Vari gruppi italiani valutano l’impiego dell’esoscheletero nella sclerosi multipla

Molti esperti italiani hanno pubblicato risultati di studi e revisioni della letteratura sull’impiego dell’esoscheletro nella sclerosi multipla. Le evidenze raccolte sono incoraggianti, in quanto indicano che questi dispositivi potrebbero aiutare a compensare, in alcuni casi, la disabilità provocata dalla sclerosi multipla. 

Nel 2021 sono comparsi diversi articoli sull’impiego dell’esoscheletro nella sclerosi multipla, pubblicati da gruppi di specialisti italiani. In alcuni casi si è trattato di revisioni della letteratura, in altri di pubblicazioni che hanno riportato i risultati di ricerche fatte in questo campo. A marzo è comparso un articolo di Panizzolo e colleghi che ha riportato i risultati di un’esperienza fatta con un esoscheletro, che fornisce sostegno e assistenza alla deambulazione a persone con vari gradi di disabilità provocati da patologie neurodegenerative, come la sclerosi multipla, o da eventi acuti come l’ictus. Dieci adulti di età media 68.9 ± 9.2 anni hanno completato dieci sessioni di addestramento al cammino con un esoscheletro. I risultati hanno dimostrato che, nell’ultima sessione, i soggetti addestrati all’impiego dell’esoscheletro sono riusciti a percorrere una distanza significativamente più lunga, rispetto a quella coperta nella prima sessione: 453.1 ± 178.8 metri rispetto a 392.4 ± 135.1 metri. Panizzolo e colleghi hanno concluso che i risultati ottenuti erano indicativi della buona efficacia dell’esoscheletro da loro provato nel favorire la riabilitazione di malati con patologie neurologiche. In particolare, hanno evidenziato vantaggi come il basso costo e la leggerezza del dispositivo.

Ad aprile un gruppo di esperti di vari Centri italiani ha eseguito una revisione della letteratura, come parte di un progetto italiano sulla riabilitazione robotica denominato CICERONE, sviluppato dalla Società Italiana di Medicina Fisica e Riabilitativa. Bowman e colleghi hanno cercato in tutte le principali banche dati pubblicazioni sull’argomento. Da un’iniziale raccolta di 336 articoli, sono stati selezionati quelli che riportavano i risultati di 12 studi sull’addestramento al cammino assistito da robot con l’utilizzo di esoscheletri. In queste ricerche il numero delle sessioni di utilizzo dei dispositivi era variato da 6 a 40, distribuite in un periodo compreso fra 2 e 5 settimane e con una rilevante variabilità in termini di livello di disabilità dei partecipanti. Tutti gli esoscheletri erano combinati con sostegni del peso corporeo e il livello di assistenza al movimento era variata dallo 0 al 100%, a seconda della gravità della disabilità. La velocità di cammino, programmata in base alle capacità dei malati, è variata da 1.3 a 1.8 chilometri per ora. In 7 studi su 12 l’addestramento al cammino assistito da robot è stato proposto come parte di un programma di riabilitazione più complesso o in associazione all’approccio abituale di fisioterapia. I risultati hanno dimostrato un effetto positivo dell’addestramento al cammino assistito da robot, raggiungendo una differenza clinicamente rilevante nel migliorare vari parametri che misurano la capacità di camminare delle persone con sclerosi multipla. Nelle conclusioni Bowman e colleghi hanno evidenziato che, dall’analisi della letteratura, era emerso che, nei programmi di riabilitazione robotica al cammino, erano quasi sempre stati utilizzati esoscheletri e che tali dispositivi avevano migliorato, in maniera clinicamente significativa, il bilanciamento e il cammino. Sulla base di queste evidenze e considerando i vantaggi in termini di sicurezza e di facilità di utilizzo, gli autori hanno auspicato la diffusione della riabilitazione robotica al cammino per le persone con disabilità grave.

A maggio del 2021 Gandolfi e colleghi hanno pubblicato un articolo che ha analizzato la letteratura sull’impiego dei dispositivi elettromeccanici e dei robot nella riabilitazione neurologica. Anche questa valutazione degli articoli pubblicati ha fatto parte del progetto CICERONE. Gli autori hanno analizzato 316 articoli, dei quali più della metà (52%) riportava risultati di studi clinici randomizzati. Le casistiche nelle quali erano stati eseguiti erano di persone con precedenti ictus o con danni al midollo spinale o con sclerosi multipla, paralisi cerebrale o danni traumatici al cervello. Nelle ricerche era stato descritto un totale di 100 dispositivi che, nella maggior parte dei casi, erano esoscheletri mirati a supportare il movimento delle gambe. Nelle conclusioni dell’analisi gli autori hanno evidenziato che molti dei dispositivi non avevano il marchio “CE” e questo faceva mancare un elemento fondamentale per l’interpretazione dei risultati degli studi nei quali erano stati valutati. Gli autori della revisione hanno anche raccomandato l’esecuzione di ricerche di qualità più elevata.

Nel mese di giugno 2021 autori italiani hanno pubblicato i risultati di uno studio nel quale hanno valutato gli effetti della riabilitazione assistita da esoscheletro sull’attività dei neuroni della corteccia prefrontale misurata con la risonanza magnetica funzionale. Sulpizio e colleghi hanno studiato due gruppi di malati di sclerosi multipla sottoposti a 6 settimane di riabilitazione. Un gruppo ha seguito un protocollo di fisioterapia tradizionale e un altro ha impiegato un esoscheletro durante gli esercizi previsti dal protocollo. I risultati hanno indicato che, al termine del ciclo di fisioterapia, il gruppo che aveva impiegato l’esoscheletro mostrava un’attività significativamente minore di un’area del cervello denominata giro frontale inferiore. Gli autori hanno interpretato questo riscontro come un miglioramento, in quanto indicativo di ritorno allo stato di normalità, tant’è vero che si è arrivati a un livello di attività simile a quella rilevata in soggetti sani di controllo. Sulpizio e colleghi hanno quindi concluso che l’impiego dell’esoscheletro durante la riabilitazione ha normalizzato l’attività dei neuroni dell’area prefrontale, rispetto all’eccesso di attività che si osserva nella sclerosi multipla.

Nello stesso mese di giugno è comparsa un’altra pubblicazione di specialisti italiani, che ha valutato l’effetto di un esoscheletro robotizzato nel migliorare cammino e bilanciamento in malati di sclerosi multipla. Si è trattato di uno studio retrospettivo, nel quale sono stati arruolati 20 soggetti con età media 43.7 ± 10.3 anni e, per il 66.7%, di sesso maschile. Sono stati divisi in due gruppi equiparabili per età, sesso e caratteristiche cliniche, ma che differivano per il tipo di addestramento alla riabilitazione. Nel gruppo che ha usato l’esoscheletro c’è stato un significativo miglioramento della capacità di camminare e del bilanciamento (prova del cammino di 10 metri; p=0.002), della mobilità (prova “in piedi e cammino” a tempo; p=0.002) e nella percezione del benessere mentale (prova MSQoL-M; p=0.004). Il tutto accompagnato da una buona capacità di impiego e da una buona accettazione del dispositivo. Commentando le evidenze raccolte, Russo e colleghi hanno evidenziato l’efficacia dell’esoscheletro nel migliorare le capacità funzionali dei malati di sclerosi multipla e nel supportarli per il raggiungimento degli obiettivi terapeutici.

A settembre del 2021, oltre all’articolo trattato nell’aggiornamento “Impiego dell’esoscheletro in un malato di sclerosi multipla” è stata pubblicata una nuova revisione della letteratura, anch’essa fatta nell’ambito del progetto CICERONE sulla riabilitazione robotica. L’obiettivo è stato raccogliere evidenze sull’efficacia della riabilitazione robotica nella disabilità degli arti inferiori dei malati di sclerosi multipla. Nei maggiori archivi di articoli scientifici sono state cercate pubblicazioni, comparse fra il 2010 e il 2020, che riportassero i risultati di studi clinici randomizzati e ricerche pilota nei quali erano stati impiegati dispositivi robotici. Il robot è stato definito come “un manipolatore riprogrammabile e multifunzionale progettato per muovere parti o dispositivi allo scopo di svolgere funzioni”. Dopo una selezione accurata, solo 17 articoli sono stati analizzati nella revisione, la maggior parte di essi riguardava l’uso dello stesso tipo di esoscheletro. Si è rilevato che, in termini generali, l’approccio robotico ha fornito vantaggi riguardo alla velocità del cammino, alla resistenza allo stesso e al bilanciamento, rispetto ad approcci di riabilitazione convenzionali. La riabilitazione robotica con esoscheletro ha prodotto risultati migliori sulla funzionalità dei malati di sclerosi multipla, in particolare di quelli che erano più gravi, con EDSS superiore a 6. Da notare che, in questi soggetti, oltre al miglioramento della capacità di muoversi, ci sono state anche riduzioni di astenia, spasticità e dolore e miglioramenti di benessere psicologico e qualità di vita. Calabrò e colleghi hanno concluso che i risultati della loro revisione della letteratura confermavano il potenziale positivo della riabilitazione robotica con esoscheletro nel migliorare la funzionalità dei malati di sclerosi multipla.

La pubblicazione di tanti articoli sull’uso dell’esoscheletro e sull’applicazione della riabilitazione robotica nei malati di sclerosi multipla testimonia l’interesse degli specialisti per questi dispositivi e fa sperare che, in futuro, molte persone affette da questa malattia, e in particolare quelle con le forme progressive, potranno avere a disposizione un importante ausilio per contrastare la disabilità che essa provoca.                               

Source: Fondazione Serono SM


I genitori di fronte alla diagnosi del figlio

Nel seguente articolo affronterò il tema della sclerosi multipla di un figlio inserito ancora all’interno della propria famiglia di origine: la diagnosi di sclerosi multipla, oltre che impattare psicologicamente sul giovane paziente, si ripercuote inevitabilmente su tutti altri membri della famiglia sulla sfera sia emotiva sia pratico-organizzativa (in particolar modo nei rari casi in cui la malattia determina condizioni più invalidanti nel giovane paziente).

L’argomento che tratterò è certamente molto delicato e l’articolo non può essere considerato esaustivo rispetto all’eterogeneità delle situazioni di vita e alle implicazioni della sclerosi multipla che vanno dunque considerate uniche e specifiche per ogni soggetto e per ogni famiglia. Tuttavia, cercherò di delineare possibili ricorrenze che possono delinearsi nel percorso della malattia. La teoria psicologica di indirizzo sistemico-relazionale rappresenta la mia cornice di pensiero che nel lavoro mi orienta a guardare alla complessità e a considerare il singolo individuo all’interno del suo mondo sia intrapersonale sia interpersonale. Anche l’esperienza quasi decennale mi offre spunti di pensiero e riflessione. Infatti ho effettuato consultazioni psicologiche a genitori di giovani pazienti con sclerosi multipla (adolescenti e giovani adulti) neo-diagnosticati, il cui disorientamento e la cui paura rendevano necessario il supporto psicologico genitoriale.

