattia [3,4]. Nello specifico, si riscontra un aumentato tasso di recidive, cioè di episodi clinici di ricaduta dei sintomi, determinati dal riacutizzarsi, nel sistema nervoso centrale, dei processi infiammatori e autoimmuni propri della sclerosi multipla. I pazienti affetti dalla forma recidivante-remittente presentano un decorso caratterizzato dall’alternarsi di recidive e periodi di benessere, derivanti dalla remissione parziale o completa dei sintomi. Durante le recidive, pertanto, i livelli circolanti di vitamina D sono inferiori rispetto ai periodi stabili.

I parametri radiologici di attività di malattia, però, hanno dimostrato una correlazione statisticamente più forte rispetto al tasso di recidive e ad altri indicatori clinici come la progressione della disabilità. La risonanza magnetica nucleare costituisce, di fatto, lo strumento che con maggiore oggettività e sensibilità permette di rivelare i processi patologici in atto nel sistema nervoso centrale, consentendo di monitorare al meglio l’andamento della malattia. Nei pazienti con livelli insufficienti di vitamina, si è osservato soprattutto un maggiore rischio di sviluppare nuove lesioni attive, evidenziate, nella risonanza, grazie alla loro capacità di captare il gadolinio come mezzo di contrasto [5].

Alla luce di questi risultati iniziali, che associano l’ipovitaminosi a un’aumentata attività di malattia, sono stati condotti studi clinici controllati randomizzati di supplementazione di vitamina D per valutare come essa possa alterare favorevolmente il decorso della malattia, esercitando un’azione protettiva.

Il vantaggio della vitamina D, rispetto ad altri fattori correlati con la sclerosi multipla, è quello di essere facilmente modificabile tramite supplementazione e di essere ben tollerata dal corpo con buoni margini di sicurezza, oltre a rappresentare potenzialmente un trattamento poco costoso [1].

In due studi clinici (SOLAR [6] e CHOLINE [7]) sono state raccolte evidenze riguardo a un miglioramento del decorso della sclerosi multipla nei pazienti recidivanti-remittenti, quando, in aggiunta all’interferone beta (IFN-β), viene assunta vitamina D sotto forma di colecalciferolo (vitamina D3). I partecipanti sono stati suddivisi casualmente in due gruppi, entrambi in terapia con interferone beta: il gruppo che ha integrato la vitamina D ha dimostrato una ridotta attività di malattia rispetto al gruppo di controllo di pazienti che, in aggiunta al farmaco, non ha assunto la vitamina. Le differenze, però, sono state rilevate essenzialmente in relazione alla formazione di nuove lesioni attive e non nel tasso annuale di recidive o nella progressione della disabilità.

Nell’insieme, dunque, gli studi di supplementazione condotti finora hanno riportato una diminuzione modesta dei parametri di attività di malattia, mostrando un effetto terapeutico meno marcato rispetto a quanto ci si aspettava [3]. Tuttora l’integrazione di vitamina D, da sola, non si è dimostrata efficace nel limitare le recidive, riconoscibili, di solito, dal manifestarsi di problemi alla vista, difficoltà nella deambulazione o disturbi sensoriali. Invece, promettenti evidenze aprono alla possibilità di integrare la vitamina D in associazione a glucocorticoidi, con l’obiettivo di aumentarne l’efficacia nel trattamento delle recidive nei pazienti con sclerosi multipla recidivante-remittente [1].

Il ridotto campione di soggetti reclutati negli studi (ad es., 229 pazienti nello studio SOLAR [6], 181 nello studio CHOLINE [7]) e le numerose variabili coinvolte hanno comportato considerevoli limiti statistici. Sicuramente ulteriori studi dovranno essere condotti per definire l’impatto della vitamina D sull’andamento della malattia e le eventuali necessità di integrazione. Nello studio EVIDIMS [8] sono stati confrontati gli effetti di un alto dosaggio di colecalciferolo (20.400 UI) rispetto a quelli dovuti a dosi minori (400 UI), in pazienti con sclerosi multipla recidivante-remittente o con sindrome clinicamente isolata, sempre in terapia con interferone. Dopo 18 mesi non sono state osservate differenze tra i due gruppi, né per i parametri clinici né per quelli radiologici.

Per il momento sono stati testati dosaggi che raggiungono anche le 40.000 unità internazionali (UI) al giorno (1 UI di colecalciferolo equivale a 0,025 µg) e nessun paziente reclutato ha manifestato effetti tossici come l’ipercalcemia. Ma la durata degli studi non ha mai superato i due anni [9]. Bisogna tenere conto, quindi, che le conseguenze di una supplementazione a lungo termine non sono state ancora valutate.

Perciò, nonostante gli effetti della supplementazione di vitamina D siano incerti, le attuali evidenze suggeriscono di evitare comunque carenze, mantenendo nei pazienti valori superiori a 30 ng/ml di vitamina D nel sangue, senza assumerla specificatamente a fini terapeutici [2]. La supplementazione deve essere effettuata sotto controllo medico perché, per quanto sia risultata sicura e ben tollerata, gli effetti di un’assunzione cronica nel lungo periodo non sono stati definiti. Eccessi di vitamina D nell’organismo, sebbene siano difficili da raggiungere, possono comportare, anche, complicazioni potenzialmente fatali [7].

I valori nel sangue devono essere periodicamente monitorati per adeguare le quantità da integrare. Esiste, infatti, una variabilità interindividuale nella risposta alla supplementazione. In pratica, il fabbisogno cambia in funzione di diversi fattori quali: la capacità di metabolizzare la vitamina D, l’età, l’esposizione alla luce solare, l’indice di massa corporea e l’apporto di calcio con la dieta.

Source: Fondazione Serono SM


Cannabis e sclerosi multipla

“Cannabis” è un termine generico utilizzato per definire sostanze definite fitocannabinoidi, derivate da piante appartenenti al genere cannabis, con funzioni psicoattive a livello del sistema nervoso centrale (SNC). Sono stati individuati oltre 60 fitocannabinoidi, ma solo 3 o 4 si ritrovano in concentrazioni superiori allo 0,1%. Il THC o tetraidrocannabinolo è considerato il fitocannabinoide farmacologicamente più attivo della pianta di cannabis e dei suoi derivati, marijuana (infiorescenze) e hashish (resina). È in larga parte responsabile degli effetti farmacologici della cannabis, incluse le sue proprietà psicoattive, sebbene vi contribuiscano altri composti della pianta, come il cannabidiolo (CBD), fitocannabinoide non psicoattivo che ha effetti antinfiammatori, analgesici, ansiolitici e antipsicotici. Il termine “cannabis medica” si riferisce all’uso delle preparazioni magistrali di cannabis per curare alcune malattie o alleviare alcuni sintomi come la spasticità muscolare o il dolore nei pazienti con sclerosi multipla . Nel campo della sclerosi multipla tra l’altro, negli ultimi anni si sono accumulati dati sull’utilizzo di tali sostanze sia come sintomatici sia come trattamenti con azione neuroprotettiva, per rallentare il decorso della malattia e prevenire la disabilità.

