Archives: Giugno 14, 2022

La telemedicina in sclerosi multipla

L’emergenza COVID-19, con i relativi blocchi agli spostamenti e la riconversione delle strutture sanitarie, ha significativamente accelerato l’introduzione della telemedicina. Dinanzi alla complessità dei sintomi della sclerosi multipla, sono stati necessari specifici adattamenti alle tecniche convenzionali di telemedicina, che sono comunque già applicate da anni in ambito medico.

Il presupposto della telemedicina in sclerosi multipla è che non è purtroppo possibile condurre un esame obiettivo neurologico completo. Ad esempio, è impossibile usare un martelletto neurologico per controllare i riflessi, oppure effettuare un esame oculare completo. Anche la scala neurologica più frequentemente utilizzata per valutare lo stato funzionale globale in sclerosi multipla, l’EDSS (Expanded Disability Status Scale), non è fattibile a distanza, ma potrebbe essere almeno in parte rimpiazzata dal questionario Patient Determined Disease Steps (PDDS) che è stato specificatamente disegnato per ottenere punteggi equivalenti all’EDSS a partire da quanto riportato dalla persona affetto da sclerosi multipla. A tale questionario se ne potrebbero abbinare altri, sempre volti a indagare il percepito della persona con sclerosi multipla. Ovviamente, i questionari sarebbero da compilare a distanza e le loro variazioni potrebbero quindi essere interpretate come ricadute cliniche e/o progressione della disabilità. In caso di dubbio, si potrebbe sempre ricorrere a una visita in persona e all’esame RM.

Se quindi la telemedicina può essere adattata alla sclerosi multipla, il problema è quanto possa essere effettivamente utilizzata. Innanzitutto, come descritto in precedenza, è impossibile valutare in telemedicina la complessità dei sintomi della sclerosi multipla, in particolare nei casi a più grave disabilità. Ovviamente, se non si riconoscono i cambiamenti clinici (ricadute, progressione clinica ecc.), è impossibile prendere le decisioni terapeutiche giuste nei tempi necessari, con ritardi che implicherebbero ulteriori peggioramenti clinici.

Abbiamo poi imparato a conoscere le difficoltà nella trasmissione di video e audio che si possono presentare in corso di telemedicina, che quindi renderebbero la visita estremamente frammentata. Non tutti poi hanno accesso a sistemi informatici avanzati (telecamera di alta qualità, internet veloce), e quindi l’uso della telemedicina va a penalizzare una porzione di persone. Inoltre, le difficoltà causate dalla sclerosi multipla (disturbi di vista, coordinazioni e/o movimenti) possono rendere difficoltoso l’uso di strumenti tecnologici.

In conclusione, è stato indubbiamente necessario sviluppare modalità di telemedicina per la sclerosi multipla, ma allo stesso modo la telemedicina non potrà sostituire completamente le visite e le interazioni in persona. Infatti, lo schermo di un computer o di un cellulare rappresenta una barriera tra il medico e la persona con sclerosi multipla, che non riescono quindi a formare il legame necessario all’alleanza terapeutica. Se durante i momenti peggiori dell’emergenza COVID-19 la telemedicina è stata la migliore soluzione possibile per mantenere un contatto con le persone con sclerosi multipla, il suo futuro è tuttavia più incerto. Probabilmente, si ricorrerà a modalità ibride, in cui telemedicina e visite in persona verranno combinate sulla base delle possibilità e delle necessità. La telemedicina potrebbe essere usata solo per rapidi controlli o per discutere i risultati di un esame, mentre le attività in persona tornerebbero ad avere un ruolo centrale. In attesa che usciamo dall’emergenza COVID-19, dobbiamo quindi sforzarci di offrire il miglior servizio possibile alle persone con sclerosi multipla e, in particolar modo, a quelle con maggior livello di disabilità, per le quali un ritardo o una mancanza sarebbero particolarmente inaccettabili.

Source: Fondazione Serono SM


Progressione indipendente dall’attività delle recidive nella sclerosi multipla

Un gruppo internazionale di esperti, del quale hanno fatto parte anche specialisti italiani, ha valutato la relazione tra i processi di atrofia a carico del cervello da una parte e, dall’altra,  le recidive e la progressione della malattia indipendente dall’attività delle recidive. I risultati hanno dimostrato che alla progressione indipendente dalle recidive si associa una più rapida evoluzione dell’atrofia.

Nella storia naturale della sclerosi multipla tuttora resta da comprendere se i processi di neurodegenerazione e di atrofia si correlino all’andamento delle recidive. Per questo, Cagol e colleghi hanno eseguito uno studio che ha valutato se la progressione della disabilità indipendente dall’attività delle recidive fosse associata ai danni al tessuto del cervello nelle persone con sclerosi multipla recidivante remittente. Si è trattato di una ricerca osservazionale, prospettica e di coorte, che ha previsto un periodo di osservazione di 3.2 anni (mediana). In particolare, i dati sono stati raccolti tra il gennaio 2012 e il settembre 2019 da una rete di Centri specialistici di terzo livello. Sono stati inclusi casi con controlli clinici regolari e con almeno due risonanze magnetiche, che permettessero la misurazione dei volumi delle diverse parti del cervello. I dati sono stati analizzati dal gennaio 2020 al marzo 2021. Sulla base dell’evoluzione clinica rilevata durante tutto il periodo di osservazione, i casi sono stati suddivisi in tre gruppi, caratterizzati rispettivamente da: presenza delle sole recidive o di soli episodi di progressione della malattia indipendente dalle recidive o di ambedue tali riscontri o da un quadro clinico stabile. Tra le variabili considerate c’è stata la differenza media tra i quattro gruppi riguardo alla percentuale annuale di modificazione (MD-APC) del volume del cervello e dello spessore della corteccia cerebrale. Inoltre, è stata misurata la frequenza dell’atrofia. Si sono analizzate 1904 risonanze magnetiche di 516 persone con sclerosi multipla recidivante remittente, per il 67.4% di sesso femminile, con età media 41.4 ± 11.1 e che, all’inizio del periodo di osservazione, avevano un valore mediano di EDSS di 2.0 (1.5-3.0). Le risonanze escluse per qualità inadeguata sono state 19. L’attività infiammatoria rilevabile con la risonanza si è associata a una maggiore frequenza di atrofia in diverse parti del cervello, mentre nei casi con frequenza annuale più elevata di recidive si è osservata soprattutto una riduzione del volume della materia grigia. Quando si sono confrontati i soggetti con quadro clinico stabile con quelli con progressione indipendente dall’attività delle recidive, si è osservato che in questi ultimi c’era una perdita maggiore di volume del cervello: MD-APC – 0.36; intervallo di confidenza al 95% da meno – 0.60 a – 0.12; p=0.02. Tale riscontro è stato posto in relazione soprattutto con una riduzione della materia grigia nella corteccia cerebrale. Nei malati che hanno avuto recidive si è osservata un’atrofia più diffusa a tutto il cervello con una MD-APC di – 0.18; intervallo di confidenza al 95% da meno – 0.34 a – 0.02; p=0.04, rispetto ai casi con quadro clinico stabile. Tale evoluzione è stata posta in relazione con una perdita di materia grigia, sia a livello della corteccia cerebrale, che in parti più profonde del cervello. Non si sono osservate differenze nella diffusione dell’atrofia tra i soggetti con recidive e quelli con progressione indipendente dall’attività delle recidive.                         

Nelle conclusioni gli autori hanno evidenziato che, nella loro casistica di malati con sclerosi multipla recidivante remittente, la progressione della malattia indipendente all’attività delle recidive si è associata all’evoluzione dell’atrofia, soprattutto nella corteccia cerebrale. Queste evidenze sono molto importanti perché dimostrano che la sclerosi multipla evolve anche a prescindere dalla comparsa delle recidive e confermano la necessità di decidere le cure sulla base di riscontri oggettivi sui danni che la malattia provoca nel sistema nervoso centrale e non solo facendo riferimento alle manifestazioni cliniche.  