Attingendo alla letteratura psicologica come pure ai diversi articoli sulla sclerosi multipla (alcuni dei quali consultabili sul sito di AISM), procederò a sviluppare il seguente articolo considerando la sclerosi multipla di un giovane soggetto inserito nel nucleo familiare, scelta che mi permette di focalizzarmi in maniera più puntuale sulle reazioni individuali e familiari dei genitori e del figlio di fronte alla diagnosi e alla prospettiva di qualità di vita pensata/temuta rispetto alla condizione di malattia cronica in età giovanile.

In linea generale, secondo l’approccio sistemico-relazionale le famiglie non sono statiche, ma interconnesse e interdipendenti: pertanto nel sistema ciò che accade a un singolo elemento influenza tutti gli altri componenti. Lungo il ciclo vitale le famiglie sono chiamate ad affrontare diverse “crisi evolutive” molte delle quali fisiologiche (ad es., nascita, uscita del figlio dal nido familiare ecc.), altre inattese e dolorose per cui fortemente destabilizzanti e stressanti come rappresenta la diagnosi di una malattia cronica. Gli autori Blangiardo e Scabini definiscono il ciclo della vita familiare come “una successione di fasi, delimitate da alcuni eventi tipici, che introducono, nel corso della vita del soggetto famiglia, significative trasformazioni di ordine strutturale, organizzativo, relazionale, psicologico”. Alcuni di questi eventi stressanti producono cambiamenti temporanei, che, sebbene determinino tensioni e modifiche, permettono al sistema di ritornare allo stato iniziale. Altri eventi critici, invece, producono cambiamenti permanenti dai molteplici risvolti a seconda dell’intensità e della tipologia del cambiamento apportato.

Nel corso del ciclo vitale familiare la sclerosi multipla rappresenta un evento stressante paranormativo, non prevedibile e non scelto, che produce un cambiamento permanente, anche soltanto in termini di percezione di sé e del familiare con sclerosi multipla. Alla malattia cronica le persone attribuiscono un personale significato che pertanto determinerà a sua volta un diverso impatto psicologico sulla vita e sullo sviluppo familiare nonché un diverso modo con cui la malattia sarà pensata e gestita.

Inoltre, specie quando la malattia si esprime nelle forme più gravi e invalidanti, la famiglia per riuscire ad adattarsi e rispondere all’evento inatteso deve riuscire a trovare nuovi equilibri e saper attivare risorse esterne che possiamo identificare nella famiglia estesa come pure nella rete sociale sia informale (ad es., amici, vicini) che formale (ad es., istituzioni, datore di lavoro ecc.). Certamente gli sforzi della famiglia di gestire la malattia non possono essere visti come un processo omogeneo e coerente, ma piuttosto come la somma di tentativi individuali, a volte conflittuali, di far fronte a essa. D’altro canto esistono diverse tipologie di famiglie, caratterizzate da diverse condizioni socio-psicologiche-sociali e da diverse modalità di reazione: i tentativi sono dettati da caratteristiche personali, da capacità di adattamento, dai bisogni dell’età di ogni individuo. È possibile, pertanto, considerare come la complessità della sclerosi multipla si associ anche ad alcuni fattori della realtà familiare, come ad esempio i sistemi di valori e credenze, la percezione di “perdita”, vissuti di colpa e di vergogna. Le difese dal dolore e dallo stress, inoltre, sono connesse all’organizzazione difensiva di ognuno: Anna Maria Sorrentino afferma che è possibile “considerare l’evento stressante un rilevatore delle organizzazioni di personalità e un potenziatore delle loro modalità di ricercare equilibri relazionali”.

Dal punto di vista psicologico è importante anche considerare in quale fase del ciclo vitale esordisce la malattia cronica, poiché a questo si legano altri fattori che ne determineranno l’impatto, ad esempio l’età del soggetto in cui la malattia esordisce con i rispettivi compiti di sviluppo che deve affrontare. L’esperienza di fronte alla diagnosi è peculiare per i genitori e per il figlio se il momento di insorgenza della sclerosi multipla di quest’ultimo è durante l’adolescenza. Infatti, quest’ultima è una fase in cui l’identità è ancora in fase di costruzione, il bisogno di indipendenza è forte in contraddizione ai vissuti di vulnerabilità che sollecitano bisogni di dipendenza, l’immagine sociale di sé risente del sistema culturale e gruppale tra pari. Invece l’insorgenza nella prima età adulta trova una struttura identitaria più solida con progetti di vita avviati che incontrano nella malattia vissuti di impedimento sia pure frammentario e paure di dover rinunciare ai propri obiettivi di vita.

Nel caso in cui la sclerosi multipla venga diagnostica a un figlio, i familiari sperimentano reazioni analoghe a quelle del figlio ovvero confusione, senso di irrealtà, ansia, rabbia, tristezza e senso di ingiustizia. I genitori di pazienti che non hanno compiuto la maggiore età ricevono per primi la comunicazione di diagnosi e quindi sono chiamati a dover gestire un duplice compito con conseguente carico emotivo: da una parte devono elaborare e contenere le proprie emozioni rispetto alla diagnosi del figlio, dall’altra si trovano tra la paura, la necessità e le richieste esplicite o implicite del figlio rispetto a visite neurologiche, esami diagnostici ed eventuali terapie farmacologiche. Inoltre, per i genitori si avvia il processo di elaborazione “del lutto” per le speranze e aspirazioni investite sul figlio. Proprio per questo la diagnosi rappresenta “uno spartiacque” tra un prima e un dopo.

Dal punto di vista familiare può succedere che la diagnosi e la decisione/gestione della comunicazione di questa al figlio possano determinare tensioni e incomprensioni all’interno della coppia genitoriale come pure indurre sensi di colpa e ferita narcisistica. Gli stili rispetto alla gestione della situazione possono quindi determinare conflitti all’interno del sistema genitoriale, impattando sui preesistenti equilibri interni. Di fronte alla diagnosi del figlio (bambino, adolescente o giovane adulto ancora inserito all’interno della famiglia di origine) si apre per la famiglia una fase caratterizzata da un periodo di riorganizzazione del sistema. Nel caso in cui nel sistema famiglia fossero presenti, prima della diagnosi, disfunzioni organizzative, si rende necessario un intervento terapeutico che faciliti una riorganizzazione più funzionale e l’attivazione di risorse interne e di atteggiamenti più adeguati per il benessere del singolo e del gruppo famiglia.

La scelta e la modalità delle informazioni e lo stile comunicativo diventano un momento particolarmente cruciale sia per i genitori sia per il figlio, tale da essere gestiti insieme all’équipe curante. Pur spettando la decisione ai genitori, nel rispetto del sistema dei loro valori e delle loro credenze, è importante che la comunicazione avvenga nei tempi e nei modi affini allo stato emotivo di ciascuno al fine di rendere meno traumatica la consegna della stessa. Alla paura dei genitori di mettere a conoscenza il figlio della malattia si associa talvolta la necessità di dare congrue informazioni in presenza di sintomi che interferiscono con le attività e in terapie farmacologiche. L’atteggiamento di negazione potrebbe proteggere se stessi e il figlio da una dolorosa realtà, al tempo stesso potrebbe però generare nel ragazzo ansie e smarrimenti per ciò che si percepisce come “non dicibile” e quindi terribile. Non deve essere dimenticato, inoltre, che oggi i ragazzi possono accedere a molte informazioni attraverso i sistemi informatici e, dunque, trovare da soli risposte alle proprie domande ma in un modo non contenitivo e non sempre comprensibile.

Al di là che il figlio sia in età pediatrica o adolescenziale, il percepire che qualcosa sta accadendo ma non viene detto può inficiare il rapporto di fiducia tra lui e il genitore su più livelli, può aumentare livelli di ansia e preoccupazione, può avere effetti sull’aderenza alla terapia, può avere ripercussioni sul benessere individuale e familiare presente e futuro.

Il supporto psicologico può rendersi necessario anche in questi momenti di blocco emotivo e decisionale dei genitori, anche se non sempre è risolutivo per le forti resistenze individuali e/o per le divergenze tra i due genitori. Il lavoro di consulenza è quello di esplorare i significati individuali, i vissuti dei singoli soggetti e orientarli verso la possibilità di trovare insieme “cosa dire ai figlio” a seconda della sua età, dare le indicazioni essenziali e pertinenti alla sua condizione senza tendere all’iper-informazione non necessaria e che comunque potrebbe prospettare improbabili e angoscianti scenari.

Come evento perturbante è possibile che la diagnosi di sclerosi multipla del giovane soggetto induca cambiamenti di ruolo del genitore e verso il genitore a favore di un rapporto regressivo tra i soggetti basato sulla dipendenza, anche quando non fisiologica per età e status sociale né tantomeno necessaria.

Nel caso di un paziente giovane adultoè possibile che determinati bisogni rendano necessario l’affidarsi ai genitori (secondo la richiesta di un aiuto parziale all’interno delle attività giornaliere oppure secondo un’assistenza più importante e continuativa). È possibile che i genitori, coerentemente a quanto espresso in letteratura (ovvero che a uno stretto grado di parentela corrisponda un maggior senso di responsabilità e di impegno nella cura) assumeranno il ruolo di caregiver (coloro che offrono assistenza). Rispetto al processo di elaborazione della diagnosi di sclerosi multipla, mai del tutto definitivo, è indispensabile che tutte le persone coinvolte siano equipaggiate di conoscenze specifiche e siano “attrezzate” delle conoscenze necessarie per la buona presa in carico del parente.

Questa condizione può risultare delicata e, se non ben gestita, può innescare problematiche relazionali tra il paziente e i genitori. Infatti la consapevolezza di dipendenza può inficiare l’autostima del giovane paziente attivando sensi di ansia e rabbia. Al tempo stesso i genitori, spinti da alti livelli di ansia e sensi di colpa, possono attivare modalità iperprotettive che finiscono per intensificare i vissuti del paziente secondo un circolo vizioso autoperpetuantesi.