I fitocannabinoidi si legano a specifici recettori presenti nel SNC e nelle cellule del sistema immunitario quali linfociti e macrofagi, la cui esistenza è legata alla recente scoperta di sostanze prodotte dall’organismo umano definite endocannabinoidi, quali anandamide (AEA) e 2-arachidonoilglicerolo (2-AG), che condividono con i fitocannabinoidi gli stessi recettori e hanno un importante ruolo sia nello sviluppo del sistema nervoso sia nella risposta a un’ampia varietà di stimoli endogeni e ambientali. La presenza di recettori per gli endocannabinoidi in tutto l’organismo umano e in organismi di livello inferiore indica un ruolo vitale di tali sostanze nello sviluppo evolutivo degli esseri viventi (filogenesi) e sono state identificate oltre che nei mammiferi anche negli uccelli, negli anfibi, nei pesci, nei ricci di mare, nei molluschi e nelle sanguisughe.

Nell’ultimo decennio il sistema costituito dai cannabinoidi endogeni e dagli specifici recettori, CB1 e CB2 (sistema endocannabinoide), è stato oggetto di numerosi studi come potenziale target di complesse e importanti funzioni fisiologiche dell’organismo e del sistema nervoso centrale e periferico (metabolismo energetico, controllo dell’appetito e dell’alimentazione, pressione arteriosa, modulazione del dolore, controllo della nausea e del vomito, embriogenesi, risposta immunitaria e infiammazione, memoria, attenzione e apprendimento). Alterazioni a vari livelli di questo complesso sistema di neuromodulazione, che coinvolgono gli endocannabinoidi e i loro specifici recettori, con effetto a cascata sulla fine regolazione della trasmissione neurotrasmettitoriale a livello cerebrale, potrebbero avere un ruolo importante nell’insorgenza di importanti patologie come la malattia di Parkinson, la malattia di Huntington, la malattia di Alzheimer e la sclerosi multipla. I fitocannabinoidi mimano l’azione degli endocannabinoidi, con effetti di potenziamento nella regolazione della trasmissione degli impulsi nervosi a livello del sistema nervoso. Il sistema endocannabinoide ha un ruolo importante in processi fondamentali dello sviluppo del SNC: i cannabinoidi controllano la plasticità sinaptica, ovvero la capacità del SNC di modificare l’efficienza delle funzioni di connessioni tra neuroni, di instaurarne delle nuove e di eliminarne alcune in diverse aree cerebrali. Il sistema endocannabinoide ha un ruolo fondamentale nell’organizzazione cerebrale durante la vita prenatale e postnatale ed è coinvolto nel controllo dell’organizzazione e formazione delle reti neurali. Ciò suggerisce come un’alterazione di tale sistema durante lo sviluppo, per effetto dell’uso di cannabis in età adolescenziale, possa influire in modo anche drammatico sulla maturazione cerebrale. Alcuni fitocannabinoidi come il CBD e gli endocannabinoidi sono in grado di modulare il sistema immunitario con effetti antinfiammatori che fanno seguito all’attivazione di specifici recettori in molte condizioni patologiche quali dolore infiammatorio, infarto miocardico, ictus, disordini infiammatori gastrointestinali e arteriosclerosi.

Recenti studi hanno inoltre dimostrato il coinvolgimento del sistema endocannabinoide nell’omeostasi del sistema immunitario e nel controllo di alcune sue funzioni. Le cellule immunitarie esprimono sia recettori CB1 che CB2, producono 2-AG e AEA e sono coinvolte nei meccanismi di trasporto e degradazione chimica di queste molecole. Alcuni aspetti interessanti relativi alle interrelazioni tra sistema endocannabinoide e sistema immunitario, che riguardano in particolare i linfociti T, potrebbero avere importanti ricadute sulla comprensione dei complessi meccanismi alla base dell’insorgenza della sclerosi multipla. È a tutti noto come un particolare tipo di linfociti T, denominati Th17, sia in grado di attraversare la barriera emato-encefalica e provocare, nei modelli animali di sclerosi multipla, il danno della mielina; inoltre alcune molecole da essi prodotte si ritrovano in grande quantità nelle placche di demielinizzazione dei pazienti affetti da tale patologia. Alcuni studi in vitro hanno dimostrato come la proliferazione dei linfociti Th17 da parte di sostanze in grado di determinare nell’animale da esperimento l’insorgenza dell’encefalomielite allergica sperimentale, quadro patologico analogo alla sclerosi multipla umana, possa essere attenuata dal trattamento preventivo con CBD o tetraidrocannabinolo (THC).

A partire da questi dati sperimentali molti studiosi si sono concentrati sulla ricerca di eventuali effetti della somministrazione di fitocannabinoidi e cannabinoidi sintetici nel trattamento della spasticità e nella prevenzione della disabilità nei pazienti con sclerosi multipla. Uno studio multicentrico, randomizzato, in doppio cieco, ha valutato l’effetto della somministrazione di dronabinol (cannabinoide sintetico) in 332 pazienti affetti da sclerosi multipla, seguiti per un periodo di 36 mesi, su progressione della disabilità, valutata con la Expanded Disability Status Scale (EDSS) e la Multiple Sclerosis Impact Scale (MSIS-29 items). È stato osservato un rallentamento della progressione della disabilità soltanto nei pazienti con EDSS basale di 4,0-5,5; la mancanza di risposta nei pazienti con maggiore disabilità (EDSS tra 6,0 e 6,5) potrebbe essere legata ai limiti propri della scala di valutazione, non in grado di valutare minimi intervalli di progressione della disabilità nei pazienti con EDSS >6,0. Sulla base di queste osservazioni è stato ipotizzato un ruolo dei cannabinoidi e degli endocannabinoidi nella sclerosi multipla e, in particolare, nel rallentare la progressione della degenerazione neuronale e nei meccanismi di neuroprotezione.