Source: Fondazione Serono SM


Quando la disabilità si fa grave: la pianificazione condivisa delle cure

La sclerosi multipla è una malattia cronica caratterizzata da un decorso variabile. I dati sulla mortalità indicano un eccesso di mortalità rispetto alla popolazione generale, costante negli ultimi 50 anni [1]. È stimata una riduzione media dell’aspettativa di vita di 6-14 anni rispetto alla popolazione generale [2], da correlare con la disabilità che si realizza nelle forme progressiva di malattia. La sclerosi multipla, purtroppo, nonostante la sempre maggiore disponibilità di terapie disease-modifying determina ancora disabilità gravissima. I dati del “Fondo Non Autosufficienza” permettono di stimare che nel 2017 più di 6200 persone con sclerosi multipla (circa il 5,5% del totale delle persone con sclerosi multipla in Italia) hanno una disabilità gravissima definita con Expanded Disability Status Scale (EDSS) ≥9,0 [3]. Nelle forme che decorrono con grave disabilità, i sintomi e le limitazioni funzionali coinvolgono diversi aspetti, come l’autonomia nei movimenti, la funzione visiva, il controllo degli sfinteri, la capacità di alimentarsi e la capacità di comunicare. Inoltre è frequente una compromissione delle funzioni cognitive che può sfociare fino alla diagnosi di demenza [4].

Questi disturbi possono stabilizzarsi anche per lunghi periodi, fino a 30 anni [5], permettendo un eventuale adattamento personale e una qualità della vita soddisfacente. D’altra parte, col passare del tempo, ulteriori peggioramenti, la comparsa di complicanze o di comorbilità, oppure le mutate condizioni socioassistenziali (ad es., cambiamenti familiari come perdita di familiari caregiver) rendono più difficoltoso questo adattamento continuo.

Può accadere di dover condividere la scelta di ricorrere a trattamenti di supporto vitale per evitare gravi complicanze, potenzialmente mortali. Questi trattamenti sono, ad esempio, la gastrostomia percutanea (PEG) o addirittura la tracheostomia in caso di insufficienza respiratoria. I trattamenti di supporto vitale possono assicurare anni di vita, tuttavia possono causare ulteriori sofferenze, compromettendo l’idea stessa di “vita dignitosa” che il paziente può avere. È necessario che al malato sia dato modo di riflettere sui propri valori, sulla propria spiritualità e interrogarsi per tempo sull’accettazione di tali misure, sullo scenario di un tipo di vita inedito, gravato di ancor maggiore dipendenza, sul significato personale di “vita dignitosa” e su chi possa aiutarlo a scegliere, a fornire consenso ai trattamenti quando non sarà più in grado di esprimersi. È altresì necessario che la persona malata si possa interrogare, e sia aiutata a farlo, anche sull’eventuale processo del morire e messa a conoscenza delle risorse di cure palliative disponibili.

La Legge Italiana 219/2017 [6] prevede la possibilità per il cittadino di prendere delle decisioni per interventi sanitari, che si possono immaginare in situazioni future, nell’ipotesi in cui la capacità di decidere e/o di esprimersi fosse perduta. Questa legge prevede due scenari.

Il primo è quello del cittadino che può essere in piena salute e che comunque non ha una malattia progressiva disabilitante/mortale, e che desidera esprimersi rispetto a scelte di cura future ipotetiche: in questo caso si parla di Disposizioni Anticipate di Trattamento (DAT). Le DAT possono essere redatte da qualunque cittadino adulto, adeguatamente informato e capace di decidere. Tramite esse il cittadino fornirà indicazioni sulle sue preferenze e volontà rispetto a potenziali trattamenti sanitari che desidera o non desidera ricevere, in particolare quelli più invasivi e che determinano condizioni particolari di vita, come la necessità di supporti ventilatori (manovre rianimatorie in gravi condizioni ad alta probabilità di esito infausto, respirazione meccanica, tracheostomia, nutrizione artificiale, dialisi ecc.).

Le DAT devono essere redatte per atto pubblico o per scrittura privata autenticata ovvero per scrittura privata consegnata personalmente dal disponente presso l’ufficio dello stato civile del comune di residenza.

Nel caso in cui le condizioni fisiche del paziente non lo consentano, le DAT possono essere espresse attraverso videoregistrazione o dispositivi che consentano alla persona con disabilità di comunicare. Con le medesime forme esse sono rinnovabili, modificabili e revocabili in ogni momento.

È ancora work in progress un registro nazionale immediatamente consultabile dai medici che potrebbero entrare in contatto con la persona e avere necessità delle DAT per prendere decisioni in urgenza.

Il secondo scenario è quello della Pianificazione Condivisa delle Cure (PCC), che riguarda chi ha una malattia progressiva di cui si può intravedere la traiettoria. La PCC viene redatta dal malato insieme al proprio medico di fiducia in forma di un documento che viene conservato dal malato stesso tra la sua documentazione sanitaria e conservato dagli altri interessati indicati dal malato; se possibile viene archiviato in una cartella clinica e, soprattutto, nel fascicolo sanitario elettronico nelle regioni in cui è attivo, in modo da poter essere più prontamente disponibile per i sanitari che si prendono cura del malato.

Per entrambi gli scenari, è prevista la figura del “fiduciario”, ovvero di una persona che rappresenterà il malato nelle relazioni con il personale di cura al momento in cui sarà necessario, ovvero quando subentri la necessità di ricorrere alle disposizioni date dal malato per la sua incapacità (reversibile o irreversibile) a fornire il consenso a trattamenti.

In tale condizione di incapacità, i medici sono obbligati a prendere decisioni sulle terapie da iniziare o sospendere in ottemperanza a quanto dichiarato dal malato nella DAT o PCC disponibile.

Il fiduciario potrà discutere le decisioni con i medici, con l’obbligo morale e di legge di farsi garante delle preferenze del malato, rimanendo sempre nell’ottica della visione esistenziale di quest’ultimo. Questo significa che, laddove le DAT/PCC non prevedessero cosa fare in determinate scelte e non ci fossero altri strumenti di tutela legale (tutore o amministratore di sostegno), il medico di fiducia e il fiduciario dovrebbero portare il punto di vista del malato, ormai incapace di decidere, e aiutare a prendere decisioni sanitarie “con lui”, non “per lui”.

Si può anche scegliere più di un fiduciario, anche perché non è possibile sapere se la persona identificata in questo compito sarà necessariamente disponibile al momento del bisogno, ma dovrà essere chiaro un ordine di preferenza, per evitare che insorgano contrasti tra i fiduciari rispetto alle scelte.

Come detto per le DAT, nel caso in cui le condizioni fisiche del paziente non lo consentano, la PCC può essere espressa mediante videoregistrazione o dispositivi che consentano al malato di comunicare.

DAT e PCC possono essere riviste, ripensate e ridiscusse nel corso del tempo. Questo perché le preferenze e la visione della vita possono cambiare, così come la scelta della persona che si vuole indicare come fiduciario.

Per questo è importante aggiornare regolarmente la PCC, per ripensare alle scelte e ridiscuterle con il medico di fiducia ed eventualmente con altri professionisti sanitari.

DAT e PCC hanno un profondo fondamento etico che si basa sul principio di autonomia della persona [7].

Le recenti raccomandazioni della European Academy of Neurology sulle cure palliative nelle persone con grave sclerosi multipla progressiva consigliano la PCC (indicata con il termine, più internazionalmente diffuso, di advance care planning [ACP]) in una fase precoce e che si instauri una regolare comunicazione con il malato e la sua famiglia/caregiver sulla traiettoria di malattia [8].