È importante che la comunicazione tra il giovane paziente adulto con sclerosi multipla e i genitori sia aperta, flessibile e onesta da parte di ogni membro della famiglia. Ciò significa che ognuno potrà esprimere i propri bisogni rispettando quelli degli altri in un processo di crescita personale delle condizioni. In alcuni casi la malattia può trasformarsi in tabù di cui nessuno vuole parlare apertamente (prevale la paura di provocare dolore nell’altro), in altri essa diventa il perno attorno a cui ruota tutto il resto (la quotidianità, le abitudini, i pensieri, le decisioni per il futuro e col passare del tempo può aumentare l’insoddisfazione personale e familiare).

In ogni caso sarebbe importante assicurare un supporto che renda meno patologizzante la malattia stessa. La relazione con il figlio con sclerosi multipla deve essere rinegoziata per non restare invischiata in un modello limitante e poter riorganizzare le proprie dinamiche in modo da non cristallizzarsi secondo confini, funzioni e ruoli, condizione che nel tempo può compromettere la possibilità di individualizzazione e separazione del familiare con sclerosi multipla a svantaggio di un suo sviluppo affettivo e relazionale.

Certamente per i genitori non è facile interpretare i silenzi del figlio, sollecitare un dialogo o semplicemente tenersi in disparte, perciò possono aver bisogno di un contenimento per non diventare il bersaglio della rabbia e della frustrazione del figlio.

I compiti/suggerimenti possono essere così declinati:

  • dare tempo e spazio per riadattarsi, sostenere e appoggiare senza giudizi;
  • sostenere l’autonomia e la vita sociale anche ricorrendo agli ausili, confinando le proprie ansie, mantenendo un atteggiamento di apertura e di condivisione;
  • supportare il figlio nelle scelte consapevoli basate sul dialogo con gli esperti;
  • aiutare nella ricerca di informazioni corrette in merito ai diritti, le agevolazioni disponibili e le opportunità a tutela del lavoro di persone con sclerosi multipla;
  • favorire una comunicazione aperta e la condivisione; reazioni di rifiuto possono essere interpretate come indifferenza e distanza.

Pertanto i genitori hanno bisogno di approdare nella stanza dello Psicologo con la possibilità di parlare dell’evento traumatico, esplorare angosce e paure rispetto al futuro del figlio, esprimere le aspettative, anche quelle irrazionali, e inevitabili vissuti di dolore, rabbia e sensi di colpa. Il colloquio psicologico permette anche di elaborare l’esperienza di malattia del figlio e di inserirla all’interno della loro storia individuale e di coppia. Il dolore per un figlio è un fatto privato e intimo, ma che certamente si configura come evento familiare, collegato alla continuità emotiva e biologica, e come evento culturale che riguarda valori e simboli del gruppo sociale cui appartiene.

Il lavoro dello Psicologo deve tener conto di tutti gli aspetti sopra indicati con l’obiettivo di progettare un intervento efficace. Lo specialista, dunque, deve lavorare su più livelli tenendo conto dell’età del soggetto con sclerosi multipla come pure delle caratteristiche del sistema familiare e nello specifico, se consentito, del giovane paziente, favorire nella famiglia l’assorbimento del trauma individuale e familiare, dare attenzione allo stato di benessere psicofisico del familiare, prestare attenzione e cura a fratelli/sorelle, per prevenire ulteriori malesseri e disagi psicologici.

Talvolta dalla consultazione psicologica emerge la necessità di inviare la famiglia a un trattamento più continuativo e strutturato qual è il trattamento psicoterapeutico. Questo può risultare importante ad esempio per quei genitori che hanno alle spalle lutti complessi e non risolti o che hanno interrotto relazioni con la famiglia di origine. Il lavoro permette allora di ripercorre le storie di ogni genitore, anche in presenza del giovane paziente all’interno di sedute di psicoterapia familiare, comprendere il dolore di oggi in base alle storie di ieri per orientarsi poi nel futuro secondo possibilità e risorse accessibili. La psicoterapia familiare può essere particolarmente adatta nei seguenti casi: quando programmare diventa difficile e c’è pertanto un continuo bisogno di flessibilità davanti al manifestarsi di ogni nuovo sintomo o cambiamento delle capacità funzionali; quando si devono distribuire in modo appropriato tra tutti i familiari le risorse in termini di tempo, energie, emozioni; quando, infine, è necessario un riadattamento davanti alla rottura del ritmo familiare con conseguente modificazione dei ruoli preesistenti e un cambiamento nell’interazione e nella comunicazione tra i componenti familiari a favore del benessere di ogni singolo componente.

Accanto alla psicoterapia familiare è chiaramente di valido aiuto la psicoterapia individuale per il paziente giovane in fase adolescenziale e giovanile per poter elaborare i suoi vissuti, ristrutturare modelli comportamentali e relazionali a favore di una maggiore consapevolezza e integrità di sé e della malattia, attivando risorse interne ed esterne a sé e alla sua famiglia a vantaggio della qualità di vita, raggiungendo migliori livelli di affermazione in progetti personali e lavorativi.

Source: Fondazione Serono SM


Il punto sulla gestione della sclerosi multipla recidivante remittente e quella primariamente progressiva

Dal 3 al 7 ottobre 2021 si è svolto il Congresso Mondiale di Neurologia, congiuntamente a quello della Società Italiana di Neurologia. L’evento avrebbe dovuto tenersi a Roma, ma si è svolto in forma virtuale. Nell’ambito del Convegno ci sono state sessioni dedicate alla sclerosi multipla e, in particolare, una ha fatto il punto sulla gestione della forma recidivante remittente e di quella primariamente progressiva.

Giancarlo Comi, Professore Onorario di Neurologia dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, ha fatto il punto sulla gestione della sclerosi multipla recidivante remittente. Ha iniziato la sua lettura enfatizzando l’importanza di un inizio precoce del trattamento di questa forma di sclerosi multipla, ma senza tralasciare le riserve di alcuni riguardo a questo approccio. Ha spiegato come la terapia debba essere comunque personalizzata, facendo riferimento alla prognosi di ciascun malato, alla previsione di risposta alla cura, all’identificazione tempestiva di un’eventuale efficacia insufficiente del trattamento, per aggiornare la prognosi e reimpostare il protocollo di cura. Ha quindi descritto l’evoluzione della terapia farmacologica, a partire dalla fine degli anni ’90, quando iniziarono le ricerche sugli interferoni, per arrivare ai farmaci introdotti in anni recenti, come ocrelizumab, alemtuzumab e cladribina, e chiudere con quelli in sperimentazione nel 2021, come l’ozanimod, il ponesimod e l’ofatumumab. Il relatore ha mostrato una tabella che, per ciascuna cura, ha riassunto gli effetti su: probabilità di comparsa delle recidive, evoluzione della disabilità, sviluppo di lesioni attive e atrofia cerebrale e tollerabilità. Ha segnalato che le molecole più recenti, se da una parte hanno permesso di raggiungere risultati terapeutici precedentemente fuori portata, dall’altra hanno creato nuovi problemi dal punto di vista della tollerabilità. Giancarlo Comi ha sottolineato che, se gli studi clinici eseguiti con metodi rigorosi sono indispensabili per registrare un nuovo farmaco, essi lasciano aperti alcuni quesiti, ai quali possono rispondere le ricerche osservazionali oggi definite “da mondo reale”. Ha anche proposto alcuni percorsi utili a definire il migliore approccio terapeutico.

Xavier Montalban, Direttore del Centro della sclerosi multipla dell’Ospedale Val d’Hebron di Barcellona (Spagna), ha fatto il punto sulle più recenti acquisizioni relative alle forme progressive di sclerosi multipla. Innanzitutto, ha descritto i meccanismi che provocano i danni caratteristici di queste forme. Ha inoltre precisato che, su 2.300.000 casi nel Mondo di sclerosi multipla, il 15% si è presentato fin dall’inizio in forma progressiva e il 70% è iniziato come recidivante remittente, per poi diventare progressivo. Circa gli strumenti per contrastare l’evoluzione delle forme progressive, ha citato interventi su abitudini di vita, come dieta e fumo e ha elencato i farmaci che hanno già ricevuto l’indicazione specifica e quelli in corso di valutazione. Tra questi ha citato il siponimod, la simvastatina ad alte dosi, la clemastina e l’acido lipoico. Riguardo al trapianto di cellule staminali, ha spiegato che, nonostante i progressi fatti e i risultati incoraggianti ottenuti, sono necessarie ulteriori ricerche, su più ampie casistiche, per confermarne efficacia e tollerabilità di questo approccio. Infine, illustrando ciò che gli esperti si aspettano in futuro, circa le forme progressive della sclerosi multipla ha elencato i seguenti punti:

  • la sua incidenza aumenterà costantemente
  • la diagnosi sarà più facile e precisa
  • la ricerca degli autoanticorpi giocherà un ruolo sempre più rilevante
  • la prognosi diventerà più accurata
  • le cure saranno più precoci ed efficaci
  • si applicheranno strategie di prevenzione                          
  • si utilizzeranno le evidenze della risonanza magnetica per gli studi di fase 2
  • la classificazione dei fenotipi cambierà e si utilizzerà la telemedicina

Al Congresso Mondiale di Neurologia la sclerosi multipla ha avuto il giusto spazio. Giancarlo Comi e Xavier Montalban hanno descritto gli scenari attuali e quelli futuri delle forme recidivante remittente e progressive della sclerosi multipla. 

Source: Fondazione Serono SM


Vaccinazione anti-COVID-19 nelle persone con Sclerosi Multipla: Indicazioni preliminari sulla somministrazione della terza dose

Nell’ambito del documento dell’Associazione Italiana Sclerosi Multipla (ASIM) e la Società Italiana di Neurologia (SIN) sulle raccomandazioni per quanto riguarda il Covid-19 per le persone con la Sclerosi Multipla, è stata aggiunta una sezione con indicazioni preliminari sulla somministrazione delle terza dose di vaccinazione anti-Covid-19.

Il ministero della Salute con circolare numero 41416 del 14 settembre fornisce indicazione alla somministrazione di dose addizionale di vaccino anti SARS-CoV2 (dose aggiuntiva di vaccino somministrato al fine di raggiungere un adeguato livello di risposta immunitaria) ai pazienti con immunodeficienza secondaria a trattamento farmacologico. Tale dose addizionale va somministrata dopo almeno 28 giorni dall’ultima dose di vaccino anti SARS-CoV2.
Si ritiene che per le persone con sclerosi multipla che al momento del primo ciclo vaccinale assumevano o successivamente abbiano assunto Ocrelizumab, Rituximab, Ofatumumab, Fingolimod, Ozanimod, Siponimod, Alemtuzumab, Cladribina, Ciclofosfamide, Mitoxantrone, Azatioprina, altri farmaci marcatamente linfopenizzanti o che siano stati sottoposti a trapianto autologo di cellule staminali sia raccomandabile usufruire di tale possibilità.
E’ raccomandabile peraltro sottoporre a dose addizionale i pazienti in trattamento con altri agenti potenzialmente linfopenizzanti, quali per esempio Dimetilfumarato e Teriflunamide, che al momento della somministrazione delle prime due dosi di vaccino o successivamente abbiano presentato una linfopenia di grado II o superiore (<800/mm3).