Si sono accumulate una serie di evidenze sperimentali, utilizzando sia diversi modelli animali di sclerosi multipla sia studi su pazienti affetti da differenti forme cliniche di malattia. Queste diverse osservazioni suggeriscono un ruolo funzionale dei recettori degli endocannabinoidi nella patogenesi della sclerosi multipla e hanno stimolato diversi studi preclinici diretti a modulare la loro attività in vivo, attraverso la somministrazione di fitocannabinoidi e cannabinoidi sintetici. Uno dei primi studi di questo tipo ha evidenziato un miglioramento sia del tremore sia della spasticità in modelli murini di sclerosi multipla cronica-recidivante, dopo trattamento con THC e methanandamide (cannabinoide sintetico analogo dell’anandamide). L’impiego di sostanze con azione di blocco degli stessi recettori (antagonisti) è in grado di inibire tali effetti terapeutici, suggerendo un ruolo del sistema endocannabinoide nel controllo della malattia. D’altra parte i cannabinoidi hanno effetti neuroprotettivi, attraverso l’azione sui recettori CB1, rallentando i processi neurodegenerativi che portano a cronica disabilità. Se utilizzati in alcuni modelli virali di sclerosi multipla (negli animali da esperimento l’inoculazione di alcuni virus sono in grado di favorire l’insorgenza di un quadro di malattia molto simile alla sclerosi multipla umana), dimostrano effetti immunosoppressivi e sono in grado di riparare la mielina danneggiata. Le alterazioni studiate sono ancora piuttosto controverse, molto probabilmente a causa dei diversi modelli sperimentali utilizzati e delle diverse modalità di reclutamento dei pazienti con differenti forme cliniche di sclerosi multipla. Nonostante ciò, il ruolo antinfiammatorio e neuroprotettivo degli endocannabinoidi è ampiamente documentato in esperimenti sia in vivo sia in vitro, su cellule ottenute da modelli sperimentali di sclerosi multipla o da pazienti con diverse forme cliniche di malattia.

Un ruolo importante è svolto dal CBD che ha importanti funzioni di tipo immunoregolatorio, attraverso l’inibizione dei linfociti Th17, ad azione pro-infiammatoria, la maggior produzione di linfociti ad azione regolatoria denominati Treg e la stimolazione delle cellule immunitarie a produrre molecole antiossidanti e antinfiammatorie. La somministrazione di diverse preparazioni magistrali di cannabis e di alcuni cannabinoidi sintetici migliora il controllo della spasticità nei pazienti con sclerosi multipla. Haupts et al. pubblicarono, nel 2016, uno studio che mostrò un miglioramento della spasticità e del dolore in pazienti con sclerosi multipla trattati con una preparazione contenente sia THC sia CBD in proporzioni uguali, valutati secondo una scala di autovalutazione numerica denominata NRS (numeric rating scale measure of spasticity), da 0 a 10, che riflette la percezione che il paziente ha della rigidità degli arti, considerata nelle 24 ore precedenti la misurazione e di facile applicazione clinica. Gli studi sui potenziali effetti benefici della cannabis su dolore e spasticità in realtà risalgono agli anni ’70 e già allora dati di letteratura disponibili suggerivano che i suoi derivati (cannabinoidi) potevano migliorare alcuni sintomi della sclerosi multipla.

L’associazione di THC e CBD, in uno spray oro-mucosale, è oggi indicata come trattamento per alleviare i sintomi in pazienti adulti affetti da spasticità da moderata a grave dovuta alla sclerosi multipla che non hanno manifestato una risposta adeguata ad altri medicinali antispastici. La dose media è di 7-8 spray al giorno. Una volta che la dose ottimale è stata raggiunta, i pazienti possono distribuire le dosi durante l’intero arco della giornata in base alla risposta individuale e alla tollerabilità. Gli effetti collaterali segnalati più di frequente sono rappresentati da capogiri, fatica, diarrea, nausea, cefalea e sonnolenza.

Conclusioni

Nel loro insieme, i dati preclinici suggeriscono un ruolo del sistema endocannabinoide non solo nel controllo di alcuni sintomi specifici della sclerosi multipla, come il tremore e la spasticità, ma anche nei meccanismi di neuroinfiammazione e neurodegenerazione alla base della malattia. L’insieme di queste osservazioni ha stimolato diversi gruppi di ricerca con l’obiettivo di utilizzare a scopo terapeutico farmaci a base di cannabinoidi per il trattamento sia delle forme recidivanti-remittenti di sclerosi multipla sia delle forme progressive. Tuttavia i risultati delle revisioni sistematiche pubblicate a tutt’oggi suggeriscono l’efficacia della cannabis e delle formulazioni a base di cannabinoidi nel controllo della spasticità in corso di sclerosi multipla, mentre le prove disponibili a supporto dell’efficacia e della sicurezza dei cannabinoidi come trattamento modificante il decorso della sclerosi multipla sono invece risultate insufficienti e, per molti degli aspetti considerati, di qualità/affidabilità bassa o molto bassa, tali da non potere fornire risposte conclusive.

Consigli pratici

Diverse preparazioni farmaceutiche a base di cannabinoidi contenenti sia THC sia CBD, in diverse proporzioni, sono state utilizzate in studi clinici che hanno arruolato pazienti affetti da sclerosi multipla e altre sperimentazioni sono in corso. Queste diverse preparazioni possono essere assunte per os, mescolate con il cibo o trasformate in tè, o mediante somministrazione sublinguale o topica, oppure possono essere fumate o inalate. Tuttavia queste formulazioni, per la natura estremamente eterogenea, rendono non confrontabili i risultati dei vari studi clinici e spiegano in parte l’inconcludente evidenza di efficacia dei cannabinoidi nel trattamento della sclerosi multipla eccetto che per la terapia della spasticità. L’evidenza di efficacia dei cannabinoidi negli studi pubblicati è generalmente debole, in condizioni cliniche che non riguardano il trattamento della spasticità nella sclerosi multipla o il dolore neuropatico e nel caso di preparati diversi da quello contenente, in proporzioni uguali, sia TCH che CBD. Allo stato attuale delle evidenze scientifiche non vi sono indicazioni all’impiego della cannabis medica come terapia modificante il decorso della sclerosi multipla.

Source: Fondazione Serono SM


Il fattore età nella scelta del trattamento della sclerosi multipla

Un gruppo di specialisti statunitensi ha valutato un approccio definito “de-escalation”, traducibile in italiano con “decrementale”, nella gestione a lungo termine della sclerosi multipla nella pratica clinica. I risultati hanno indicato che nei malati più avanti in età questo approccio può avere un buon bilancio fra benefici e rischi.

