Questionario conoscere meglio le necessità di informazione delle persone con la sclerosi multipla

Il questionario proposto di seguito ha l’obiettivo di conoscere meglio le necessità di informazione delle persone con la sclerosi multipla, dei loro caregiver e degli altri utenti del sito interessati all’argomento.

Compilandolo, è possibile indicare su quali aspetti si ritiene di ricevere informazioni soddisfacenti dal Medico che cura la sclerosi multipla e su quali se ne raccolgono nei siti e nelle reti sociali. Per ciascuna fonte è possibile specificare il grado di soddisfazione riguardo alle informazioni che si ricevono.   

IL QUESTIONARIO

Source: Fondazione Serono SM


Epstein-Barr e sclerosi multipla: nuovi dati definiscono meglio la relazione

Sulla prestigiosa rivista Science è stato pubblicato un articolo che ha definito meglio il ruolo della mononucleosi, l’infezione provocata dal virus di Epstein-Barr, nello sviluppo della sclerosi multipla. Esso ha dimostrato che l’infezione provocata da questo virus si è associata a un rischio aumentato di 32 volte di ammalare di sclerosi multipla.

Il meccanismo di demielinizzazione caratteristico della sclerosi multipla si ritiene da tempo che possa essere attivato da un’infezione virale e, tra tutte quelle prese in considerazione quella provocata dal virus di Epstein-Barr, che provoca la mononucleosi, ha attirato la maggiore attenzione. Alcuni autori avevano già rilevato un rischio aumentato di ammalare di sclerosi multipla per le persone che avevano avuto la mononucleosi. Inoltre, nei malati di sclerosi multipla si erano misurate concentrazioni elevate di anticorpi diretti contro il virus di Epstein-Barr e tale virus, in alcune ricerche ma non in altre, era stato individuato nelle lesioni a carico della mielina. Tali evidenze, però, non erano state giudicate conclusive, per confermare una relazione causa/effetto tra le due malattie. Per fare chiarezza sul ruolo della mononucleosi nello sviluppo della sclerosi multipla, Bjornevik e colleghi hanno eseguito uno studio prospettico, nel quale hanno posto in relazione una precedente infezione da virus di Epstein-Barr con il successivo sviluppo della sclerosi multipla. Grazie alla ventennale collaborazione del Centro di ricerca che ha realizzato lo studio con l’esercito degli Stati Uniti, sono stati individuati casi di sclerosi multipla nell’ambito di del personale militare in servizio tra il 1993 e il 2013. Questa casistica è consistita in oltre 10 milioni di soggetti. Tutto il personale militare in servizio attivo è stato sottoposto a uno screening, per l’individuazione del virus dell’AIDS, al momento dell’entrata in servizio e, in seguito, ogni due anni. I campioni di siero che non sono stati utilizzati per la ricerca del virus dell’AIDS sono stati conservati presso un archivio del Dipartimento della Difesa. Gli autori della ricerca hanno usato una parte degli