A giudizio clinico, la dose addizionale può essere considerata nei pazienti che abbiano ricevuto il ciclo di vaccinazione primario a meno di un mese di distanza da ciclo di terapia steroidea endovenosa ad alta dose.

Nella medesima circolare il ministero della salute fornisce indicazione alla somministrazione di dose booster di vaccino anti SARS-CoV2 (dose di richiamo somministrata al fine di mantenere nel tempo un adeguato livello di risposta immunitaria) a pazienti considerati ad alto rischio per condizioni di fragilità che si associano allo sviluppo di COVID 19 severo. Tale dose booster può essere somministrata dopo almeno 6 mesi dall’ultima dose. In questa categoria rientrano le persone con sclerosi multipla in trattamento con dimetilfumarato e teriflunomide (salvo le specifiche sopra riportate), natalizumab, interferoni, glatiramer acetato e glatiramoidi, nonché le persone con sclerosi multipla non in trattamento con farmaci modificanti il decorso di malattia. La dose booster va offerta, ovviamente con priorità, a tutti i pazienti candidati alla dose addizionale di vaccino che non abbiamo potuto usufruirne.

La tempistica di somministrazione della terza dose di vaccino in relazione al trattamento farmacologico in corso segue le raccomandazioni riportate nei precedente aggiornamento. E’ tuttavia opportuno condividere con il proprio neurologo curante possibili variazioni di tale tempistica in relazione allo stato della pandemia o in caso di sclerosi multipla ad alta attività e rischio di rapido peggioramento.

Indipendentemente dal vaccino utilizzato per il ciclo primario, considerate le indicazioni fornite dalla commissione tecnico scientifica di AIFA, sarà possibile utilizzare come terza dose uno qualsiasi dei due vaccini a mRNA (Pfizer-BioNTech mRNABNT162b2 e Moderna mRNA-1273).

Source: Fondazione Serono SM


Sindrome combinata di demielinizzazione centrale e periferica

Con il termine di sindrome combinata di demielinizzazione centrale e periferica (CCPD) si definisce una condizione patologica caratterizzata da lesioni multiple di tipo demielinizzante, sia a livello del sistema nervoso centrale (encefalo e midollo spinale) sia a livello dei nervi periferici. Si tratta di pazienti che sviluppano un quadro neurologico simile alla sclerosi multipla e nel contempo presentano segni e sintomi di interessamento multiplo dei nervi periferici, con quadri clinici che evocano la diagnosi di neuropatia infiammatoria cronica demielinizzante, più nota come CIDP. In un primo momento si pensava che la coesistenza delle due patologie, sclerosi multipla e CIDP, nello stesso paziente potesse essere legata a un fatto casuale, ma successivamente, sulla base della diversa frequenza delle due malattie nella popolazione generale, nonché del riscontro di sintomi atipici, è stata riconosciuta come entità clinica distinta e mediata da meccanismi patogenetici comuni.

La sindrome combinata di demielinizzazione centrale e periferica, anche nota con l’acronimo CCPD (combined central and peripheral demyelination) è una condizione patologica rara e definita grazie alla pubblicazione prevalente di singoli casi (case report) e piccole serie di pazienti. Di solito i sintomi iniziano dopo una banale infezione, sotto forma di formicolii e sensazione di addormentamento in uno o più arti, debolezza muscolare, riduzione della vista o difficoltà nella deambulazione. In alcuni pazienti l’interessamento sensitivo e/o motorio può prevalere ai 4 arti o agli arti inferiori, così da evocare i quadri clinici più conosciuti di polineuropatia acuta, con interessamento sincrono e simmetrico dei nervi periferici, come nel caso della sindrome di Guillain-Barrè (forma di polineuropatia infiammatoria acuta demielinizzante) o della polineuropatia cronica demielinizzante disimmune (CIDP).Contemporaneamente o in successione, nel decorso clinico di questi pazienti, possono rilevarsi segni e/o sintomi suggestivi per una malattia demielinizzante centrale quali disturbi visivi, legati all’infiammazione dei nervi ottici, disturbi sfinterici vescicali, sotto forma di incontinenza urinaria o difficoltà a trattenere leurine, da interessamento del midollo spinale, alterazioni della motilità oculare (nistagmo o visione doppia), fatica e facile esauribilità muscolare associate alla comparsa di lesioni demielinizzanti allo studio di risonanza magnetica nucleare (RMN) dell’encefalo e del midollo spinale. Uno studio cinese pubblicato nel 2018 ha valutato 22 pazienti con le caratteristiche cliniche della CCPD, selezionati da una casistica di 788 casi di pazienti con evidenza di malattia demielinizzante. Sono stati esaminati e confrontati le manifestazioni sintomatologiche, i risultati degli esami di laboratorio, lo studio elettromiografico e dei nervi periferici, la RMN e l’evoluzione del decorso clinico (prognosi). All’esordio della malattia la maggior parte dei pazienti (84%) presentava disturbi sensitivi (sensazione di addormentamento o di punture di spilli, formicolii) agli arti, per lo più associati a debolezza muscolare (77,3%) e riflessi tendinei profondi anormali (72,7%) all’esame obiettivo neurologico. Lo studio del liquor cerebro-spinale prelevato con puntura lombare faceva rilevare nell’81% dei pazienti un aumento della concentrazione delle proteine, mentre la ricerca delle bande oligoclonali, di frequente riscontro nei casi di sclerosi multipla, era risultata negativa. Allo studio di RMN dell’encefalo e del midollo spinale venivano riscontrate alterazioni demielinizzanti che per localizzazione, forma e dimensioni erano da considerarsi suggestive per la sclerosi multipla. Nel 50% dei casi descritti, inoltre, i potenziali evocati visivi risultavano alterati, per interessamento delle vie ottiche. I pazienti sono stati trattati con immunoglobuline ad alto dosaggio per via endovenosa, cortisonici per via sistemica o con entrambi i trattamenti. I risultati migliori in termini di riduzione dei sintomi si sono avuti con il trattamento combinato. Un paziente che non ha mostrato risposta agli steroidi e alle immunoglobuline per via endovenosa è migliorato significativamente dopo l’uso di un potente immunosoppressore (ciclofosfamide). Uno studio italiano ha valutato l’evoluzione clinica di un gruppo di 31 pazienti con CCPD, sin dal momento della diagnosi. Nella maggior parte dei casi i sintomi iniziavano nelle settimane successive a un’infezione delle vie aeree, con un quadro di polineuropatia (disturbi sensitivi e debolezza muscolare in 2 o più arti) o di encefalopatia (confusione mentale, disturbi della vista o cefalea). Nel 74% dei pazienti lo studio elettromiografico faceva rilevare alterazioni tipiche delle CIDP, mentre allo studio di RMN, 11 pazienti (46%) mostravano lesioni demielinizzanti che soddisfacevano i criteri per la diagnosi di sclerosi multipla. Due terzi dei pazienti presentavano un decorso di malattia di tipo recidivante-remittente o progressivo, solitamente correlato alla comparsa di nuove lesioni nel midollo spinale o al peggioramento della neuropatia periferica, e mostravano risposte insoddisfacenti ai cortisonici e alle immunoglobuline ad alto dosaggio somministrati per via endovenosa. I sintomi, soprattutto motori, erano gravi in 22 pazienti (71%) con conseguente disabilità. Questi dati confermano l’estrema eterogeneità clinica della CCPD, l’origine post-infettiva e la prognosi generalmente sfavorevole.

Recentemente è stato riconosciuto il ruolo di alcuni anticorpi nella patogenesi della malattia. In particolare, un anticorpo diretto contro una proteina specifica della guaina mielinica che avvolge i nervi periferici, denominata neurofascina-155, è stata scoperta nel sangue di pazienti con quadri clinici di CCPD. La presenza di neurofascina-155 nell’encefalo e nel midollo spinale oltre che nei nervi periferici, e l’elevata prevalenza degli anticorpi anti-neurofascina-155 nei pazienti con sindrome combinata di demielinizzazione centrale e periferica, hanno suggerito la genesi autoimmune di tale condizione patologica. Non tutti i pazienti con CCPD presentano gli anticorpi sopracitati, per cui si ritiene che altri anticorpi, diretti contro diverse proteine della guaina mielinica, condivise tra sistema nervoso centrale e nervi periferici possano avere un ruolo causale.

Negli ultimi anni, sono stati compiute ulteriori ricerche per cercare di identificare altri possibili anticorpi marcatori dei casi con sintomi suggestivi di sindrome combinata di demielinizzazione centrale e periferica. È stato per esempio descritto un paziente con malattia demielinizzante del sistema nervoso centrale correlata agli anticorpi contro la glicoproteina correlata alla mielina (MOG) e polineuropatia demielinizzante infiammatoria. Questa scoperta suggerisce un’estrema eterogeneità di quadri clinici nell’ambito delle forme demielinizzanti correlate agli anticorpi anti-MOG e anti-Acquaporina (anticorpi responsabili di alcuni casi di neuromielite ottica, con coinvolgimento di entrambi i nervi ottici e del midollo spinale), conosciute anche come disturbi dello spettro della neuromielite ottica (NMOSD). La struttura molecolare della MOG e la sua posizione superficiale sulla guaina mielinica del sistema nervoso centrale e periferico rendono tale glicoproteina suscettibile alla formazione di autoanticorpi in soggetti predisposti geneticamente allo sviluppo di malattie autoimmuni. Oltre all’aumento delle proteine nel liquor cerebro-spinale e all’assenza delle bande oligoclonali, sono di frequente riscontro nei pazienti con CCPD, il coinvolgimento bilaterale dei nervi ottici e il riscontro di lesioni demielinizzanti allo studio RMN dell’encefalo anche estese, tali da far sorgere il sospetto di neoformazioni neoplastiche (forme pseudotumorali di sclerosi multipla). Il peggioramento della sintomatologia a seguito del trattamento con cortisonici ev è frequente in corso di neuropatia da CCPD, diversamente da quanto avviene nella forma cronica di polineuropatia infiammatoria demielinizzante (CIDP), dove si osserva, nella maggior parte dei casi, la remissione della sintomatologia. In questi casi è stata utilizzata con beneficio la plasmaferesi, ovvero la procedura di trattamento di purificazione del sangue dagli anticorpi patogeni.