Proporre e aiutare il malato nel redigere la PCC necessita di alcune competenze che ancora non sono patrimonio diffuso tra i medici e che si ritrovano soprattutto in chi svolge medicina palliativa. Per questo, anche solo per i bisogni comunicativi, può essere vantaggioso avere la disponibilità di un servizio di cure palliative che si integri con le strutture neurologiche e riabilitative [9]. È necessario insistere sulla formazione su tali temi nell’ambito della formazione degli operatori sanitari e, più in generale, su una capillare informazione per i malati e per la cittadinanza tutta [9]. Infine la ricerca permetterà meglio di stabilire modalità efficaci e valutare elementi di facilitazione od ostacolo al processo di PCC [10].

Source: Fondazione Serono SM


Il ruolo dei mitocondri nella progressione della sclerosi multipla

Negli ultimi anni la ricerca ha messo in luce come la disfunzione dei mitocondri, le centrali energetiche della cellula, ricopra un ruolo fondamentale nella progressione della sclerosi multipla e di altre malattie neurodegenerative, candidando i mitocondri a promettenti target terapeutici.

La sclerosi multipla è sempre stata considerata, prima di tutto, una malattia infiammatoria a carico di cervello e midollo spinale, le strutture del sistema nervoso centrale. Nonostante non ne siano state ancora individuate le cause, è chiaro che il sistema immunitario si attivi erroneamente contro componenti dell’organismo stesso, individuati nella mielina e nelle cellule che la producono: gli oligodendrociti. Questa reazione autoimmune instaura uno stato infiammatorio persistente in diverse aree del sistema nervoso centrale e provoca demielinizzazione, ovvero il deterioramento della mielina, una sostanza isolante che riveste le fibre nervose ed è fondamentale per una rapida conduzione degli impulsi nervosi. Solo negli ultimi anni si sta dando maggior peso anche all’aspetto progressivo della sclerosi multipla. Come accade per altre malattie neurodegenerative del sistema nervoso centrale, la sclerosi multipla è caratterizzata da un lento declino neurologico, effetto della graduale e irreversibile perdita di cellule nervose. Il prolungato attacco alla mielina, effettivamente, può arrivare a coinvolgere anche le sottostanti cellule nervose, danneggiandole irrimediabilmente. Eppure si è scoperto che il processo neurodegenerativo avviene anche indipendentemente dall’infiammazione. Per quanto gli esiti della neurodegenerazione si manifestino chiaramente solo negli stadi avanzati della malattia, le analisi di risonanza magnetica dimostrano che questo processo patologico si verifica sin dagli esordi e non necessariamente in corrispondenza delle lesioni demielinizzanti. Pertanto il fenomeno neurodegenerativo risulta il principale responsabile dei sintomi e del loro peggioramento nel tempo; sintomatologia che rende la sclerosi multipla la causa più comune di disabilità neurologica nei giovani adulti.

Ad oggi, non esistono cure risolutive per le malattie neurodegenerative. I passi avanti fatti nella comprensione dell’infiammazione e della risposta immunitaria nella sclerosi multipla hanno permesso lo sviluppo di terapie in grado di migliorarne il decorso nel breve-medio termine, riducendo significativamente il suo impatto sulla qualità della vita quotidiana dei pazienti. Ma non tutti i pazienti, al momento, traggono beneficio dai trattamenti farmacologici allo stesso modo. In base al decorso clinico, si distinguono fondamentalmente due forme di sclerosi multipla: la sclerosi multipla recidivante-remittente, caratterizzata dall’alternarsi di episodi acuti e periodi stabili, durante i quali si può avere anche un recupero parziale o totale dei sintomi, e le forme progressive, in cui i sintomi peggiorano lentamente senza ricadute evidenti. I farmaci attualmente disponibili hanno una buona efficacia nei pazienti recidivanti-remittenti perché i sintomi sono legati soprattutto all’infiammazione e alla demielinizzazione. Invece, nessuna terapia è in grado di arrestare l’irreversibile e continua perdita di cellule nervose. Per questo i soggetti con forme progressive e nelle fasi più avanzate della malattia, nei quali è la neurodegenerazione a prevalere, si dimostrano meno responsivi ai farmaci.

Dunque, risulta urgente comprendere i meccanismi che sottendono la neurodegenerazione nella sclerosi multipla, al fine di sviluppare terapie efficaci nel fermare la progressione della malattia e il manifestarsi di sintomi invalidanti.

Recenti studi propongono come potenziale bersaglio terapeutico i mitocondri. La compromissione delle funzioni mitocondriali si è dimostrata cruciale nella progressiva perdita di cellule nervose durante il normale invecchiamento e in altre malattie neurodegenerative come il Parkinson e l’Alzheimer. Il coinvolgimento dei mitocondri nella neurodegenerazione è dettato, prima di tutto, dalla loro funzione di centrali energetiche. Questi compartimenti, presenti all’interno delle cellule di animali e piante, sono la sede della respirazione cellulare: una serie di reazioni biochimiche che permettono, tramite il consumo di ossigeno, di estrarre grandi quantitativi di energia dai nutrienti, primi fra tutti zuccheri e grassi. Una diminuzione della produzione di energia da parte dei mitocondri compromette significativamente il normale svolgimento delle funzioni vitali della cellula, determinandone anche la morte. Le cellule del sistema nervoso centrale sono molto sensibili a carenze energetiche e, una volta perse, non possono essere sostituite. Esse possiedono un fabbisogno energetico particolarmente elevato rispetto alle altre cellule dell’organismo, indispensabile a sostenere le loro complesse attività, tra cui la trasmissione degli impulsi nervosi. Nella sclerosi multipla, i tentativi di porre rimedio alle perdite di mielina e di ricostituirla portano a un incremento delle richieste energetiche delle cellule di cervello e midollo spinale. Si attivano, allora, meccanismi di compensazione per supportare le aumentate necessità energetiche, come la crescita in numero dei mitocondri, senza però alcun successo perché danneggiati e malfunzionanti.

Bisogna considerare, infatti, che la respirazione cellulare è un’arma a doppio taglio. Nonostante convenga dal punto di vista della resa energetica, servendosi dell’ossigeno, ha di contro la generazione di radicali liberi. Questi sono molto instabili e tendono a reagire con strutture vitali della cellula, danneggiandola anche in maniera irrimediabile. In condizioni normali esistono diversi sistemi in grado di neutralizzare i radicali liberi, che prendono il nome di antiossidanti. Tuttavia la loro efficacia viene meno durante l’invecchiamento e in condizioni patologiche dove si ha un’eccessiva produzione di radicali liberi, come durante l’infiammazione. E proprio l’infiammazione del sistema nervoso centrale è un tratto distintivo della sclerosi multipla. Nel cervello e nel midollo spinale, poi, si raggiungono facilmente alti livelli di radicali liberi a causa, appunto, dell’elevato fabbisogno energetico e del conseguente consumo di ossigeno. Sebbene costituisca soltanto il 2% del peso dell’organismo, solo il cervello consuma il 20% dell’ossigeno disponibile.