Gli autori sono partiti dalla considerazione che nel 2022 per curare la sclerosi multipla sono disponibili più di 20 farmaci modificanti la malattia. Questo offre una scelta più ampia che in passato nel trattare ciascun malato in base a criteri come: frequenze delle recidive, lesioni rilevabili con la risonanza magnetica e livello di disabilità. Altri fattori che orientano le decisioni sono potenza dei farmaci, rischio di effetti indesiderati e costi. Per una malattia che dura per tutta la vita è necessario anche rivalutare periodicamente la cura, considerando tutti gli aspetti sopra elencati, che possono cambiare nel tempo. In particolare, Vollmer e colleghi ne citano uno, l’immunosenescenza, che consiste nelle variazioni della funzione del sistema immunitario che si verificano con l’invecchiamento. In una precedente ricerca, nella quale avevano valutato l’effetto dell’età sull’attività della malattia, avevano rilevato modificazioni della tollerabilità di alcuni farmaci. Perciò, in questo nuovo studio, hanno analizzato, in maniera retrospettiva, una casistica di malati con sclerosi multipla recidivante remittente trattati nella reale pratica clinica, per definire eventuali variazioni nel tempo del bilancio tra benefici e rischi delle diverse cure. Sono stati valutati casi che avevano ricevuto terapie orali, come dimetilfumarato e fingolimod, e infusive, come natalizumab e rituximab. La casistica è stata divisa in due gruppi: soggetti di età inferiore a 45 anni o di età maggiore o uguale a 45 anni. Gli autori hanno anche eseguito una revisione della letteratura per identificare sicurezza e rischi relativi all’interruzione della somministrazione dei farmaci modificanti la malattia. I risultati hanno indicato che i malati più giovani avevano una probabilità minore di presentare attività della malattia se trattati con farmaci somministrati per infusione, rispetto a quelli assunti per bocca. Dopo un’età media di 54.2 anni tale differenza non si è più rilevata. Considerando le due fasce di età, in quella inferiore ai 45 anni si è osservato un maggior rischio di attività della malattia nelle persone che assumevano i farmaci per via orale, rispetto chi riceveva quelli in infusione. Nella fascia di età maggiore o uguale a 45 anni non si è confermata tale differenza. La revisione della letteratura ha evidenziato che la frequenza degli effetti indesiderati, in particolare delle infezioni nei soggetti con disabilità più grave e trattamento più prolungato, aumenta con l’età. Inoltre, Vollmer e colleghi hanno identificato, come fattori utili a prevedere la riattivazione della malattia, età, stabilità clinica e attività rilevata alla risonanza magnetica. Nelle conclusioni gli autori hanno evidenziato che, nella loro casistica gestita nella pratica clinica, i farmaci modificanti la malattia a elevata efficacia nei malati più avanti in età forniscono meno vantaggi, a fronte di un aumento dei rischi. A loro parere, i risultati ottenuti integrano quelli degli studi clinici che, abitualmente, escludono i soggetti più anziani. Sulla base dei dati raccolti, Vollmer e colleghi hanno proposto un approccio decrementale del trattamento, nei malati più avanti in età, per bilanciare meglio benefici e rischi.

L’approccio decrementale  proposto da Vollmer e colleghi, vale a dire il passaggio da farmaci più potenti e con un maggiore rischio di eventi avversi ad altri con minore potenza e maggiore tollerabilità nei malati più anziani, si aggiungerebbe a quelli già impiegati: terapia incrementale, terapia di induzione e switch laterale. Ulteriori verifiche, eseguite su più ampie casistiche e che considerino farmaci con diverse caratteristiche di efficacia e di sicurezza, dovranno confermare il valore di tale approccio.                 

Source: Fondazione Serono SM


Terapia personalizzata nella sclerosi multipla tra presente e futuro

La sclerosi multipla è una patologia infiammatoria cronica demielinizzante del sistema nervoso centrale di origine presumibilmente autoimmune in cui il primum movens della malattia sembrano essere dei cloni di linfociti “autoreattivi” in grado quindi di riconoscere alcune sostanze presenti nel nostro organismo come delle sostanze estranee e pertanto da distruggere [1,2]. Non è ancora completamente chiaro perché alcuni di questi linfociti inizino a distruggere le cellule del nostro organismo. Sappiamo, tuttavia, che la sclerosi multipla viene considerata una patologia multifattoriale dove è l’interazione tra il nostro patrimonio genetico e l’ambiente (ad es., l’interazione con virus o batteri) a determinare il rischio di sviluppare la malattia [3,4].

La sclerosi multipla è la causa più frequente di deficit e disabilità neurologica nel giovane adulto. In tutto il mondo circa un milione di persone di età compresa tra i 18 e i 65 anni è affetto da sclerosi multipla. L’età media in cui si verifica il picco di insorgenza della patologia è intorno ai 30 anni (con il 75% degli esordi tra 20 e 40 anni). Sono tuttavia tutt’altro che rari esordi in età pediatrica (circa il 7% dei casi) o in età senile (dopo i 65 anni). Inoltre, nonostante negli ultimi anni sia stato rilevato un aumento della frequenza nel sesso maschile in età più avanzata e con una prognosi più severa, la sclerosi multipla rimane una patologia con predominanza nel sesso femminile. Se si esaminano i tassi di incidenza globale si evince come 3,7 casi per 100.000 abitanti/anno siano di sesso femminile, mentre solamente 2,0 casi per 100.000 abitanti/anno siano di sesso maschile. Tale rapporto sembrerebbe inoltre in continuo aumento, essendo passato negli ultimi 50 anni da 1,4 nel 1955 a 2,3-2,9 nel 2000. Non sono ancora stati chiariti i fattori ambientali responsabili di questo fenomeno; tuttavia, è possibile notare come il rapporto sembrerebbe aumentare quanto più precocemente si verifica l’esordio della patologia (epoca prepuberale) [5-7].

La prevalenza della sclerosi multipla varia inoltre a seconda delle aree geografiche: risulta essere predominante nelle zone “temperate” rispetto alle zone “tropicali”. Gli studi sugli effetti della migrazione sottolineano l’importanza dei fattori ambientali: si nota infatti come lo spostamento di un paziente da una zona a basso rischio verso un’area a rischio maggiore comporti un aumento del rischio di sviluppare la malattia. Una revisione sistematica sugli studi di incidenza della sclerosi multipla ha infine mostrato anche un’associazione tra incidenza e latitudine, con una maggiore incidenza a latitudini inferiori [8].

Storicamente la sclerosi multipla è stata suddivisa in 3 forme cliniche principali: la forma recidivante-remittente (RR), la forma secondaria progressiva (SP) e la forma primaria progressiva (PP).

La forma RR comprende la maggior parte dei pazienti affetti da sclerosi multipla (circa l’85-90%) con un rapporto femmine-maschi (F:M) superiore a 2:1. In questi pazienti la malattia è caratterizzata da esacerbazioni acute, cui segue la ripresa che può essere completa o incompleta, intervallate da periodi di stabilità clinica che possono essere anche molto lunghi.