Conclusioni

Le lesioni demielinizzanti colpiscono generalmente le strutture del sistema nervoso centrale (encefalo e midollo spinale) come nel caso della sclerosi multipla, o isolatamente i nervi periferici, dando origine a quadri clinici di polineuropatia infiammatoria acuta (sindrome di Guillain-Barrè) o cronica (CIDP). Raramente, la demielinizzazione può colpire più estesamente il sistema nervo centrale e periferico, simultaneamente o in successione, con l’insorgenza di manifestazioni cliniche che evocano sia la sclerosi multipla sia le neuropatie periferiche. L’evoluzione clinica differente, l’analisi del liquor cerebro-spinale e la diversa risposta ai trattamenti, rispetto alle forme classiche isolate di demielinizzazione, hanno recentemente consentito di identificare la CCDP come entità clinica distinta, a patogenesi disimmune ed evoluzione non sempre favorevole, nonostante i trattamenti.

Consigli pratici

La CCDP dimostra come l’eterogeneità delle malattie demielinizzanti sia ampia e l’iter diagnostico sia complesso. La diagnosi definita di queste forme combinate di demielinizzazione centrale e periferica ha importanti ricadute sia sulla prognosi sia sulle scelte terapeutiche più adeguate. Il riscontro di alterazioni di segnale in RMN suggestive per sclerosi multipla in un paziente con manifestazioni cliniche di interessamento dei nervi periferici, specie se documentato da un esame elettromiografico, deve guidare il neurologo clinico nella scelta degli esami diagnostici più appropriati (esame del liquor cerebro-spinale, studio dei potenziali evocati, screening autoanticorpale) per la diagnosi di CCDP. Il trattamento combinato con steroidi e immunoglobuline ad alte dosi per via endovenosa può determinare in diversi casi la remissione del quadro clinico, ma va attuato successivamente uno stretto monitoraggio clinico e radiologico.

Source: Fondazione Serono SM


Un’unica potenziale terapia per il trattamento di diversi sintomi collegati alla spasticità nella sclerosi multipla

La spasticità è un comune sintomo neurologico, potenzialmente molto invalidante, dovuto a una lesione a carico dei primi neuroni di moto, cioè quelle cellule nervose che dalle aree della corteccia cerebrale deputate al movimento trasmettono l’impulso nervoso destinato alla contrazione muscolare, fino ai vari livelli del midollo spinale. Il termine spasticità deriva dalla parola greca spasmos, che significa letteralmente crampo/spasmo e designa un disturbo motorio che consiste in un abnorme aumento del tono muscolare involontario, in genere accompagnato anche da un deficit di forza muscolare. È di frequente riscontro, in particolare, nelle forme progressive di sclerosi multipla (SM), nell’ictus cerebrale, nelle paralisi cerebrali infantili, nelle mieliti e nelle lesioni midollari traumatiche.

È un sintomo che riguarda oltre tre quarti delle persone malate di SM e molto spesso si associa a debolezza muscolare. Nella malattia, gli arti inferiori sono più colpiti dalla spasticità e alla rigidità di vario grado, determinata dall’aumento del tono muscolare, si possono poi associare spasmi e contratture, cioè contrazioni involontarie spesso dolorose, clono (vale a dire l’innesco in alcune posizioni di movimenti di flessione ed estensione involontari ripetitivi, a carico di alcune articolazioni) e infine marcate limitazioni nella destrezza motoria degli arti superiori, così come della marcia. In alcuni casi l’aumentata rigidità muscolare in estensione a carico dei quadricipiti può essere un vantaggio ai fini della capacità di mantenersi in piedi e deambulare, perché supplisce in parte alla debolezza muscolare. Le conseguenze di un persistente aumento del tono muscolare sono le modificazioni istologiche del tessuto muscolare, con possibilità di accorciamento dello stesso, nonché le retrazioni tendinee, che possono rendere molto problematici i movimenti [1].

La diagnosi della spasticità è essenzialmente clinica, cioè si fonda prevalentemente sulla visita medica da parte dello specialista neurologo che, attraverso varie manovre, valuta lo stato del tono muscolare. Il grado e la severità dell’aumentato tono muscolare si valutano poi attraverso alcune scale come, l’Ashworth Scaleche prevede l’esame della resistenza del muscolo all’allungamento passivo e la Numerical Rating Scale (NRS),una scala di valutazione soggettiva. L’impatto della spasticità sul cammino può essere stimato con test quali il Timed 25-Foot Walk(T25-FW),mentre l’impatto sulla destrezza motoria a carico degli arti superiori può essere valutato con il Nine Hole Peg Test (9-HPT)[2].

Il trattamento della spasticità si prefigge il miglioramento della funzione degli arti e la riduzione del dolore, oltre il facilitare l’igiene personale. Le terapie disponibili possono essere suddivise in farmacoterapie orali, farmacoterapie somministrate tramite altre vie (intramuscolari, intratecali) e approcci chirurgici. Sono pochi gli studi clinici adeguatamente realizzati che hanno verificato l’efficacia delle terapie per la spasticità nella SM, anche perché spesso questo sintomo è descritto in modo vago e quindi diventa difficile confrontare i risultati dei diversi studi. Nel complesso, tra i farmaci disponibili per il trattamento della spasticità, la sostanza più usata e su cui esistono più dati è baclofen, che produce i suoi effetti attivando i recettori dell’acido aminobutirrico B (GABA B) [3].

Sintomatologia correlata alla spasticità nella sclerosi multipla

Un gruppo di ricercatori spagnoli ha recentemente proposto di ampliare il concetto di spasticità, sostenendo che l’aumento del tono muscolare della spasticità si possa correlare a sintomi quali crampi, dolore, disturbi del sonno, disfunzioni vescicali, affaticamento e tremore. Hanno quindi proposto l’introduzione del concetto nuovo di “sindrome da spasticità-plus” ipotizzando un quadro unificato per la gestione di tutta quella sintomatologia che interferendo con il movimento articolare passivo compromette il controllo volontario dei movimenti. Un buon numero di disturbi della SM, così, potrebbe avere una fisiopatologia di fondo comune con l’abnorme aumento del tono muscolare involontario, indotto dalla spasticità [4].

In particolare, in quasi tutti i pazienti, entro 10 anni dall’esordio della SM, a causa della natura progressiva della malattia, si manifestano disfunzioni delle basse vie urinarie. Esse sono determinate dalla distribuzione delle lesioni demielinizzanti a carico del nevrasse: placche a carico della sostanza bianca subcorticale, del tronco encefalico e nella sostanza bianca del midollo spinale possono compromettere l’integrità delle vie nervose nel controllo delle funzioni delle basse vie urinarie. Clinicamente i disturbi urinari si presentano come problemi di ritenzione o di svuotamento vescicale. I sintomi di ritenzione comprendono urgenza urinaria, aumento della frequenza diurna, nicturia (frequenza notturna) e incontinenza, mentre quelli di svuotamento vescicale includono esitazione urinaria, flusso debole e interrotto, tensione all’urina, doppio svuotamento e sensazione di vescica incompleta dopo svuotamento. Le disfunzioni urinarie citate hanno un significativo impatto negativo sulla qualità della vita nei pazienti con SM. La gravità dei sintomi del controllo vescicale è correlata alla disabilita neurologica, misurata mediante la Expanded Disability Status Scale (EDSS). Un punteggio EDSS elevato è associato a parametri urodinamici sfavorevoli che aumentano il rischio di danno del tratto urinario superiore [5].

Nella pratica clinica i numerosi e variegati sintomi associati alla SM necessitano in genere di una gestione complessa tramite varie terapie, ognuna con possibili interazioni farmacologiche e tutte con potenziali effetti collaterali, che spesso esacerbano altri sintomi. Gli studiosi hanno considerato un buon numero di trial clinici e studi osservazionali da cui è emerso che l’uso della cannabis medica, un farmaco sintomatico indicato nel trattamento della spasticità, può essere utile anche ad alleviare e migliorare altre manifestazioni della malattia demielinizzante, in qualche modo collegate ad essa [4].

Un breve case report

Si riporta il caso di una donna di 35 anni che secondo i criteri di McDonald, dall’età di 25 anni, soffre di SM recidivante-remittente e assume una modesta dose di tiroxina per una tiroidite di Hashimoto. La madre della paziente, che pure presentava una forma di SM, anche lei con problemi di distiroidismo, morì all’età di 55 anni per complicazioni della malattia demielinizzante. L’insorgenza della malattia risale al 2010, a seguito di un episodio di parestesia, a tipo formicolio al piede sinistro. Nel 2015, dopo 5 anni di stabilizzazione clinica e radiologica della malattia con l’uso trisettimanale di interferone-beta 1a 44 mcg, la paziente interrompe autonomamente la terapia per il desiderio di una gravidanza. A distanza di 15 mesi la paziente dà alla luce una bambina (allattata al seno), non riprendendo la terapia come consigliato dal suo medico di fiducia. Nel marzo 2017 ha una ricaduta clinica e radiologica della patologia, trattata con steroidi per via endovenosa, seguita da ripresa della precedente terapia con interferone, che ha stabilizzato la malattia fino a oggi.

A seguito della ricaduta, la paziente ha presentato come esiti neurologici una leggera paraparesi spastica che non ne ha compromesso la deambulazione, disturbi del sonno causati da dolorosi spasmi notturni e, in particolare, una grave disfunzione vescicale con incontinenza da urgenza, associata ad alta frequenza di minzione e nicturia. Per cercare di migliorare la sintomatologia lamentata, la paziente ha assunto nel tempo baclofene (25 mg/die), presto interrotto per debolezza, e tizanide (2 mg/die), sospeso per ipotensione ortostatica. Non ha tratto beneficio poi dall’uso di gabapentin 400 mg 3 cp/die e successivamente da carbamazepina 200 mg a rilascio modificato (2 cp/die), sospesa per l’insorgenza di capogiri e peggioramento dell’andatura, diventata di tipo atassico. La donna poi ha assunto ossibutinina per i disordini vescicali e un blando ipnoinducente per cercare di regolarizzare il sonno. Negli anni, infine, ha tratto un miglioramento, seppur non significativo, dei disturbi da un programma di riabilitazione.