A livello delle singole cellule nervose, le strutture maggiormente esposte ai radicali liberi sono proprio i mitocondri, in quanto ne costituiscono, come detto, la principale sede di produzione. Sono colpiti soprattutto a livello del loro DNA, nel quale vengono contenute le informazioni essenziali per definire alcune delle proteine coinvolte nella respirazione cellulare. Ciò che contraddistingue questi organelli è il fatto di contenere materiale genetico in aggiunta a quello principale, presente invece all’interno del nucleo della cellula, una traccia che testimonia la loro antica origine batterica. Non sorprende quindi che, insieme a un aumento dei radicali liberi, negli stadi avanzati della sclerosi multipla vi sia un DNA mitocondriale altamente danneggiato e si assista a un’inefficiente respirazione cellulare, incapace di sostenere i tentativi di riparazione dei danni causati dai processi patologici in atto nel sistema nervoso centrale. Ma, essendo la neurodegenerazione già presente sin dalle fasi iniziali della malattia, se non addirittura prima della comparsa dei sintomi, si può ipotizzare che i mitocondri siano danneggiati ancor prima dell’instaurarsi dell’infiammazione, della demielinizzazione e dell’aumento di radicali liberi. L’interesse della ricerca si è rivolto nello studiare come difetti nel DNA mitocondriale, ereditati o acquisiti, possano predisporre a un maggior rischio di sviluppare la sclerosi multipla, rendendo i mitocondri meno capaci di produrre energia fin dall’inizio della malattia. Il contributo di mutazioni genetiche spiegherebbe la maggiore probabilità di sviluppare la malattia quando si ha la madre malata, rispetto a quando è il padre a essere colpito dalla sclerosi multipla. Questo perché il DNA mitocondriale viene trasmesso ai figli solo per via materna. Inoltre, l’importanza di alterazioni nel DNA mitocondriale è supportata dalla sovrapposizione nei sintomi tra la sclerosi multipla e un’altra patologia, la neuropatia ottica ereditaria di Leber (LHON). Questa malattia ereditaria, dovuta a mutazioni nel DNA mitocondriale, è caratterizzata dalla degenerazione del nervo ottico e dalla perdita della visione centrale in entrambi gli occhi. Alcune delle persone affette dalla LHON sviluppano anche sintomi neurologici propri della sclerosi multipla, una condizione definita come malattia di Harding. Comprendere la disfunzione mitocondriale nella LHON potrebbe rivelare alcuni dei fattori che concorrono a danneggiare l’attività dei mitocondri nella sclerosi multipla e ad aiutare a definire il ruolo specifico di queste indispensabili strutture cellulari nel promuovere, o addirittura indurre, i processi neurodegenerativi.

Perciò, l’aumento delle richieste energetiche e la prolungata esposizione al danno da radicali liberi compromettono le attività dei mitocondri e favoriscono la morte delle cellule nervose, e, di conseguenza, la continua progressione delle malattie neurodegenerative, compresa la sclerosi multipla. Visto il loro coinvolgimento fin dall’inizio della malattia, terapie improntate sul miglioramento della funzionalità dei mitocondri potrebbero essere una vincente strategia neuroprotettiva, in grado di scongiurare la perdita di cellule nervose e il lento declino clinico. Si sta già sperimentando l’impiego di molecole con una nota azione antiossidante, in combinazione agli attuali trattamenti farmacologici, con l’obiettivo di proteggere i mitocondri dal danno da radicali liberi, come le vitamine del gruppo B, le vitamine E e K, l’acido lipoico e il coenzima Q10.

Oltre agli approcci nutraceutici e farmacologici, è importante condurre uno stile di vita sano. Una corretta alimentazione e un moderato esercizio fisico, infatti, possono contribuire in maniera significativa a bilanciare il rapporto tra radicali liberi e difese antiossidanti e a proteggere, quindi, i mitocondri anche nel sistema nervoso centrale, contrastando così la progressione dei sintomi.

Source: Fondazione Serono SM


Terapie cognitive della terza onda nella sclerosi multipla

Esperti britannici hanno eseguito una revisione della letteratura relativa agli studi che hanno valutato l’efficacia della terapia cognitiva della terza onda nelle persone affette da sclerosi multipla e con alterazioni delle funzioni cognitive. I risultati hanno dimostrato che questo approccio è promettente, ma necessita di ulteriori valutazioni.

Le terapie cognitivo-comportamentali definite della “terza onda” costituiscono un gruppo di approcci emergenti di psicoterapia che, secondo alcuni, costituiscono un’evoluzione e un’estensione dei trattamenti cognitivo-comportamentali tradizionali. Le terapie della terza onda privilegiano la promozione dei processi psicologici e comportamentali associati alla salute e al benessere, rispetto alla riduzione o all’eliminazione dei sintomi psicologici ed emozionali che, tipicamente, è considerato un beneficio collaterale. Piuttosto che concentrarsi sul contenuto dei pensieri della persona e sulle esperienze interiori, le terapie della terza onda si interessano di più dei contesti, dei processi e delle funzioni con le quali l’individuo si pone in relazione con le esperienze interiori. Zarotti e colleghi hanno eseguito una revisione della letteratura su questo specifico approccio, oggi certamente meno conosciuto rispetto alla terapia cognitivo-comportamentale tradizionale, nella gestione delle alterazioni delle funzioni cognitive che si presentano nelle persone affette da sclerosi multipla. È stata eseguita una ricerca degli articoli sull’argomento pubblicati fino al gennaio 2022. Delle 8.306 pubblicazioni inizialmente reperite, ne sono state selezionate 35, delle quali 20 riportavano i risultati di studi clinici controllati. Ne è emerso che, al gennaio 2022, 4 approcci della terza onda erano stati valutati in persone con sclerosi multipla: la terapia dell’accettazione e dell’impegno (Acceptance and Commitment Therapy: ACT), la terapia dialettico-comportamentale (Dialectical Behaviour Therapy: DBT), la riduzione dello stress basata sulla consapevolezza (Mindfulness-Based Stress Reduction: MBSR) e la terapia cognitiva basata sulla consapevolezza (Mindfulness-Based Cognitive Therapy: MBCT). La MBSR e la MBCT si sono dimostrate efficaci nell’aiutare i malati ad affrontare una serie di problemi psicologici per periodi fino a 3 mesi dopo l’intervento terapeutico. In base all’analisi eseguita, gli autori hanno verificato che sono necessari ulteriori adattamenti di trattamenti alle alterazioni delle funzioni cognitive specifiche della sclerosi multipla e che si deve verificare l’efficacia a lungo termine. Per il momento, sono disponibili limitate evidenze anche su DBT e ACT, ma sicuramente se ne raccoglieranno altre nei prossimi anni.

Nelle conclusioni gli autori hanno ricordato che la riabilitazione delle funzioni cognitive nei malati di sclerosi multipla può aiutare ad affrontare molte difficoltà psicologiche. Alcuni approcci della terapia cognitiva della terza onda aprono prospettive interessanti, ma necessitano di ulteriori verifiche.            

Source: Fondazione Serono SM


Allenamento ad alta intensità nei malati di sclerosi multipla

Un gruppo di esperti olandesi ha eseguito uno studio pilota per valutare la fattibilità di un allenamento funzionale ad alto volume e ad alta intensità in un piccolo gruppo di malati di sclerosi multipla. I risultati hanno indicato che tale programma è fattibile e potrebbe migliorare la capacità funzionale delle persone affette dalla malattia, ma andrà valutato su scala più ampia.

L’attività fisica in passato non è stata ritenuta utile nel malati di sclerosi multipla e alcuni pensavano che fosse anche controproducente. Da tempo tale visione è stata superata e programmi di esercizio, commisurati alla capacità funzionale del malato, vengono proposti come parte della cura, tanto che la diffusione di tali approcci è tra gli scopi dell’associazione 160 cm (https://160cm.it). L’obiettivo che si sono posti Derikx e colleghi è stato quello di valutare la fattibilità di un programma di allenamento funzionale ad alto volume e ad alta intensità in malati di sclerosi multipla e di verificare se tale programma migliori la loro capacità funzionale. Un altro obiettivo della ricerca è stato di valutare le modificazioni nel tempo della forza muscolare e della capacità aerobica dei partecipanti. Si è trattato di uno studio pilota articolato su un primo periodo di dodici settimane, nelle quali le persone con sclerosi multipla hanno partecipato al programma, e otto settimane successive, nelle quali gli stessi soggetti sono stati sottoposti a ulteriori controlli. L’intervento è consistito in tre sessioni settimanali, di tre ore ciascuna, durante le quali veniva eseguito un allenamento che comprendeva esercizi di resistenza, prove di durata ed esercizi di abilità. La fattibilità del programma è stata valutata mediante un questionario specifico. Altre verifiche hanno riguardato: la capacità funzionale, valutata con la misurazione del tempo della prova “alzati e vai” (Timed Up and Go Test), con la prova del cammino di 10 metri (10-Meter Walk Test) e con la prova del cammino di 6 minuti (6-Minute Walk Test). Sono state inoltre studiate: la capacità aerobica, misurata con la prova da sforzo cardiopolmonare (cardiopulmonary exercise test), e la forza muscolare, valutata con il test denominato “1 ripetizione della massima spinta delle gambe” (1 repetition maximum leg press). I risultati hanno dimostrato che sette soggetti hanno completato lo studio, partecipando in media al 93% delle sessioni previste dal programma. Si è registrato un unico evento indesiderato, che però non è stato posto in relazione con il programma. I riscontri raccolti dai partecipanti hanno giudicato in maniera positiva o molto positiva l’86% degli aspetti relativi alla fattibilità dell’intervento. Per quanto riguarda la soddisfazione dei soggetti arruolati nel programma di allenamento, complessivamente è stata quantificata con un punteggio di 8.9, su un intervallo compreso tra 1 e 10. Capacità funzionale, capacità aerobica e forza muscolare hanno mostrato miglioramenti al termine del programma di allenamento, ma non sempre si sono mantenuti nel tempo. Nelle conclusioni gli autori hanno evidenziato che il programma di allenamento funzionale ad alto volume e ad alta intensità da loro valutato è risultato fattibile in malati di sclerosi multipla. I riscontri raccolti sono stati promettenti, circa gli effetti sulla funzionalità dei malati e sulla loro forza muscolare, ma gli stessi autori hanno sottolineato la necessità di raccogliere altri dati, in uno studio su ampia popolazione e di lunga durata, per valutare il valore aggiunto che il programma può apportare. In attesa che si raccolgano nuove evidenze, un malato di sclerosi multipla che voglia svolgere dell’attività fisica è bene che concordi con il medico di riferimento quella compatibile con il suo stato funzionale.