oltre 62 milioni di campioni disponibili per verificare se, i soggetti che avevano sviluppato in seguito la sclerosi multipla, in precedenza avessero avuto la mononucleosi. Sono stati 955 i militari che hanno presentato la sclerosi multipla nel periodo di servizio attivo. Per ciascuno di questi casi, Bjornevik e colleghi hanno analizzato fino a 3 campioni di siero raccolti prima della data di comparsa della sclerosi multipla. In particolare si è trattato: del primo campione disponibile, dell’ultimo raccolto prima della comparsa della sclerosi multipla e di un altro intermedio fra questi due. Per creare un gruppo di confronto, si sono selezionati, per ogni caso di sclerosi multipla, due soggetti, non affetti dalla malattia, ma che avessero la stessa età, fossero dello stesso sesso, della stessa razza, della stessa branca dell’esercito e nei quali i campioni di sangue erano stati raccolti nelle stesse date. Tutti comunque erano militari in servizio attivo. In totale sono stati selezionati 801 soggetti con sclerosi multipla e 1566 soggetti di controllo. Degli 801 casi con sclerosi multipla, solo 1 era risultato negativo all’infezione da virus di Epstein-Barr all’ultima verifica, prima della comparsa della sclerosi multipla. Il rapporto di rischio di sviluppare la sclerosi multipla in soggetti positivi per una pregressa infezione da virus di Epstein-Barr, rispetto ai negativi, è stato di 26.5; intervallo di confidenza al 95% 3.7-191.6; p=0.001. Al basale, 35 persone con la sclerosi multipla e 107 non affette dalla malattia erano negative, ma, dei 35 soggetti, tutti tranne 1 hanno avuto la mononucleosi durante il periodo di osservazione. La mediana del tempo intercorso tra il riscontro del primo esame positivo per la presenza del virus di Epstein-Barr e la comparsa della sclerosi multipla è stata di 5 anni e la mediana del tempo dalla sieroconversione stimata del virus di Epstein-Barr alla comparsa della sclerosi multipla è stata di 7.5 anni (intervallo 2-15 anni). Per sieroconversione gli autori hanno inteso il momento intermedio tra l’ultimo campione di sangue risultato negativo per la presenza del virus e il primo che ha dato riscontro positivo. L’elevata frequenza di sieroconversione per il virus tra le persone che hanno presentato la sclerosi multipla (97%) ha contrastato in maniera evidente con quella di chi non ha sviluppato la malattia (57%). Il rapporto di rischio di comparsa della sclerosi multipla, tra chi ha avuto la sieroconversione per il virus di Epstein-Barr e chi ha continuato a risultare negativo per la presenza del virus, è stato di 32.4 (intervallo di confidenza al 95%: 4.3 to 245.3; p<0.001). Nell’articolo sono stati riportati vari altri dati relativi alla casistica e gli autori hanno proposto anche ipotesi di meccanismi fisiopatologici che potrebbero correlare la pregressa mononucleosi con il successivo sviluppo di sclerosi multipla.