Nel febbraio 2019 si è concordato con la paziente, dopo opportuna autorizzazione, di trattare la spasticità e i sintomi a essa collegati con nabiximols, una formulazione spray per mucosa orale di delta-9-tetraidrocannabinolo e cannabidiolo (THC:CBD), a una dose media di 6 spruzzi/die. Oltre una riduzione da 7 a 5 nel punteggio della NRS, relativo alla spasticità, la paziente ha riportato un miglioramento dei sintomi collegati alla spasticità, in particolare una riduzione della frequenza nelle minzioni, gli incidenti di incontinenza urinaria passati da 5 a 1 per notte, una riduzione degli spasmi dolorosi notturni (da 3 a 1) e una migliore e più regolare qualità del sonno, per cui i risvegli notturni sono passati da 4 a 1.

Fisiopatologia della “sindrome da spasticità-plus”

Una sindrome in medicina è classicamente definita come una combinazione di segni e/o sintomi che formano un quadro clinico distinto indicativo di una particolare malattia o disturbo. Generalmente, essi hanno una fisiopatologia comune o rispondono a una terapia, anche se le manifestazioni cliniche possono essere varie [6]. La SM è gravata da una grande varietà di sintomi, imprevedibili ed estremamente variabili inter-individualmente e nella singola persona, determinati dal danno, durante il decorso della malattia, delle più svariate aree del sistema nervoso centrale. Il caso qui presentato dimostra un possibile beneficio terapeutico del nabiximols nella SM, non solo sulla spasticità, ma anche su sintomi a essa collegati, come i disturbi urinari, scarsamente influenzati da altri trattamenti farmacologici. Sorprendentemente, l’obiettivo di migliorare la qualità di vita della paziente è stato raggiunto senza particolari effetti collaterali, anche perché questa formulazione di cannabis medica consente di personalizzare il dosaggio, permettendo all’individuo di trovare la migliore dose costo-beneficio. Le disfunzioni della vescica e, nel caso descritto, i disturbi di incontinenza urinaria, la frequenza delle minzioni diurne, gli incidenti di nicturia sono stati alleviati dal farmaco, come dimostrato dal significativo miglioramento del punteggio dei sintomi della vescica iperattiva (OABSS) passato da 7 a 4, prima e dopo l’inizio del trattamento. Infine, la qualità del sonno della paziente ne ha tratto giovamento.

Il nostro organismo produce normalmente sostanze simili ai cannabinoidi, gli “endocannabinoidi”, e diffusamente esistono recettori che “riconoscono” questi principi, sia a livello del sistema nervoso centrale sia a livello delle cellule del sistema immunitario, come i linfociti e i macrofagi. I cannabinoidi interagiscono con due differenti recettori, i recettori CB1 e CB2, distribuiti in maniera differente nel corpo umano. I CB1 sono sostanzialmente concentrati nel sistema nervoso centrale, mentre i CB2 lo sono principalmente nelle cellule del sistema immunitario. Un consistente accumulo di recettori si ritrova poi proprio nel tronco cerebrale, dove sono mediati funzioni/sintomi importanti che si alterano nei malati di SM, quali spasticità, sonno, vescica e dolore. I recettori CB1 e CB2 sono fisiologicamente attivati dagli endocannabinoidi endogeni, cioè dei ligandi derivati da acidi grassi, in particolare dall’anandamide, un derivato dell’acido arachidonico prodotto dal corpo umano, con effetti simili a quelli del delta-9-tetraidrocannabinolo (THC). Il THC è generalmente considerato il capostipite dei cannabinoidi, non l’unico principio, quello su cui sono state effettuate più ricerche. Tra gli altri vale la pena in particolare ricordare il cannabidiolo (CBD), una sostanza senza azione psicoattiva, privo cioè di effetti sul cervello, ma tuttavia in grado di modulare l’azione del THC a livello cerebrale, prolungandone la durata d’azione e limitandone gli effetti collaterali. Il CBD attenua quindi l’effetto euforico del TCH e ne aumenta l’effetto rilassante, ma soprattutto ne riduce gli effetti nocivi. Il meccanismo alla base dell’associazione TCH:CBD di nabiximols sarebbe una riduzione generalizzata del tono muscolare di diversi distretti dell’organismo, considerando la duplicità tipologica dei recettori per i cannabinoidi [7,8]. In particolare, per le basse vie urinarie, si può presumere che l’azione dello spray di questa formulazione di cannabis sia alla base del miglioramento della disfunzione nella muscolatura liscia della vescica [9]. Va sottolineato, tuttavia, che una recente review non supporta gli stessi benefici con altre associazioni di cannabinoidi, estratti di cannabinoidi orali e il solo THC [10].

Diversi studi con numeri ancora limitati hanno aperto una promettente area di ricerca, avendo evidenziato che l’uso della formulazione in spray di THC:CBD è in grado di alleviare, oltre la spasticità muscolare comune in particolare nelle forme progressive di SM, altri sintomi invalidanti che si presentano nella malattia demielinizzante, quali spasmi, crampi, disturbi dell’andatura, regolazione del sonno, disfunzioni vescicali diurne e notturne quali la frequenza delle minzioni, la urge incontinence, la nicturia, i disturbi sessuali, la percezione del dolore e il tremore. La sola terapia con cannabis medica, attraverso la sua azione sui recettori CB1 e CB2, può semplificare il trattamento di questa ampia gamma di sintomi di contorno della spasticità, uno dei bisogni più insoddisfatti nella cura della SM. Il trattamento di queste manifestazioni della malattia può altrimenti risultare particolarmente complesso perché i pochi farmaci disponibili, spesso usati in politerapia, possono determinare con i loro effetti avversi la comparsa di ulteriori problemi che pesano sul paziente. I ricercatori propongono il concetto di “sindrome da spasticità plus” una promettente ipotesi di lavoro, che dovrà essere confermata e sostenuta da futuri nuovi studi, aprendo la strada a una nuova area di ricerca su cui investire nell’ambito delle terapie sintomatiche per la SM. Una possibile critica e limitazione di questa ipotesi è rappresentata dal fatto di non sapere se tale concetto possa trovare applicazione in altre patologie cerebrali, e in particolare nella spasticità esito di disturbi di circolo cerebrale [4,11,12].

Source: Fondazione Serono SM


Novità della nuova terapia con cladribina

La sclerosi multipla è una patologia demielinizzante cronica del sistema nervoso centrale (SNC) caratterizzata da infiammazione e degenerazione assonale. La malattia esordisce intorno alla 2°-4° decade di vita e risultano esserne affette maggiormente le donne con un rapporto F:M di 3:1. L’incidenza della patologia varia nelle varie regioni del mondo raggiungendo valori di circa 700 mila persone affette in Europa [1].

Dal punto di vista terapeutico, ad oggi, non è disponibile un trattamento curativo per la sclerosi multipla ma le correnti strategie terapeutiche hanno come obiettivo la riduzione del rischio di ricadute e della potenziale progressione della disabilità [2]. Un concetto recente nel trattamento della sclerosi multipla è la non evidence of disease activity, o NEDA. Questo si è sviluppato dalla consapevolezza che le ricadute cliniche sono solo la punta dell’iceberg in termini di attività di malattia della sclerosi multipla.Gli obiettivi NEDA, gold standard della terapia della sclerosi multipla, sono rappresentati da: assenza di recidive e progressione clinica (NEDA 1-2), assenza di attività infiammatoria alla MRI (NEDA-3) [3].

Le terapie si suddividono classicamente in DMT (disease-modifying therapies) che tendono a essere specifiche per la sclerosi multipla e terapie sintomatiche che spesso sono usate per trattare i sintomi derivanti dalla disfunzione neurologica. Ad oggi le terapie DMT possono essere distinte in: MET (terapie di mantenimento/escalation) o IRT (terapie di ricostituzione del sistema immune). Le terapie MET si suddividono a loro volta in immunomodulanti (interferone beta, glatiramer acetato, terifluromide) e immunosoppressive (fingolimod, natalizumab, dimetilfumarato, ocrelizumab). Le terapie IRT si dividono in SIRT, cioè IRT che selettivamente colpiscono il sistema immune adattativo, che comprende la cladribina, e le NIRT ossia IRT che colpiscono sia il sistema immune innato sia il sistema immune adattivo, che comprendono l’alemtuzumab. Attualmente la strategia terapeutica IRT è la più vicina a una potenziale cura per la sclerosi multipla [3].

Cladribina è un potente immunosoppressore orale efficace contro le ricadute della sclerosi multipla e l’accumulo di lesioni a livello cerebrale, è approvato per il trattamento di adulti con sclerosi multipla recidivante altamente attiva. Cladribina è un analogo del nucleoside purina ed è capace di attraversare la barriera emato-encefalica agendo da inibitore della sintesi del DNA e della riparazione delle cellule altamente proliferative, inducendo la morte delle cellule B e T [4]. I suoi effetti sulle cellule T sono meno pronunciati e meno duraturi se comparati agli effetti sulle cellule B.

Sia le cellule B sia le cellule T rivestono un ruolo complesso nella immunopatologia della sclerosi multipla, in quanto attivano una cascata di citochine infiammatorie e anticorpi diretti contro vari componenti del sistema nervoso centrale. Le cellule T e B attivate determinano la produzione di altre citochine proinfiammatorie nel siero e nel liquido cerebrospinale, aumentando i livelli di chemochine, l’espressione della molecola di adesione e la migrazione delle cellule mononucleate. L’attivazione dei linfociti B è correlata alla formazione di bande oligo-clonali IgG, le quali sono un marker nel liquor molto utile per la sclerosi multipla. Cladribina smorza queste risposte immunitarie prendendo di mira l’immunità attiva. Il farmaco, clinicamente e radiograficamente, riduce il carico di malattia nelle persone che sono affette da sclerosi multipla [5,6].

Cladribina è un trattamento orale caratterizzato da una somministrazione di 3,5 mg/kg di farmaco, suddiviso in 1,75 mg/kg all’anno, si tratta dunque di un farmaco che prevede una posologia adattata al body mass Index (BMI) del paziente. I due cicli di trattamento sono separati da dodici mesi. Il primo ciclo consiste in una somministrazione del farmaco per quattro o cinque giorni consecutivi, seguiti da una dose equivalente somministrata per quattro o cinque giorni consecutivi nel secondo mese. Il secondo ciclo di cladribina segue di dodici mesi il primo ciclo con lo stesso dosaggio e frequenza. Il trattamento deve essere iniziato solo nei pazienti che hanno un ALC normale (conta linfocitaria) e il trattamento nell’anno 2 deve essere somministrato solo a pazienti con grado 0 o 1 linfopenia (ALC ≥0,8 × 10^9 cellule/L). Il ciclo dell’anno 2 può essere posticipato fino a 6 mesi per consentire il recupero dei linfociti, ma se il recupero richiede più di 6 mesi il paziente non dovrebbe ricevere ulteriori cicli [7].