La forma SP segue cronologicamente la RRMS. Il 50% dei pazienti con la forma recidivante-remittente, non sottoposti a terapia, va incontro, infatti, dopo circa 10-15 anni a questa forma di malattia caratterizzata da un lento e progressivo accumulo di disabilità che non appare correlato alla presenza di “ricadute” che anzi durante questa fase si riducono in maniera significativa fino, in molti casi, a cessare del tutto. Il passaggio dalla forma recidivante-remittente a quella secondariamente progressiva nella maggior parte dei casi viene riconosciuto solo a posteriori, dopo la conferma della progressione della disabilità.

La forma PP interessa circa il 10-15% dei pazienti affetti da sclerosi multipla con un rapporto femmine-maschi (F:M) pari a 1:2 e si caratterizza per un lento e progressivo accumulo di disabilità fin dalle prime fasi della malattia spesso in completa assenza di ricadute. Eventi acuti sono possibili in questa forma anche se molto meno frequenti della forma RR.

Una recente revisione di tale classificazione, proposta da Lublin e Colleghi [9], suggerisce di valorizzare in ogni paziente le due caratteristiche principali della sclerosi multipla, cioè l’attività acuta intesa come ricadute o formazione di nuove lesioni cerebrali e la progressione intesa come incremento di disabilità non legata alle ricadute, superando quindi la vecchia classificazione RR, SP, PP.

Avremo quindi pazienti che manifestano attività di malattia, pazienti che manifestano una progressione della disabilità e pazienti che manifestano entrambe le caratteristiche. Questo tipo di classificazione risulta più adeguata a descrivere la situazione clinica di un paziente che difficilmente è solo “bianca” o solo “nera”. Anzi oggi riteniamo che una certa quota di “progressione” della malattia sia presente fin dalle prime fasi della vita del paziente affiancando quindi in maniera più o meno rilevante l’attività acuta (nuove lesioni o ricadute) che caratterizza la forma recidivante-remittente.

Tale classificazione permette inoltre di valorizzare in maniera più attenta e precoce proprio quella lenta progressione della disabilità, indipendente dalle ricadute, che risulta peraltro la parte della malattia meno responsiva alle attuali terapie. Sebbene infatti siano recentemente stati immessi in commercio alcuni farmaci in grado di limitare la progressione della disabilità nelle forme sia PP che SP, i migliori effetti delle attuali terapie si esplicano nel ridurre il numero di ricadute e l’accumulo di nuove lesioni. A ciò si deve anche l’osservazione che qualsiasi terapia risulterà tanto più efficace quanto più precocemente viene avviata, non fosse altro che per il fatto che oggi è più semplice prevenire il danno a carico del SNC che non ripararlo una volta avvenuto.

A questo proposito sarà bene ricordare alcune nozioni cruciali di neuroanatomia e neurofisiologia: le fibre nervose nel SNC sono costituite dagli assoni dei neuroni (una specie di “piedi” che partono dal corpo neurone e portano il segnale elettrico) che a loro volta sono rivestiti da mielina, una molecola che funge da isolante e permette una conduzione del segnale elettrico più rapida e meno dispendiosa in termini energetici. La mielina è creata dagli oligodendrociti, cellule specializzate che hanno lo scopo di rivestire gli assoni con i loro prolungamenti.

La sclerosi multipla colpisce specificamente gli oligodendrociti e quindi distrugge la guaina mielinica. La buona notizia è che queste cellule possono riprodursi e sono in grado, entro certe condizioni, di ripristinare la guaina mielinica e con essa una corretta conduzione nervosa. La cattiva notizia è che col tempo la capacità di rigenerarsi degli oligodendrociti può ridursi e un assone demielinizzato, quindi privo della protezione della mielina, può andare incontro con maggiore facilità a una vera e propria neurodegenerazione (cioè alla morte). Studi recenti hanno anche dimostrato come la sclerosi multipla non sia solo una patologia della mielina: spesso l’aggressione autoimmune si rivolge direttamente anche contro assone e corpo neuronale; una volta che il filo elettrico è danneggiato non c’è più speranza di “aggiustare” la fibra [10-12]. Per fortuna, anche in questo caso, il SNC dispone ancora di numerose frecce al suo arco: è infatti possibile utilizzare altri neuroni per svolgere la funzione di quelli che sono andati perduti. Si parla in questo caso di “plasticità” del SNC. Ovviamente questi neuroni vanno “addestrati” al nuovo compito e da qui ne deriva la grande utilità della riabilitazione fisica e cognitiva e più in generale dell’esercizio fisico.

Torniamo però alla fisiopatologia della sclerosi multipla che, come abbiamo visto, è una malattia molto eterogenea che può colpire la sostanza bianca (mielina) ma anche la sostanza grigia (il neurone con il suo assone) e con una sua evoluzione temporale che può essere anche molto complessa intrecciando fasi attive di malattia con fasi progressive.

Da tutto ciò deriva che l’andamento clinico di ogni paziente sarà diverso dagli altri sia come gravità sia come evoluzione temporale. Addirittura sembra lecito supporre da quanto detto finora che la stessa severità della malattia sia in continuo mutamento anche nel singolo soggetto: più leggera nelle fasi iniziali quando il sistema è in grado di riparare le fibre, più severa nelle fasi intermedie in cui il recupero delle funzioni dipende dall’utilizzo dei fenomeni di “plasticità” e quindi richiede un certo “sforzo” anche al paziente almeno in termini riabilitativi, decisamente più grave nelle fasi finali nelle quali i danni accumulati soverchiano le capacità di recupero e di compenso del sistema determinando un accumulo della disabilità finale.

L’eterogeneità della malattia tra un paziente e l’altro e anche nello stesso paziente in tempi diversi rende evidente l’impossibilità di trovare una terapia che vada bene per tutti. E quand’anche si trovasse con assoluta certezza la terapia giusta per un dato paziente, la finestra temporale entro quale somministrarla andrebbe scelta con altrettanta cura. Sbagliare il momento potrebbe infatti compromettere anche la terapia migliore.