Source: Fondazione Serono SM


Stress e sclerosi multipla

La relazione tra stress e sclerosi multipla è stata oggetto di molteplici ricerche e sembra essere bidirezionale: da una parte la malattia rappresenta di per sé una fonte di stress, a causa dell’esordio nelle fasi più produttive della vita, dell’imprevedibilità del decorso e dell’impatto sulla qualità della vita (QoL); dall’altra, è stato più volte ipotizzato che gli eventi stressanti possano avere un ruolo nella patogenesi della sclerosi multipla o nella comparsa delle ricadute. Il razionale biologico per sostenere tale relazione è rappresentato dall’ipotesi, documentata da ricerche condotte a partire dagli ultimi decenni del secolo scorso, che lo stress psicologico possa influenzare i meccanismi immunitari, interagendo con il sistema nervoso vegetativo e il sistema endocrino dell’organismo. Vi sono evidenze che sottolineano come il livello di QoL, espressione dello stato di benessere e di soddisfazione dell’individuo, sia un fattore di rischio per lo sviluppo di diverse condizioni patologiche; la ricorrenza di eventi stressanti (ES) nel corso della vita si associa a una maggiore esposizione a eventi morbosi e a un aumento della mortalità [1] . Tuttavia, nonostante i numerosi lavori pubblicati, le evidenze scientifiche di una forte relazione tra ES, insorgenza di sclerosi multipla, frequenza di riacutizzazioni cliniche e progressione della malattia sono controverse.

L’implicazione dello stress come potenziale fattore di rischio per lo sviluppo delle manifestazioni cliniche della sclerosi multipla si deve a Jean-Martin Charcot che nel 1879, nelle sue “Lectures on Disease of the Nervous System”, ipotizzò che cambiamenti negativi delle condizioni personali e sociali degli individui potessero contribuire al manifestarsi della malattia [2]. Uno dei primi studi che confermò un maggior numero di eventi stressanti nei pazienti con sclerosi multipla rispetto ai soggetti di controllo, affetti da altre malattie neurologiche o reumatologiche, fu pubblicato da Warren nel 1982 [3]. Gli ES ricorrevano nel 79% dei pazienti con sclerosi multipla contro il 54% dei controlli. Nel 1988 fu pubblicato uno studio prospettico di 55 pazienti con sclerosi multipla di tipo recidivante-remittente, sottoposti a test di rilevazione di ES ogni 4 mesi sino a quando si rilevava una riacutizzazione clinica di malattia. I pazienti furono seguiti per 20 mesi. Nei 25 casi in cui si verificò una ricaduta di malattia gli ES non erano più numerosi rispetto a quelli registrati in un gruppo di controllo di 30 soggetti, durante un periodo di durata comparabile [4]. Una metanalisi condotta nel 1999 da un gruppo di ricercatori dell’American Academy of Neurology sulle possibili correlazioni tra ES e sclerosi multipla concludeva che lo stress psicologico era implicato in qualche modo nell’attività di malattia in corso di sclerosi multipla, ma le evidenze scientifiche erano carenti, probabilmente a causa dei limiti metodologici dei vari studi. Infatti la stessa definizione di evento stressante non è unanimemente condivisa in quanto comprensiva di un’ampia gamma di evenienze (problemi di salute dei familiari più stretti, stress da lavoro, eventi correlati alla casa/auto, eventi morbosi non correlati alla sclerosi multipla, problemi finanziari, lutti, divorzio, matrimonio ecc.). D’altra parte potrebbe non essere l’evento in sé a definire le caratteristiche di ES, quanto la risonanza emotiva nel soggetto esposto, quindi le conseguenze psicologiche in grado di determinare. Le strategie di coping, che possono essere definite come l’insieme di tentativi comportamentali e cognitivi messi in atto da qualunque persona, per far fronte a una particolare condizione percepita come stressante, con lo scopo di superarla, di evitare l’esposizione a essa o di ridurne gli eventuali effetti negativi, sono differenti da individuo a individuo e rappresentano le differenze individuali nel modo di reagire a eventi di vita traumatici. Lo stesso nesso temporale tra un ES e le relative conseguenze è un parametro variabile e confondente in molti studi: nel caso per esempio di un lutto, vi possono essere effetti immediati legati alla perdita di un proprio caro, che può essere avvenuta in modo drammatico e improvviso oppure al termine di una lunga malattia; ma si possono avere effetti a distanza legati per esempio alla perdita del sostegno economico. Gli studi retrospettivi d’altra parte sono viziati da errori legati alle difficoltà dei pazienti a ricordare tutti gli ES.

Al fine di verificare se l’ipotesi di una correlazione tra stress e sclerosi multipla fosse plausibile dal punto di vista biologico, Mohr nel 2000 [5] pubblicò uno studio riguardante 36 pazienti con forma recidivante-remittente di sclerosi multipla osservati in modo prospettico, con controlli ogni 4 settimane per 100 settimane: fu dimostrata una correlazione tra sviluppo di nuove lesioni in risonanza magnetica (RM), captanti mezzo di contrasto, espressione di attività radiologica di malattia e l’occorrenza di ES acuti (lutti, separazioni, tracolli economici) nelle 8 settimane precedenti. La correlazione era più forte per “conflitti ed eventi traumatici di rottura”, quali separazioni, morte di una persona cara o perdita del posto di lavoro. In uno studio successivo pubblicato nel 2002 [6], l’85% delle esacerbazioni acute di malattia di 23 pazienti con sclerosi multipla, seguiti per oltre un anno in maniera prospettica, correlava con la comparsa di ES nelle settimane precedenti, al punto da far concludere gli autori che “lo stress è un potente trigger di attività clinico-radiologica di malattia” [7]. Gli studi successivi, effettuati con maggiore rigore metodologico confermano sostanzialmente l’associazione tra eventi stressanti e insorgenza di ricadute cliniche di malattia in corso di sclerosi multipla e/o formazione di nuove lesioni in RM.