La linfopenia associata al trattamento si manifesta durante la fase di deplezione, seguita da un ritorno della normale conta linfocitaria dopo diversi mesi. Contrariamente alla terapia con alemtuzumab, l’effetto di cladribina sulle cellule del sistema immune innato è più limitato. La conta linfocitaria è monitorata regolarmente prima, durante e dopo la terapia [8].

Gli esami di laboratorio richiesti prima di considerare cladribina orale come DMT per la sclerosi multipla comprendono: l’emocromo completo con conta differenziale, pannello metabolico completo, screening dell’HIV, pannello dell’epatite virale, test di gravidanza e QuantiFERON-TB. I medici devono anche monitorare attentamente la storia farmacologica del paziente; i pazienti non devono assumere cladribina con altri agenti immunosoppressori. Una volta che il paziente con sclerosi multipla inizia a prendere cladribina, dovrà sottoporsi a un esame emocromocitometrico completo con conta cellulare differenziale monitorata ai mesi 3 e 7 dopo ogni ciclo di cladribina nei due anni successivi [9].

I più importanti effetti avversi di cladribina includono la linfopenia e le infezioni (in particolare da herpes zoster). I pazienti con sclerosi multipla non dovrebbero assumere cladribina se sono affetti da cirrosi epatica, insufficienza renale cronica, HIV o tubercolosi. Altre controindicazioni includono una storia di utilizzo di immunosoppressori, come ciclofosfamide, azatioprina, metotrexato o mitoxantrone. I pazienti devono necessariamente osservare una stretta aderenza alla contraccezione prima, durante e dopo aver assunto cladribina. I pazienti maschi devono prendere precauzioni per prevenire la gravidanza della loro partner durante il trattamento con cladribina e per almeno 6 mesi dopo l’ultima dose. È possibile avere una gravidanza o allattare 6 mesi dopo l’ultima somministrazione del farmaco [10].Gli effetti di cladribina su pazienti sotto i 18 anni sono sconosciuti e questa giovane popolazione dovrebbe evitare di assumere questo trattamento [9,11].

Risulta utile anche la valutazione delle opinioni dei pazienti circa le varie opzioni terapeutiche. Cladribina rappresenta il trattamento orale maggiormente valutato positivamente. Gli elementi presi più in considerazione da parte del paziente nella scelta di un farmaco tra le varie opzioni terapeutiche, tralasciando la modalità di assunzione, sono rappresentati dalla frequenza del monitoraggio richiesto e gli effetti collaterali che ne possono derivare. Chiaramente, l’utilizzo effettivo di DMT riflette non solo le preferenze del paziente per le caratteristiche del DMT, ma anche le linee guida e le preferenze del medico [12].

La terapia pulsata di ricostituzione del sistema immune come la cladribina è un’opzione come terapia iniziale nei pazienti con SMRR con un’alta attività di malattia che, in pazienti non trattati, può essere definita come due o più recidive nell’ultimo anno, e in pazienti in trattamento con un’altra DMT, come due o più recidive o una ricaduta e un’attività MRI significativa. Tuttavia, la terapia di ricostituzione immunitaria pulsata potrebbe anche essere considerata come la terapia iniziale nella SMRR precoce con fattori prognostici negativi e malattia attiva dall’inizio (non solo i pazienti con due recidive nell’anno precedente, ma anche i pazienti con una ricaduta con recupero incompleto associato a nuove o miglioramento delle lesioni in MRI). Se è stata decisa la terapia di ricostituzione immunitaria pulsata, la scelta tra alemtuzumab e cladribina deve essere basata su un rapporto rischio/beneficio. L’efficacia potenzialmente più elevata di alemtuzumab rispetto a cladribina, sebbene ancora solo ipotetica in quanto non sono stati effettuati studi diretti, va a scapito di eventi avversi più frequenti e gravi. Sulla base dei dati pubblicati, l’evidenza dell’efficacia a lungo termine sta aumentando da cladribina ad alemtuzumab. L’induzione di NEDA-3 a lungo termine con terapia di ricostituzione immunitaria pulsata potrebbe almeno essere un’ottima possibilità in alcuni pazienti, se la terapia viene somministrata all’inizio del decorso della malattia. Attualmente manca ancora l’esperienza con risultati a lungo termine per queste terapie e si dovranno affrontare studi di follow-up a lungo termine [10].

Source: Fondazione Serono SM


Predittori di disabilità cognitiva in sclerosi multipla: un approccio di machine learning

Il deterioramento cognitivo è una manifestazione comune e disabilitante in corso di sclerosi multipla (SM), esercitando un impatto significativo sulle attività quotidiane e la qualità della vita dei pazienti. Deficit cognitivi vengono descritti in una percentuale variabile dal 34% al 65% dei pazienti con SM, a seconda dei criteri utilizzati per la definizione del deterioramento cognitivo [1,2]. Il deterioramento cognitivo è stato descritto in tutte le fasi di malattia conclamata, dalla sindrome clinicamente isolata (clinically isolated syndrome, CIS, deterioramento cognitivo osservato nel 20-25% dei casi), alle forme recidivanti-remittenti (RR, deterioramento cognitivo osservato nel 30-45% dei casi) e secondariamente progressive (SP, deterioramento cognitivo osservato nel 50-75% dei casi), mentre i dati relativi alle forme primarie progressive (PP) sono meno conclusivi per la presenza di pochi lavori con ridotta numerosità campionaria [1].

L’esordio del deficit cognitivo può essere acuto (se si realizza in corrispondenza di una ricaduta) o insidioso, sviluppandosi gradualmente nel tempo. I domini più frequentemente implicati sembrano essere la velocità di elaborazione delle informazioni, l’apprendimento e la memoria, mentre meno frequentemente si osserva un coinvolgimento delle funzioni esecutive e visuospaziali. Più recentemente è stato descritto un deficit della fluenza semantica nei pazienti in età più avanzata (superiore ai 50 anni) [3]. Tuttavia, parallelamente a quanto accade per la disabilità motoria, la disabilità cognitiva mostra un’elevata variabilità interindividuale. Le forme a esordio pediatrico non fanno eccezione, mostrando, in sovrapposizione alle forme a esordio in età adulta, una compromissione prevalente della velocità di elaborazione delle informazioni e della memoria, cui si associano una compromissione dell’intelligenza verbale, un ritardo nell’acquisizione delle competenze cognitive e un più rapido declino in età adulta, oltre a una peculiare dissociazione tra stato cognitivo e disabilità motoria [1]. Anche se tale dissociazione è tipica delle forme pediatriche, anche nell’adulto deficit cognitivi possono instaurarsi in condizioni di stabilità clinica e radiologica di malattia [4].

La presenza di deficit cognitivi può essere rilevata anche in fase preclinica, in pazienti con sindrome radiologicamente isolata (radiologically isolated syndrome, RIS) [5], e, in soggetti sani, è predittiva di conversione a SM a breve e lungo termine [6]. Nelle forme benigne di SM (EDSS <3 dopo 15 anni di malattia), i deficit cognitivi sono associati a un maggior rischio di disabilità a medio e lungo termine (5 e 12 anni) [7,8]. Tale valore predittivo si conferma nelle forme RR, dove deficit cognitivi al basale, e in particolare deficit della velocità di elaborazione delle informazioni e della memoria verbale, risultano predittivi di conversione a SP e raggiungimento di un EDSS pari a 4,0 [9] e nelle forme a esordio precoce (età inferiore ai 25 anni) dove basse capacità di elaborazione delle informazioni al basale sono associate a un maggior rischio di progressione della disabilità a 7 anni (incremento di 1 punto dell’EDSS) [10].

Data la rilevanza clinica del deterioramento cognitivo, grande interesse riveste l’approfondimento dei suoi correlati strutturali e funzionali. A tal fine, un recente lavoro ha identificato i pattern di danno associati a diversi profili di deterioramento cognitivo, identificando, in soggetti con prevalente deficit della memoria verbale e della fluenza semantica, una maggiore atrofia ippocampale rispetto ai pazienti SM con abilità cognitive conservate [11]. Altre associazioni venivano identificate tra i profili “lieve coinvolgimento multidominio”, “coinvolgimento severo delle funzioni attentive ed esecutive”, “severo coinvolgimento multidominio” e la presenza di atrofia corticale, elevato carico lesionale e atrofia diffusa [11]. L’identificazione di diversi profili cognitivi, sottesi da diversi substrati biologici, apre la strada alla possibilità di sviluppare approcci terapeutici mirati e personalizzati, nell’ottica di un patient-tailored treatment. L’applicazione clinica di questa (o altre) classificazioni tuttavia presuppone la possibilità di poter attribuire al singolo paziente l’appartenenza a una specifica classe o profilo. Tale possibilità potrebbe concretizzarsi nel prossimo futuro grazie all’applicazione di metodiche di machine learning non supervisionato. Tali metodiche sono in grado di modellare la progressione di malattia sulla base di variazioni osservate in biomarcatori di scelta, non necessitando di informazioni cliniche a priori o della definizione di valori soglia nei singoli biomarcatori [12]. Tali metodiche sono state recentemente applicate nell’ambito delle patologie neurodegenerative del sistema nervoso centrale [12,13] e hanno mostrato risultati promettenti quando traslate nel campo della SM allo scopo di caratterizzare la sequenza delle modifiche clinico-radiologiche in corso di SM [14] o applicate alla classificazione dei fenotipi SM guidata da parametri di RM [15].

Particolarmente promettente tra le metodiche di machine learning non supervisionato è l’algoritmo SuStaIn [13], che è in grado di identificare, a partire da caratteristiche estratte da esami di RM, sottotipi distinti caratterizzati da traiettorie di progressivo accumulo di danno in specifici biomarcatori. I punti di forza di tale algoritmo sono costituiti dalla possibilità di arrivare alle definizione dei sottotipi sulla base di dati trasversali, e sulla sua capacità di assegnare l’esame RM del singolo paziente a uno specifico sottotipo e stadio lungo la traiettoria identificata. L’applicazione di un algoritmo di tale natura consentirebbe di classificare, sulla base di un singolo esame RM, ogni paziente come appartenente a uno specifico sottotipo caratterizzato da un peculiare pattern di atrofia, fornendo nel contempo informazioni circa la posizione del paziente nell’ambito dell’evoluzione temporale del singolo sottotipo (stadio più precoce o più avanzato della traiettoria evolutiva di uno specifico pattern di atrofia), contribuendo alla possibilità di predire l’outcome clinico a lungo termine, stratificando prognosticamente il paziente e facilitando così l’applicazione di interventi terapeutici personalizzati.