È quindi oggi assolutamente necessario “personalizzare” con grande attenzione la terapia. Per fare questo è necessario prima di tutto comprendere se la malattia mostra segni di attività o se ha già iniziato a mostrare i segni della progressione. In questo senso la collaborazione del paziente è cruciale: nessuno meglio di lui (o lei) sa se le cose che faceva l’anno prima è in grado di farle anche l’anno dopo. È sempre importante infatti l’evoluzione temporale, ma va compreso che mentre la fase acuta si descrive nell’arco di giorni, la progressione della disabilità è un qualcosa che avviene in maniera molto lenta, spesso impercettibile tra un giorno e l’altro o addirittura tra un mese e l’atro. A volte ci vogliono anni per accorgersi del peggioramento: questo è determinato anche dal fatto che le condizioni cliniche di un paziente non sono sempre uguali ma fluttuano, tra un giorno e l’altro e a volte anche nella stessa giornata in conseguenza di fenomeni intercorrenti spesso anche ambientali; basta un aumento della temperatura (magari a causa di una banale infezione), o anche semplicemente un evento stressante o un eccessivo sforzo fisico o lavorativo per far peggiorare in maniera sensibile, anche se transitoria, le performance fisiche e cognitive di una persona. In conseguenza di tali importanti fluttuazioni, non è sempre facile per il neurologo né per lo stesso paziente comprendere, nel breve periodo, se il quadro clinico sia stabile o in progressione.

Per tale motivo oggi il neurologo si avvale di tutta una serie di “fattori di rischio epidemiologici” [13-16]che aiutano a prevedere l’aggressività della patologia e quindi la probabilità che il paziente presenti precocemente segni di progressione. Per esempio, un esordio con una lesione spinale (mielite) o la presenza di lesioni in zone particolarmente critiche come il tronco encefalico o il cervelletto sono considerati importanti fattori di rischio. Anche il tipo di lesioni così come vengono visualizzate dalla RM ha la sua importanza: lesioni più destruenti che hanno lasciato un “buco nero” i famosi Black holes” sono un noto segno radiologico di una malattia più aggressiva. A questi “marcatori” di gravità si aggiungono il sesso e l’età di esordio: uomini con esordio oltre i 45 anni hanno in generale un andamento peggiore delle donne sotto i 30 anni, come anche un alto numero di ricadute nei primi anni di malattia.

Sulla base di tutti questi dati clinici e radiologici, il neurologo si costruisce il profilo di rischio di ogni suo paziente e decide quindi il tipo di terapia più adatto a quel soggetto.

Semplificando molto per ragioni di spazio, possiamo dire che la principale scelta riguarda se avviare una terapia di prima o seconda linea. Tra le prime ricordiamo tutte le varianti di interferone beta, glatiramer acetato, dimetilfumarato e teriflunomide; tra le seconde fingolimod e siponimod, cladribina, natalizumab, ocrelizumab e alemtuzumab. I primi farmaci sono riservati ai pazienti che iniziano per la prima volta una terapia o che hanno una malattia poco aggressiva; i secondi si suggeriscono ai pazienti che esordiscono con una malattia più aggressiva o che hanno fallito la terapia di prima linea.

Negli ultimi anni [17], tuttavia, la ricerca scientifica ha fatto importanti passi avanti nella ricerca dei meccanismi patogenetici che portano alla progressione di malattia. Si è scoperto infatti che alcuni linfociti “cattivi”, quelli responsabili della malattia, in particolare del gruppo B, tendono ad accumularsi all’interno del SNC, in particolare nelle meningi o intorno alle “placche” e da lì quindi “dall’interno” continuano a produrre molecole proinfiammatorie e a causare quei danni lenti e progressivi che poi alla lunga metteranno in crisi il sistema minando le sue capacità di compenso.

Oggi studi avanzati sul profilo infiammatorio dei pazienti con sclerosi multipla [18,19] hanno dimostrato che è possibile rilevare nel liquido cerebrospinale che avvolge tutto il SNC le molecole prodotte da queste “linfociti autoreattivi”. Mediante tale analisi è quindi possibile identificare già al momento della diagnosi quei pazienti che hanno una marcata infiammazione liquorale. Uno studio condotto presso il nostro Centro su un vasto campione di pazienti affetti da sclerosi multipla e monitorati con tecniche di risonanza magnetica avanzate per oltre 4 anni ha dimostrato come il profilo infiammatorio liquorale si associ in maniera molto stretta con il rischio di presentare una rilevante attività di malattia nei primi anni di malattia. Con questa tecnologia è possibile, inoltre, identificare precocemente quei pazienti in cui è maggiore il rischio di sviluppare danni non solo a carico della sostanza bianca (la mielina) ma anche della sostanza grigia (neurone e assone) e quindi potenzialmente più gravi quoad valetudinem.

Siamo quindi alle soglie di una nuova stagione nella cura della sclerosi multipla; una stagione in cui è possibile una vera personalizzazione della terapia, basata non solo su dati epidemiologici ma sull’evidenza nel singolo paziente di un profilo di fattori di rischio che suggeriscono una specifica aggressività della malattia e quindi il rischio di entrare in fase progressiva.

Video: Marco Marcotulli

Source: Fondazione Serono SM


Trapianto di cellule staminali nella sclerosi multipla secondariamente progressiva

Un gruppo di specialisti italiani ha confrontato l’efficacia del trapianto autologo di cellule staminali ematopoietiche e della ciclofosfamide nel trattamento della sclerosi multipla secondariamente progressiva. I risultati hanno indicato che il primo dei due trattamenti è più efficace nel ridurre le recidive, ma non la progressione della disabilità.

Mariottini e colleghi sono partiti dalla considerazione che, mentre è noto il livello di efficacia del trapianto autologo di cellule staminali ematopoietiche nella cura della sclerosi multipla recidivante remittente, è dibattuta l’utilità di questo approccio nella sclerosi multipla secondariamente progressiva. Per tale motivo hanno eseguito un confronto tra tale terapia e la somministrazione di un farmaco immunosoppressore, la ciclofosfamide, a basso dosaggio. Si è trattato di uno studio retrospettivo, eseguito in un unico Centro, che ha considerato persone con sclerosi multipla secondariamente progressiva trattate con trapianto autologo di cellule staminali ematopoietiche, con l’applicazione di un protocollo di preparazione denominato BEAM, e, come gruppo di controllo, soggetti ai quali è stata somministrata ciclofosfamide per via endovenosa. Il rapporto numerico tra le due casistiche è stato di 1 a 2. I soggetti del gruppo di controllo sono stati selezionati in base alle caratteristiche che avevano al basale, tenendo conto anche della stima del punteggio di propensione. Sono stati usati specifici metodi statistici per stimare la sopravvivenza libera di recidive, la sopravvivenza libera da progressione della disabilità e una variabile denominata “nessuna evidenza di attività della malattia” (No Evidence off Disease Activity-2: NEDA-2). Un totale di 93 casi di sclerosi multipla secondariamente progressiva è stato incluso nella ricerca: 31 trattati con trapianto autologo di cellule staminali ematopoietiche e 62 curate con ciclofosfamide. La durata media del periodo di osservazione è stata di 99 mesi per le persone sottoposte al trapianto e 91 per quelle che hanno ricevuto la terapia farmacologica. La sopravvivenza libera da recidive a cinque anni è stata maggiore nel gruppo trattato con il trapianto autologo di cellule staminali ematopoietiche, rispetto a quello che ha ricevuto la ciclofosfamide: 100% rispetto a 52% (p<0.0001). Sempre su un periodo di osservazione di cinque anni, non sono state invece diverse tra i due gruppi né la sopravvivenza libera da progressione della disabilità, 70% nel primo gruppo e 81% nel secondo (p=0.572), nè la NEDA-2 (p=0.379). Un’analisi della sensibilità, che ha incluso solo i 31 casi di controllo più simili, come caratteristiche, a quelli del gruppo del trapianto, ha confermato i risultati complessivi. Nel totale della casistica si sono registrati 3 casi di neoplasie, 2 nel gruppo della ciclofosfamide e 1 in quello del trapianto, e 2 decessi, ambedue nel gruppo della ciclofosfamide. Gli autori hanno precisato che le evidenze raccolte dalla loro ricerca sono a rischio moderatamente elevato di fattori che possono avere influenzato i risultati.