Non vi sono invece dati sufficienti per ritenere che eventi stressanti possano favorire lo sviluppo della sclerosi multipla o influenzare il decorso a lungo termine della malattia. Uno studio pubblicato nel 2003 che ha valutato in modo prospettico la relazione tra eventi stressanti e rischio di ricadute, in pazienti con forma recidivante-remittente di sclerosi multipla, ha dimostrato che l’occorrenza di un ES si associava a un rischio doppio di riacutizzazioni, rispetto al gruppo di controllo, nelle 4 settimane successive all’evento [8]. Gli autori concludevano che le modificazioni funzionali dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, con il conseguente aumento delle concentrazioni ematiche degli ormoni glucocorticoidi (cortisolo) e del sistema simpatico indotte dallo stress, con maggior produzione di adrenalina e noradrenalina, potevano indurre infiammazione attraverso l’induzione di citochine pro-infiammatorie e l’attivazione di particolari subset di linfociti, in grado di aggredire le strutture nervose. Nei modelli animali di encefalite allergica sperimentale (EAE), malattia assimilabile alla sclerosi multipla umana, l’esposizione a condizioni di stress sembra in grado di determinare aumenti del cortisolo plasmatico, attraverso l’attivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene e la disregolazione del sistema immunitario, caratterizzata da un aumentato reclutamento di cellule linfocitarie di tipo T e B, ma anche di macrofagi e monociti, ad azione favorente l’infiammazione, e dalla produzione di sostanze denominate citochine, con azione proinfiammatoria, come l’interferon-γ (IFN-γ), l’interleuchina-17 (IL-17) e il TNFα (fattore di necrosi tumorale di tipo α). È stata inoltre descritta una ridotta funzionalità di cellule cosiddette regolatorie, di tipo linfocitario, definite Treg, che in condizioni fisiologiche controllano la proliferazione di cellule con azione infiammatoria e in grado di produrre citochine ad azione antinfiammatoria come l’interleuchina-10 (IL-10).

D’altra parte, è stato dimostrato come condizioni di stress cronico siano in grado di determinare riduzione delle risposte immunitarie e alterazioni disregolatorie dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, con minor responsività dei recettori periferici del cortisolo: questa condizione favorirebbe l’insorgenza di infezioni e l’attivazione, secondo alcuni ricercatori, dei meccanismi infiammatori responsabili delle riacutizzazioni di malattia in corso di sclerosi multipla. Pertanto, ES acuti indurrebbero nei pazienti con sclerosi multipla una disregolazione del sistema immunitario attraverso modificazioni di vari subset di cellule linfocitarie in senso proinfiammatorio; eventi stressanti cronici, d’altra parte, sarebbero responsabili di una riduzione delle concentrazioni ematiche di anticorpi e di una maggiore vulnerabilità agli agenti patogeni che favorirebbero l’insorgenza di infezioni correlate alle riacutizzazioni di malattia [9].

Conclusioni

La gran parte degli studi clinici evidenzia una relazione tra stress e sclerosi multipla, supportata da studi sia di risonanza magnetica (aumento del numero di lesioni nelle settimane successive a un evento stressante) sia di tipo immunologico (produzione di citochine favorenti l’infiammazione, attivazione del sistema immunitario) e ormonale (aumento delle concentrazioni ematiche di cortisolo di origine surrenalica). Tali dati suggeriscono in ultima analisi la necessità di attuare appropriate strategie di intervento psicologico e psicoterapico, al fine di favorire una capacità ottimale di adattamento del paziente di fronte alle problematiche legate alla malattia.

Consigli pratici

La sclerosi multipla è una malattia che ha un notevole impatto emotivo nella vita del paziente. Per far fronte alle problematiche che la malattia induce, i pazienti mettono in atto strategie diverse. Senza dubbio le strategie di coping di tipo attivo, consistenti sostanzialmente nell’affrontare il problema, cercare aiuto e supporto sociale, permettono un miglior adattamento rispetto alle strategie passive, caratterizzate da comportamenti di evitamento del problema che possono sfociare nel tempo in un quadro depressivo. Tutto quanto sopra esposto sottolinea l’importanza di una valutazione globale dei pazienti con sclerosi multipla, che dovrebbe comprendere la valutazione dei disturbi dell’umore, dei tratti di personalità e del funzionamento cognitivo. Orientare gli interventi terapeutici, sia farmacologici sia psicosociali, per migliorare la depressione e l’ansia e affrontare le difficoltà cognitive possono favorire l’utilizzo di adeguate strategie di coping e migliorare la QoL complessiva dei pazienti.

Source: Fondazione Serono SM


Latitudine, esposizione ai raggi solari e gravità della sclerosi multipla

Un gruppo internazionale di esperti, del quale hanno fatto parte anche specialisti italiani, ha eseguito uno studio per valutare la relazione fra la latitudine, l’esposizione ai raggi B ultravioletti e la gravità della sclerosi multipla. I risultati hanno indicato che, nelle aree del Mondo a clima temperato, la gravità della sclerosi multipla è correlata alla latitudine. 

A tutt’oggi non è stata identificata una singola causa dello sviluppo della sclerosi multipla e si ritiene che questa malattia si presenti per una concomitanza di fattori genetici e ambientali. Tra le condizioni favorenti la comparsa della sclerosi multipla sono da tempo oggetto di studio alcune infezioni virali, come la mononucleosi, l’esposizione ai raggi del sole e la concentrazione di vitamina D nell’organismo. La gravità del decorso della sclerosi multipla varia in maniera ampia da un soggetto all’altro, anche tale variabilità è condizionata da diversi fattori e la loro conoscenza di questi ultimi può essere utile per gestire al meglio la malattia. Per tale motivo, un gruppo internazionale di esperti ha eseguito una ricerca che ha avuto l’obiettivo di verificare le relazioni fra latitudine di residenza dei malati, esposizione ai raggi ultravioletti B e gravità della sclerosi multipla. I dati analizzati sono stati estratti dall’archivio denominato MSBase e sono stati inclusi soggetti che, fra il 2005 e il 2010, hanno ricevuto una diagnosi sclerosi multipla secondo i criteri di McDonald e che avevano una minima serie di dati disponibili. In particolare, per ciascun caso si doveva disporre di: data di nascita, sesso, sede del Centro di riferimento, data di comparsa del sintomo della sclerosi multipla, tipo di malattia alla comparsa e punteggio della EDSS ≥ 1. Per ciascun malato sono stati calcolati: la latitudine alla quale era localizzato il Centro di riferimento e l’esposizione annuale ai raggi ultravioletti alle età di 6 e di 18 anni e nell’anno in cui è stata valutata la disabilità. Per calcolare l’esposizione ai raggi ultravioletti si è fatto riferimento appunto alla latitudine del Centro e si sono impiegati i dati raccolti dallo spettrometro della NASA (l’Agenzia Spaziale Americana) che studia la distribuzione dell’ozono nell’atmosfera che circonda la terra. La latitudine, che si esprime in gradi e primi, è una variabile che indica la distanza di un punto della terra dall’equatore ed esiste una relazione fra la latitudine e l’esposizione ai raggi ultravioletti, poiché, quanto più ci si allontana dall’equatore, tanto più diminuisce l’esposizione a questi raggi. La gravità della malattia è stata definita in base al MS Severity Score (abbreviato in MSSS e traducibile in punteggio della gravità della sclerosi multipla). Si è impiegato un metodo statistico specifico per porre in relazione le variabili analizzate. Si sono raccolti i dati relativi a 453.208 visite di 46.128 malati di sclerosi multipla, per un totale di 351.196 soggetti-anno. La casistica era costituita per il 70% da femmine e aveva un’età media di 39.2 ± 12 anni. Il totale della popolazione risiedeva in latitudini comprese fra 19 gradi e 35 primi e 56 gradi e 16 primi. La latitudine si è associata alla gravità della malattia in maniera non lineare. Infatti, per tutte le latitudini superiori a 40 gradi, cioè per i malati residenti in aree più vicine alla parte nord della terra, il decorso più grave della sclerosi multipla si è correlato ai valori più elevati di latitudine (β = 0.08, intervallo di confidenza al 95% 0.04-0.12). Ciò significa, ad esempio, che, tra una persona residente a Madrid e una che viveva a Copenhagen, c’era una una differenza della gravità della sclerosi multipla di 1.3 punti dell’MSSS. Invece, una relazione di questo tipo non è stata confermata per i malati residenti in aree con latitudine inferiore a 40 gradi (β = – 0.02, intervallo di confidenza al 95% – 0.06-0.03). Inoltre, il raggiungimento del livello finale di disabilità è stato più veloce per i malati con una più bassa esposizione stimata ai raggi ultravioletti B prima dei 6 anni (β = – 0.5, intervallo di confidenza al 95% – 0.6-0.4) e prima dei 18 anni (β = – 0.6, intervallo di confidenza al 95% – 0.7-0.4). La stessa relazione, riguardo al raggiungimento del livello finale di disabilità, è stata confermata per una più bassa esposizione ai raggi ultravioletti B per tutta la vita precedente al momento in cui è stato definito il livello di disabilità (β = – 1.0, intervallo di confidenza al 95% – 1.1-0.9).