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Ho la sclerosi multipla: la difficoltà di comunicare agli altri la malattia

Comunicare agli altri la propria malattia è una difficoltà frequente, che spesso nasconde una più complessa resistenza, quella di parlare con se stessi.

Sono tante le persone affette da sclerosi multipla che si nascondono, evitano di parlare della propria malattia oppure la confessano solo alle persone più intime, genitori o partner, ma faticano o hanno timore di dirlo a datori e colleghi di lavoro e anche agli amici.

Temono di essere incontrati nei Centri di Sclerosi Multipla e arrivano perfino a rifiutare di partecipare a gruppi terapeutici, psicoeducativi o a incontri di associazioni.

Queste persone raccontano di avere ancora paura di essere stigmatizzate o di subire ripercussioni sul lavoro, pensano che il partner potrebbe arrivare a lasciarli, così come gli amici a evitarli.

Eventi spiacevoli e spesso traumatici come quelli riportati possono accadere: subire ingiustizie o annullamenti anche da parte di chi si ama è possibile, ma molto spesso dietro al timore di essere attaccati c’è la sofferenza di chi si trova a fronteggiare una diagnosi di patologia cronica e neurodegenerativa.

È pensabile che il disagio o la vergogna siano dovute prevalentemente e più profondamente al problema di accettare la malattia.

Accettare etimologicamente sta a significare prendere con un fine, con intenzione, come a sottolineare il carattere attivo di questa azione. Ricevere una diagnosi di malattia non è solo un evento che subiamo passivamente, accompagnato da emozioni negative. Ricevere e ancor più accettare una diagnosi implica un impegno della persona ad integrare questo nuovo fatto nella quotidianità, al fine di mantenere una qualità di vita soddisfacente.

Questo passaggio è estremamente complesso e vale la pena approfondire alcuni concetti chiave per comprendere al meglio quale potrebbe essere l’atteggiamento più funzionale da adottare, per superare questa fase critica.

I sentimenti che accompagnano la comunicazione di una diagnosi di malattia come la sclerosi multipla sono spesso la tristezza, la rabbia e l’ansia, accompagnate da un certo grado di stress psicofisico. È normale vivere queste emozioni, sarebbe altrettanto dannoso fingere di non provarle o arrivare a uno stato di dissociazione, cioè di disconnessione dai propri pensieri, tale da non sentirle.

Viviamo in un mondo che fatica a tollerare la sofferenza, che pensa gli uomini e le donne come invincibili e dunque il primo passaggio è proprio quello di rifiutare questo stereotipo e vivere le sensazioni più critiche e forti che si possono scatenare in conseguenza a certi “lutti”.

Accettare autenticamente una malattia equivale a provare un sentimento di lutto, nel senso di perdita o profondo cambiamento del proprio stile di vita, delle aspettative, dei progetti futuri e dell’immagine che si ha di sé; e il lutto necessita di tempo per essere elaborato.

Vivere con il proprio dolore è segno di un corretto rapporto con la realtà e ci permette, con il tempo adeguato, di reagire grazie alla vitalità: un concetto importantissimo che va ben oltre la comune accezione di forza muscolare o agilità fisica, essa è caratteristica costitutiva dell’essere umano [1] e ha un ruolo cardine per la costituzione dell’affettività, altro aspetto interessante di cui parleremo più avanti.

Hayes e Wilson definiscono l’accettazione come “la resa nella futile lotta per fermare i pensieri automatici e intrusivi sulla malattia”, “la sosta nella ricerca di una soluzione definitiva per i sintomi fisici” [2]. Questo approccio non vuole rattristare ulteriormente la persona ma spingerla a indirizzare le proprie energie e i propri affetti verso altri o nuovi obiettivi e progetti, vuole rimettere al centro l’individuo nella sua bella complessità e non tenere sempre il focus sulla malattia, che invece rischia di assorbire ogni pensiero e attività.

È confermato da molti studi, uno dei quali di Krats et al. del 2013 [3], che la maggiore accettazione della propria situazione di vita si associ a una minore depressione e a una migliore qualità di vita.

Quest’ultimo concetto, la qualità di vita o più specificatamente la health-related quality of life (HRQoL) cioè la qualità stessa in riferimento alla salute, è di fondamentale importanza in campo sanitario, poiché restituisce al paziente la sua soggettività: ogni evento o intervento medico è valutato in base a come viene percepito dalla persona in questione.

L’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) al riguardo proponeva nel 1995 la seguente definizione: “la qualità di vita è la percezione dell’individuo della propria posizione nella vita nel contesto dei sistemi culturali e dei valori di riferimento nei quali è inserito e in relazione ai propri obiettivi, aspettative, standard e interessi” [4].

Fondamentale per reagire in ogni situazione critica che la vita ci riservi è l’insieme dei valori culturali e personali che ogni individuo si è costruito, insieme al proprio grado di affettività: “la capacità di investire con interesse, curiosità e sapienza la realtà umana propria e altrui” [5].

La Psicologia moderna affronta questo aspetto di reazione utilizzando il concetto di coping, cioè il modo in cui le persone rispondono e fronteggiano le situazioni avverse e stressanti, quali risorse si è in grado di mettere in campo per gestire richieste esterne (provenienti dall’ambiente) o richieste interne (della persona) particolarmente complesse. Gli sforzi introdotti per gestire lo stress costituiscono il coping, un processo adattivo e dinamico che media la continua interazione tra ambiente e individuo e che dovrebbe condurre alla modificazione del significato, attribuito inizialmente all’evento negativo. Alcune persone tentano di affrontare e dominare l’evento, compiendo azioni per intervenire sul problema; altre si concentrano prevalentemente sulle emozioni, sforzandosi di modificare l’impatto emozionale negativo dell’evento. Queste diverse modalità rappresentano i diversi stili di coping, che ognuno possiede.

Una terza strategia, meno funzionale, descritta da Endler e Parker (1990) è quella “centrata sull’evitamento”, un modo per distanziarsi dall’evento ignorandolo o costruendo espedienti, come ad esempio negare la malattia e i suoi sintomi agli altri [6].

Lo studio di Ahlstrom e Sjoden (1996) ci ha dimostrato però come una strategia di coping di non accettazione correli negativamente con la qualità di vita. Evitare o dissimulare il problema non lo risolve e soprattutto non aiuta a sentirsi meglio o a mettersi al riparo da altre situazioni spiacevoli [7].

Ma allora come riuscire ad affrontare al meglio il cambiamento di vita che la diagnosi di sclerosi multipla porta, mantenendo una qualità di vita soddisfacente?

Alcuni presupposti psicologici utili per attivare strategie di coping funzionali sono: l’ottimismo, cioè la capacità di valutare ogni aspetto della situazione, cercando di trarre “insegnamenti” e di crescere nel fronteggiare la criticità; il senso di padronanza degli eventi, il non sentirsi totalmente sopraffatto e impotente; una buona autostima e il supporto sociale, inteso come la sensazione di far parte di una rete su cui fare affidamento.

La comprensibile difficoltà di comunicare agli altri la malattia, che abbiamo visto nasconde in sé una più profonda accettazione dell’evento e delle conseguenze che esso può comportare o che si teme potrebbero sopraggiungere, altro non è che una strategia disfunzionale di reazione. Un comportamento frequente, che porta però ad allontanarsi dagli altri e dal sentirsi parte di una rete sociale e che rischia di indebolire la nostra affettività, nucleo centrale della capacità di reagire e del sapersi reinventare.

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Impiego dell’esoscheletro in un malato di sclerosi multipla

In Italia è stato valutato l’utilizzo dell’esoscheletro in un malato di sclerosi multipla primariamente progressiva. I risultati sono stati incoraggianti e l’esperienza verrà ripetuta in altre persone affette dalla malattia.

Nell’introduzione al loro articolo Sesenna e colleghi hanno ricordato che la sclerosi multipla è una malattia neurodegenerativa caratterizzata da un’alterata trasmissione degli stimoli nervosi, dovuta a danni a carico della mielina. Vari sono i sintomi della malattia dovuti a una ridotta efficienza della funzione motoria: spasticità, alterazioni del cammino, carenza di coordinazione, incapacità di mantenere la postura e debolezza muscolare. La sclerosi multipla richiede una gestione multidisciplinare della quale fanno parte protocolli di fisioterapia e riabilitazione. Tali protocolli includono vari approcci, da allenamenti ad alta intensità nelle forme lievi, allo yoga, a esercizi mirati a migliorare il bilanciamento. Fra le soluzioni più all’avanguardia c’è l’utilizzo di esoscheletri. Queste sono strutture basate su una tecnologia che permette, a una sorta di telaio che sostiene la persona, si seguire movimenti in base a specifici comandi. Al di là di aiutare malati con gravi disabilità di recuperare la capacità di muoversi, l’impiego dell’esoscheletro è considerato un approccio innovativo di riabilitazione, in base all’ipotesi che la ripetizione di movimenti orientati possa stimolare meccanismi di recupero funzionale nel midollo spinale. Inoltre, l’impiego del dispositivo permette di aumentare la durata totale dell’allenamento riducendo la necessità della presenza continua del fisioterapista. Il caso riportato da Sesenna e colleghi è quello di un malato di 71 anni al quale era stata diagnosticata una sclerosi multipla primariamente progressiva già nel 2012 e che aveva un valore di EDSS di 6. È stato sottoposto a 10 sessioni di fisioterapia con l’esoscheletro, compresa una introduttiva, della durata di 1 ora e mezza ciascuna, programmate due volte alla settimana. Tali sessioni sono state associate a sedute di fisioterapia convenzionale, una volta alla settimana. Non essendo disponibili protocolli di questo tipo già applicati in malati di sclerosi multipla, si è fatto riferimento a uno usato in persone con paraplegia. L’esoscheletro impiegato, prodotto da un’azienda italiana, fornisce un sostegno motorizzato agli arti inferiori con articolazioni artificiali alle anche, alle ginocchia, alle caviglie e ai piedi. Esso permette di allenare al cammino, scaricando completamente le gambe dal peso, ed è guidato da un programma che gestisce i movimenti. Nel corso delle sedute con l’esoscheletro sono stati raccolti numerosi riscontri mediante test standardizzati e sono state misurate variabili come pressione arteriosa e frequenza cardiaca. La prova ha dato esiti positivi, confermati dall’aumento della distanza cammino e dal miglioramento di altri parametri registrati.

Nelle conclusioni gli autori hanno evidenziato che, pur trattandosi dell’esperienza raccolta in un unico caso, le informazioni ottenute sono state molto promettenti circa il futuro impiego dell’esoscheletro in percorsi di riabilitazione di malati con sclerosi multipla.          

Source: Fondazione Serono SM