Nelle conclusioni Mariottini e colleghi hanno segnalato che, fatti salvi i limiti dichiarati dello studio, i risultati ottenuti hanno evidenziato una maggiore efficacia del trapianto autologo di cellule staminali ematopoietiche nel ridurre le recidive, ma non nel migliorare la progressione della disabilità. Ciò suggerirebbe che, nella sclerosi multipla secondariamente progressiva, il peggioramento della disabilità dipenda da danni che non sono dovuti a meccanismi infiammatori.                          

Source: Fondazione Serono SM


Sclerosi multipla e costruzione dell’identità in adolescenza

La sclerosi multipla può avere un esordio pediatrico quando si manifesta tra i 13 e i 18 anni, anche se esistono casi più rari che si manifestano al di sotto di questa età.

Il sistema nervoso degli adolescenti ha una notevole capacità compensativa al danno ed essendo più plastico presenta minori disabilità dopo ogni ricaduta. Tutto ciò fa comprendere quanto sia importante diagnosticare questa malattia già dai primi segni e sintomi e ancora di più iniziare una terapia che possa ritardare l’evoluzione della malattia e l’accumulo dei deficit residui.

Gli aspetti positivi hanno però un rovescio della medaglia: ricevere una diagnosi di malattia cronica in un’età molto particolare, quale è l’adolescenza, periodo fondamentale per la costruzione dell’identità e senza dubbio un momento della vita ben distante dal pensiero della malattia.

L’identità è un costrutto complesso su cui l’uomo riflette già dalla filosofia greca con Socrate, che tra i primi si pose il problema di comprendere come può quel qualcosa che ognuno sente come propria certezza, restare tale nonostante i mutamenti a cui va incontro durante la vita. L’identità nel tempo è stata sempre più associata alle appartenenze (religiosa, politica ecc.) ma queste scissioni possono essere superate se aggiungiamo l’aggettivo umana, ovvero l’identità che ci rende tutti uguali come esseri umani e contemporaneamente tutti diversi; in quanto ciascuno la svilupperà in senso proprio nel rapporto con gli altri e di conseguenza avrà la propria capacità di immaginare, la propria fantasia, il proprio pensiero non cosciente. “L’identità umana è data dunque dal pensiero in continuo movimento… fondando ciò che io sono: uno solo, non due (mente e corpo), non mille (appartenenze)” (Profeti, 2010).

L’unicità e l’originalità di ogni identità umana è dunque il frutto di un percorso dinamico in continuo divenire, che origina dalla nascita e prosegue per tutta la vita attraverso tappe fondamentali, una delle principali è proprio l’adolescenza. Anche definita “seconda nascita”, questa tappa presenta mutamenti fisici, psichici e relazionali tanto sconvolgenti da portare una trasformazione totale in ogni individuo.

È facile comprendere quanto tutto ciò possa essere rivoluzionario al punto da poter divenire un vero momento critico, non di per sé patologico ma estremamente delicato soprattutto per l’insorgenza di un nuovo aspetto, il confronto con l’altro, con un altro essere umano, uguale a sé ma diverso da sé.

Il rapporto con i pari e con l’altro sesso, l’innamoramento e l’esplorazione del desiderio per l’altro dal punto di vista affettivo e sessuale sono occasioni di crescita e costruzione di una propria immagine sana. L’identità si definisce maggiormente e nel farlo corre purtroppo anche il rischio di vivere vere e proprie crisi, qualora vada incontro a delusioni del desiderio, rapporti malati o eventi di vita eccezionali in grado di far vacillare questa nuova e delicata immagine. In particolar modo questo può avvenire se l’identità non ha fondamenta solide, se cioè non ha sperimentato al momento della nascita e dei primi anni di vita rapporti affettivi validi e separazioni dal proprio passato, che consentano lo sviluppo della capacità di immaginare nuove situazioni di rapporto e nuovi pensieri sia coscienti che inconsci, in grado di far evolvere la persona e di non farla “fissare” a determinati passaggi evolutivi, concetto ben espresso dalla Teoria della Nascita dello psichiatra Massimo Fagioli (1972).

Nel 2005 un importante studio pubblicato sulla Rivista Italiana di Medicina dell’Adolescenza (Officioso et al.) definisce appunto quest’età di passaggio e la malattia cronica due “marker event”, due eventi importanti, decisivi, non soltanto dal punto di vista del cambiamento biologico ma soprattutto psicologico. Gli autori dello studio, così come tutto il mondo della psicologia, conoscono l’importanza per l’adolescente di sentirsi normale o perlomeno non imperfetto e l’idea della malattia, per come un ragazzo può considerarla, rischia di impoverire l’immagine di sé, non solo a livello di immagine corporea ma anche a livello di identità nel sua totalità.

Lo studio in questione ha confrontato 20 ragazzi con una patologia cronica e 20 ragazzi sani, tutti con un’età compresa tra i 13 e 19 anni, per osservarli e comprenderli dal punto di vista psicologico: che cosa potrebbe accadere nella mente e nella realtà di un adolescente a cui viene diagnosticata una patologia che lo accompagnerà nella vita?

Prima di arrivare alle conclusioni dello studio, è interessante soffermarci sulla premessa alla valutazione clinica psicologica e quindi ancora una volta sulle crisi che la risposta emotiva alla pubertà può comportare.