Nelle conclusioni gli autori hanno sottolineato che i risultati del loro studio hanno confermato un’associazione fra gravità della malattia e latitudine di residenza per gli abitanti delle zone temperate. Hanno aggiunto che questa relazione dipende principalmente, ma non esclusivamente, dall’esposizione ai raggi ultravioletti di tipo B e che questa contribuisce siaha condizionare il rischio di comparsa della sclerosi multipla sia a determinarne la gravità.

Per meglio interpretare le informazioni relative allo studio, si aggiunge che il territorio dell’Italia è compreso fra le latitudini di 47 gradi e 0.5 primi a nord e 35 gradi e 29 primi a sud. Ciò significa che solo in parte si trova al di sopra dei 40 gradi di latitudine. Inoltre, va considerato che i raggi ultravioletti di tipo B sono fondamentali per la sintesi della vitamina D, che gioca un ruolo importante nel funzionamento del sistema immunitario.

Source: Fondazione Serono SM


Sclerosi multipla e sistema immunitario

La sclerosi multipla è la più importante malattia infiammatoria autoimmune del giovane adulto, rappresentando la seconda causa di disabilità neurologica, tra i 20 e i 40 anni, dopo i traumi da incidenti stradali. Il reperto patologico peculiare è rappresentato dal riscontro di multiple aree di perdita di mielina (demielinizzazione) a livello del sistema nervoso, associata a infiltrati di cellule infiammatorie, quali macrofagi e linfociti, e perdita di neuroni. Dal punto di vista clinico è possibile un’ampia varietà di segni e sintomi quali alterazioni della motilità e della coordinazione motoria, della sensibilità, della vista e dei movimenti oculari, disturbi della sfera sessuale e urinari, perdita di memoria e turbe dell’attenzione, faticabilità e depressione. Nonostante l’enorme mole di studi e ricerche le cause della sclerosi multipla rimangono a tutt’oggi sconosciute. L’ipotesi più accreditata è che si tratti di una patologia multifattoriale in cui diversi fattori di natura genetica e ambientale contribuiscono a innescare una reazione autoimmunitaria rivolta contro costituenti della guaina mielinica, che riveste le fibre nervose, e delle cellule neurali. Le evidenze che supportano un coinvolgimento del sistema immunitario nei meccanismi di sviluppo della malattia derivano dai modelli sperimentali di sclerosi multipla, soprattutto animali, in cui l’inoculazione di alcuni virus o sostanze costituite da frammenti di mielina sono in grado di favorire l’insorgenza di un quadro di malattia molto simile alla sclerosi multipla umana, o dallo studio dei meccanismi d’azione dei trattamenti specifici per la malattia che, che com’è noto, agiscono modulando o sopprimendo il sistema immunitario.

È noto come la sclerosi multipla sia una patologia multifattoriale, al cui sviluppo contribuiscono fattori ambientali e genetici. Sono ormai datati gli studi sulla frequenza di malattia in coppie di gemelli con uno dei due fratelli affetti dalla malattia, o sul rischio di sviluppare la sclerosi multipla da parte dei familiari di primo grado di pazienti affetti, che fanno supporre l’intervento di fattori genetici. Non si tratta di una malattia ereditaria legata alla mutazione di un singolo gene, ma piuttosto di una patologia in cui diverse varianti genetiche possono contribuire ad aumentare il rischio individuale di esserne affetti. Tra i fattori ambientali che probabilmente hanno un ruolo nell’innescare i meccanismi patologici alla base della sclerosi multipla, i più noti sono sicuramente la pregressa infezione da virus di Epstein-Barr, responsabile della mononucleosi infettiva (malattia del bacio), soprattutto in età adolescenziale e i ridotti livelli ematici di vitamina D. Il tipo di diffusione geografica della malattia indica infatti uno stretto rapporto tra la frequenza della sclerosi multipla, la latitudine e le concentrazioni di vitamina D nel sangue dei pazienti. La prevalenza della sclerosi multipla aumenta in generale con la latitudine. Questa osservazione, confermata da molti, studi ha l’eccezione notevole della penisola italiana, dove la prevalenza sembra maggiore nelle regioni meridionali oltre che in Sardegna. Negli ultimi decenni il gradiente di latitudine si è attenuato soprattutto nell’emisfero settentrionale ma non in quello australe. Tra i fattori che caratterizzano le regioni a elevata latitudine vi è una minore quantità di ore di luce solare durante l’anno. Per tale motivo la possibile associazione tra luce solare e sviluppo di sclerosi multipla è stata indagata in molti studi. I livelli di vitamina D sono più bassi in coloro che vivono a latitudini più elevate; bassi valori di vitamina D prima della diagnosi di sclerosi multipla sono associati a un aumento del rischio di sviluppare la malattia.

Secondo l’ipotesi più accreditata, il meccanismo iniziale nello sviluppo della sclerosi multipla è rappresentato dalla comparsa in circolo di cellule del sistema immunitario del tipo linfocitario B e T, autoreattive, cioè in grado di riconoscere come non self alcuni costituenti della mielina e/o dei neuroni, e pertanto responsabili dell’attacco infiammatorio all’interno del sistema nervoso, dopo aver attraversato la barriera emato-encefalica e raggiunto il parenchima cerebrale. I meccanismi alla base del danno tissutale sono rappresentati dal progressivo reclutamento all’interno delle lesioni di ulteriori cellule infiammatorie, quali macrofagi e monociti con azione citotossica, e dalla produzione di sostanze denominate citochine, con azione proinfiammatoria, come l’interferone-γ (IFNgamma), l’interleuchina-17 (IL-17) e il TNFalfa (fattore di necrosi tumorale di tipo alfa). Nei pazienti affetti da sclerosi multipla è stata descritta, inoltre, una ridotta funzionalità di cellule cosiddette regolatorie di tipo linfocitario, definite Treg, che in condizioni fisiologiche controllano la proliferazione di cellule con azione proinfiammatoria e in grado di produrre citochine ad azione antinfiammatoria come l’interleuchina-10 (IL-10).

Negli ultimi anni si sono accumulate una serie di evidenze sperimentali che dimostrano un possibile ruolo dell’alimentazione e della flora batterica intestinale, denominata microbiota, nell’insorgenza e nello sviluppo della sclerosi multipla. Tale ipotesi, se confermata da ulteriori studi, potrebbe aprire la strada a nuovi e più specifici trattamenti. La flora batterica intestinale o microbiota è rappresentata da miliardi di microrganismi, di diverse specie e generi, che popolano le superfici del sistema gastroenterico, in uno stato di simbiosi, ovvero di convivenza e interazione, con reciproco vantaggio sia per l’organismo umano sia per le diverse specie di batteri presenti all’interno dell’intestino. La mucosa intestinale, con il suo microbiota composto prevalentemente da batteri, tra cui predominano specie denominate Firmicutes e Bacteroides, rappresenta un’ampia superficie di contatto tra l’organismo e l’ambiente esterno, fornendo uno stimolo continuo per il sistema immunitario e influenzandone le risposte specifiche; nel contempo l’organismo stabilisce una condizione di tolleranza cosiddetta immunologica nei confronti dei microrganismi ospiti, che ne impedisce l’eliminazione. È stato dimostrato che il sistema immunitario dell’uomo viene “educato” a livello intestinale e di conseguenza qualsiasi variazione che altera l’immunità a livello intestinale è in grado di influenzare la funzione di organi e tessuti anche lontani, sino allo sviluppo di patologie che possono colpire non soltanto il sistema gastroenterico, ma anche il sistema nervoso centrale e periferico (sclerosi multipla, polineuropatie infiammatorie), il pancreas (diabete mellito di tipo 1) o le articolazioni (artrite reumatoide). Questa attività sul sistema immunitario da parte della flora batterica intestinale si esplica attraverso il continuo stimolo alla differenziazione e proliferazione di cellule linfocitarie ad azione regolatoria tipo Treg, in grado di difenderci dagli agenti patogeni esterni o dallo sviluppo di malattie autoimmuni.

Gli studi sugli animali, in cui attraverso l’inoculazione di derivati della mielina è possibile sviluppare una malattia che assomiglia molto alla sclerosi multipla, denominata encefalomielite allergica sperimentale (EAE), hanno dimostrato un possibile ruolo del microbiota intestinale nello sviluppo della malattia nei modelli animali; sono stati infatti osservati una ridotta gravità o un esordio più tardivo di EAE nei topi cresciuti in assenza di microflora intestinale, e il ritorno alla suscettibilità allo sviluppo della stessa dopo il ripopolamento dell’intestino con diverse specie di microrganismi. La presenza della flora batterica intestinale è pertanto un prerequisito necessario per lo sviluppo dell’EAE e probabilmente anche per la sclerosi multipla. Inoltre la sterilizzazione della flora batterica attraverso la massiccia somministrazione di antibiotici si è dimostrata in grado di ridurre la gravità dell’EAE, attraverso la riduzione della concentrazione ematica e cerebrale di sostanze in grado di favorire i processi infiammatori (in particolare IL-17 e IFNgamma) e cellule linfocitarie capaci di distruggere la mielina all’interno del sistema nervoso centrale, denominate Th17.

Conclusioni

Sulla base delle evidenze sperimentali accumulate, condizioni di alterazioni dell’interazione tra batteri intestinali e organismo ospite, chiamate disbiosi, causate per esempio dalla modificazione selettiva di determinati microrganismi con sopravvento di alcuni batteri patogeni, potrebbero instaurarsi condizioni favorenti lo sviluppo di diverse malattie, tra cui la sclerosi multipla. È stato dimostrato che alcuni batteri dall’aspetto filamentoso, appartenenti alla specie dei “batteri filamentosi segmentati”, sarebbero in grado di stimolare la proliferazione di cellule linfocitarie ad azione favorente l’infiammazione come le Th17, a livello sia ematico sia cerebrale, e così favorire lo sviluppo della malattia; diversamente, altre specie batteriche appartenenti alla famiglia dei Bacteroides fragilis favorirebbero la proliferazione di cellule ad azione regolatoria, in grado di bloccare i processi infiammatori e impedire lo sviluppo della sclerosi multipla. Queste osservazioni sono tanto più importanti se consideriamo che i linfociti Th17 sono in grado di attraversare la barriera emato-encefalica e provocare, nei modelli animali di sclerosi multipla, il danno della mielina; inoltre le citochine da essi prodotti sono presenti in grande quantità nelle placche di demielinizzazione dei pazienti affetti da sclerosi multipla. Uno studio più recente ha analizzato la flora batterica intestinale di pazienti con sclerosi multipla in fase di ricaduta clinica di malattia, dimostrando una riduzione intestinale di batteri appartenenti alla specie Prevotella (in grado di determinare una riduzione della formazione di cellule infiammatorie Th17), e la presenza di due diversi ceppi di Streptococco (Streptococcus oralis e Streptococcus mitis), che solitamente risiedono nella cavità orale e sono in grado di favorire lo sviluppo di infiammazione.

Consigli pratici

La possibilità di manipolare la composizione del microbiota intestinale per influenzare l’equilibrio del sistema immunitario nei pazienti affetti da sclerosi multipla è estremamente affascinante e potrebbe aprire la strada a nuovi trattamenti. Attraverso l’utilizzo di alcuni probiotici, ovvero di integratori alimentari a base di microrganismi vivi, ad azione antinfiammatoria si potrebbe limitare il propagarsi della cascata di eventi infiammatori responsabili dei processi di demielinizzazione e degenerazione cellulare alla base della malattia. È importante, d’altra parte, mantenere una corretta alimentazione al fine di ostacolare il metabolismo e lo sviluppo delle specie batteriche patogene. Si stanno sempre più accumulando una serie di dati circa la capacità di alcune sostanze nutritive di modificare la flora batterica intestinale con effetti benefici sull’organismo, come ad esempio gli acidi grassi polinsaturi omega-3, contenuti nei pesci, nell’olio d’oliva e nella frutta secca che favoriscono, a livello intestinale, la proliferazione di microrganismi batterici capaci di produrre sostanze ad azione antinfiammatoria.

Source: Fondazione Serono SM


Relazione tra sesso e andamento nel tempo della sclerosi multipla

Autori danesi hanno eseguito uno studio per valutare l’effetto del sesso sull’attività della malattia e sull’accumulo di disabilità delle persone con sclerosi multipla. I risultati hanno indicato che nei due sessi evolvono in modo diverso infiammazione e neurodegenerazione e ciò si ripercuote sull’andamento clinico della malattia.

Magyari e Koch-Henriksen si sono posti l’obiettivo di verificare la presenza di differenze tra i due sessi dell’attività della malattia e della gravità della sclerosi multipla e di definire anche l’effetto del momento della comparsa della stessa e della sua durata sugli stessi aspetti. Il Registro Danese della sclerosi multipla ha previsto che tutti i cittadini di quel Paese nei quali una sclerosi multipla recidivante remittente era comparsa nel 1996 e che avevano ricevuto un trattamento modificante la malattia, venissero seguiti da allora con visite di controllo 1 o 2 volte l’anno, annotate nel Registro. I dati dello studio di Magyari e Koch-Henriksen sono stati attinti da tale archivio e il confronto tra maschi e femmine è stato fatto considerando la probabilità inversa di essere femmina; la frequenza di recidive e le modificazioni del punteggio della EDSS sono state analizzate con dei modelli lineari generali compensati e la regressione compensata di Cox è stata impiegata per definire il rapporto di rischio tra maschi e femmine riguardo ai diversi livelli di EDSS. Sono stati inclusi nell’analisi 3.028 maschi e 6.619 femmine. Il rapporto compensato di frequenza delle recidive, tra femmine e maschi, è stato di 1.16 (intervallo di confidenza al 95% 1.10-1.22), definendo un rischio maggiore del 16% per le donne, che però non si è osservato più dopo i 50 anni di età. L’aumento annuale del punteggio dell’EDSS è stato di 0.07 nei maschi (intervallo di confidenza al 95% 0.05-0.08) e di 0.05 nelle femmine (intervallo di confidenza al 95% 0.04-0.06), con una differenza statisticamente significativa tra i sessi (p=0.017). Prendendo le femmine come riferimento, il rapporto di rischio di raggiungere il punteggio di 4 dell’EDSS nei maschi è stato di 1.34 (intervallo di confidenza al 95% 1.23-1.45; p<0.001) e quello di arrivare a 6 di 1.43 (intervallo di confidenza al 95% 1.28-1.61; p<0.001). I risultati hanno anche indicato che il ritardo nella diagnosi non ha mostrato differenze tra i due sessi.

Nelle conclusioni gli autori hanno evidenziato che i risultati della loro ricerca hanno dimostrato che nelle femmine tende a esserci un’attività più intensa dell’infiammazione fino alla menopausa, per un verosimile effetto degli ormoni sessuali, e che ciò favorisce un maggior numero di recidive. Nei maschi tende a essere più grave la neurodegenerazione, specialmente dopo i 45 anni, e ciò peggiora l’evoluzione della disabilità.      

Source: Fondazione Serono SM