Sono tre gli ambiti su cui soffermarsi: l’immagine del corpo, che cambia totalmente rispetto al corpo del bambino e richiede un duro compito da parte del ragazzo per essere nuovamente integrata con il proprio sé; le relazioni sociali e in particolare lo sforzo di liberarsi dalla sensazione di dipendenza da figure genitoriali e sperimentare una nuova autonomia; l’area della sessualità, che ogni persona deve poter sentire e sperimentare a suo modo.

Tutte e tre le aree vengono compromesse dalla diagnosi di sclerosi multipla: per il cambiamento in senso negativo dell’idea che si ha del proprio corpo, per la difficoltà a uscire da una dipendenza, avendo la persona reale necessità di essere sostenuta, e infine per l’impatto che tutto questo ha nel mettersi di fronte a un coetaneo con cui aprirsi anche dal punto di vista sessuale.

Per tali motivi lo studio sottolinea l’esigenza di una corretta valutazione psicologica delle risorse interne del soggetto ma anche delle risorse esterne, con un occhio in più per le dinamiche familiari. Attraverso specifici test atti a misurare le caratteristiche della personalità emerge che la madre è sempre molto coinvolta e che l’intero nucleo familiare sperimenta molteplici emozioni nei vari momenti della malattia, dall’esordio, alla diagnosi per poi arrivare alla cura.

Il dato interessante rispetto ai ragazzi coinvolti con la patologia è che i loro livelli di ansia e depressione sono più alti rispetto al gruppo di controllo e inoltre è spesso frequente un tratto ossessivo di personalità, ma è anche presente un livello di maturità appropriato all’età.

Dalla valutazione emerge un forte senso di responsabilità da parte dei giovani pazienti, mentre spesso le famiglie vivono sentimenti di colpa che li portano al bisogno di sentirsi attivi fino a iperproteggere e controllare il figlio, cosa che rischia di compromettere quello sviluppo dell’autonomia indispensabile, come già detto, per la costruzione dell’identità.

I caregiver così come i pazienti stessi devono essere accompagnati e sostenuti da personale esperto alla valutazione della persona nella sua interezza e complessità e non solo come espressione di una malattia, proprio per evitare di strutturare difese e rigidità.

Gli adolescenti devono potersi sentire soggetti attivi nel trattamento della propria salute, devono acquisire le competenze necessarie e trovare le proprie risorse interne per riconoscere e soddisfare bisogni ed esigenze.

La medicina stessa ha introdotto il concetto di transitional care per definire maggiormente “il processo attraverso il quale i/le giovani con patologie croniche sviluppano competenze e risorse per far sì che i loro bisogni di assistenza sanitaria siano soddisfatti nel passaggio dall’adolescenza all’età adulta”.

Un accompagnamento alla presa di coscienza della propria malattia che però non interrompa il percorso di crescita ma anzi contribuisca a definire e potenziare maggiormente l’identità. Un cambiamento psichico di tale portata si produce con l’accostamento dell’esperienza all’autoriflessione, in casi di malattia organica la psicoterapia è il luogo di mentalizzazione di sé, un’opportunità di riflessione che altrimenti potrebbe essere complicata.

La maturazione psichica a cui l’adolescente con sclerosi multipla può giungere attraverso questo percorso coincide con la presa d’atto dei propri limiti, della propria vulnerabilità e della propria sostanza anziché con la realizzazione di ideali vuoti.

La sofferenza per uno stato psicologico e biologico è un aspetto della vita dell’essere umano, che sempre più spesso viene letto o solo come questione tecnica e medica o come deficit della persona, “nell’era della prestazione essere malati è una colpa” cita il titolo di un articolo del settimanale Left (n. 29/2021), che ci racconta il punto di vista della scrittrice e filosofa Susan Sontag. Nelle sue pubblicazioni riflette sulle figure e metafore che descrivono la malattia e nota come le parole che la circondano operino nell’immaginario collettivo una sottile degradazione del malato. Costretta entro la sfera biologica, la vita delle persone non si racconta più nella sua ricchezza e nella sua fragilità, non è più differenza da cui arricchirsi, ma solo qualcosa da cui trarre profitto.

Troppo spesso ci si dimentica che siamo tutti portatori di progetti, desideri e angosce, il mito della prestazione, della forza e dell’efficienza a tutti i costi escono dal campo economico per entrare nel campo sociale e delle relazioni e in questa corsa al successo, le persone con difficoltà sono le prime vittime.

“Accogliendo la fragilità”, conclude l’interessante articolo, “l’umano può tornare a rivitalizzare la sensibilità; e può tornare a riconoscere e rispettare anche i propri limiti, riconquistando il senso può vero della propria dignità” e della propria identità.

Source: Fondazione Serono SM


Su quali aspetti della sclerosi multipla c’è più necessità di informazione?

Da anni il sito della Fondazione Merck Serono si è impegnato a informare sulla sclerosi multipla malati, caregiver e tutti quelli che sono interessati all’argomento. Per rendere ancora più efficace la propria comunicazione, il sito ora propone un questionario che ha l’obiettivo di raccogliere le priorità degli utenti circa i contenuti degli aggiornamenti da pubblicare.

Dal momento in cui viene formulata una diagnosi di sclerosi multipla, la persona che riceve tale diagnosi, e chi le è vicino e l’assiste, hanno bisogno di essere informati su tutto quello che comporta vivere con una malattia così. La prima fonte di informazioni è il Medico che segue il malato, insieme alle altre figure professionali che collaborano con lui. D’altra parte, gli aspetti da conoscere sono tanti e, alle volte, la durata di una visita non è sufficiente a parlare di tutto. Per questo motivo, malati e caregiver attingono anche da altre fonti, prima fra tutte siti e reti sociali. Da molti anni, il sito della Fondazione Merck Serono comunica su tutti gli argomenti relativi alla sclerosi multipla, cercando di offrire la migliore informazione possibile. Allo scopo di venire incontro ancora di più alle necessità degli utenti, viene ora proposto un questionario, che si propone di raccogliere le priorità in termini di informazioni. Compilandolo, malati, caregiver, e qualsiasi altro utente del sito che sia interessato alla sclerosi multipla, possono segnalare quali sono gli argomenti sui quali ricevono informazioni dal Medico curante e quali cercano da altre fonti. Analizzando le risposte al questionario, sarà possibile, in futuro, orientare la scelta degli aggiornamenti in base alle necessità segnalate dagli utenti.

Per conoscere gli argomenti ai quali sono più interessati gli utenti, il sito della Fondazione Merck Serono propone un questionario, che permetterà di orientare meglio la comunicazione futura.    

IL QUESTIONARIO:

Conoscere meglio le necessità di informazione delle persone con la sclerosi multipla

Source: Fondazione Serono SM