Nello stesso numero della rivista nel quale è stato pubblicato l’articolo di Bjornevik e colleghi è comparso anche un editoriale di commento che ha definito i dati dell’articolo come molto rilevanti e tali da confermare che l’infezione da virus di Epstein-Barr è l’evento scatenante dello sviluppo della sclerosi multipla.    Anche nell’editoriale si forniscono spiegazioni circa i meccanismi che potrebbero mettere in relazione le due malattie. Infine, si ipotizzano futuri sviluppi per la prevenzione e per la cura della sclerosi multipla, derivanti dalle evidenze raccolte da Bjornevik e colleghi.                          

Source: Fondazione Serono SM


Vitamina D e benessere mentale nella sclerosi multipla

Specialisti polacchi hanno eseguito una revisione della letteratura sugli effetti che può avere la vitamina D sul benessere mentale dei malati di sclerosi multipla. I risultati hanno indicato che ci può essere un effetto positivo emerso negli studi che hanno valutato l’impatto di questa vitamina sulla qualità di vita e in una ricerca che ne ha considerato l’influenza sui sintomi della depressione.

Per la vitamina D è stato proposto un ruolo promettente nella prevenzione e nella gestione della sclerosi multipla e se ne è rilevato un effetto positivo sul benessere mentale delle persone affette dalla malattia, che può essere ridotto. Glabska e colleghi hanno eseguito una revisione sistematica della letteratura per definire l’effetto dell’integrazione nutrizionale con vitamina D sul benessere mentale dei malati di sclerosi multipla. Si è impiegata la metodologia stabilita dalle Linee Guida PRISMA e la ricerca degli articoli è avvenuta nei maggiori archivi di letteratura scientifica, includendo quelli pubblicati fino al settembre 2021. Di tutte le pubblicazioni trovate, ne sono state selezionate 6, delle quali 2 riguardavano studi di confronto tra vitamina D e placebo e 4 riportavano i risultati di ricerche prospettiche. La somministrazione di vitamina D in alcuni studi è avvenuta previa randomizzazione e in altri senza applicare tale procedura. La durata della supplementazione è variata da 4 settimane a 12 mesi. Inoltre, quando si sono confrontati soggetti che avevano assunto la vitamina D con altri che non l’avevano assunta, gli effetti sono stati verificati dopo un certo numero di anni. Per valutare il benessere mentale, si è misurata la qualità di vita e si sono presi in considerazione i sintomi della depressione e l’astenia come ulteriore variabile. La maggioranza delle evidenze raccolte dagli studi ha dimostrato un’influenza positiva della vitamina D sul benessere mentale delle persone con sclerosi multipla, compresa la ricerca eseguita con la metodologia più rigorosa, che aveva previsto anche la randomizzazione dei trattamenti. Tutti gli studi che hanno misurato la qualità di vita hanno indicato un miglioramento di questo parametro, mentre quelli che non hanno rilevato un effetto positivo della vitamina D avevano come obiettivo principale la valutazione della depressione e dei sintomi depressivi. Nell’insieme, Glabska e colleghi hanno ritenuto che le prove disponibili a supporto dei benefici offerti dalla vitamina D sono stati sufficienti a supportare la sua efficacia sul benessere mentale dei malati di sclerosi multipla.

Nelle conclusioni gli autori hanno sottolineato che, considerando che la carenza di vitamina D è frequente nei malati di sclerosi multipla e che ci sono potenziali benefici sulla qualità di vita della sua somministrazione, come supplemento nutrizionale. Per questo il suo impiego dovrebbe essere applicato estesamente, almeno alle dosi comunemente raccomandate.            

Source: Fondazione Serono SM


Attività fisica e sclerosi multipla: una revisione della letteratura

Specialisti australiani hanno pubblicato una revisione della letteratura sull’esercizio fisico nella sclerosi multipla, trattando la storia di questo approccio, i suoi benefici, la sicurezza, le Linee Guida e la modalità per promuoverlo. In questo aggiornamento e in altri successivi verrà proposta una sintesi dei contenuti.

I benefici dell’esercizio nel migliorare la funzionalità fisica, quella mentale e il benessere generale sono inequivocabili, ma gli autori della revisione ad essi hanno aggiunto gli effetti positivi che l’attività può sviluppare in termini di protezione del sistema nervoso. A questo proposito hanno fatto riferimento alla grande mole di dati che si sta raccogliendo sul ruolo di neuroprotezione, che l’esercizio gioca nei confronti dei danni provocati da ictus, malattia di Parkinson e, appunto, sclerosi multipla. Nelle persone affette da questa malattia l’attività fisica riduce l’apoptosi delle cellule e la neurodegenerazione e può essere efficace nello stimolare la neuroplasticità, grazie all’incremento della funzionalità del sistema nervoso che si associa all’esercizio. Le evidenze raccolte nei modelli animali hanno dimostrato chiaramente modificazioni positive della struttura e della funzione del sistema nervoso indotte dall’esercizio. Nell’uomo si sono ottenute conferme dei suoi benefici sotto forma di risultati di esami come la risonanza magnetica e di esiti di esami di laboratorio indicativi dell’andamento dell’infiammazione. Ricerche specifiche hanno dimostrato che i malati di sclerosi multipla hanno più interesse per gli argomenti riguardanti la forma fisica, che per quelli relativi alle cure con farmaci. Gli operatori sanitari che li seguono, in particolare i neurologi, vengono da loro identificati come fonti essenziali di informazioni sui comportamenti che possono migliorare il loro benessere e, in particolare, sulle forme di attività fisica che possono aiutarli a stare meglio. Nell’articolo si segnala che a fornire un adeguato supporto alle persone con sclerosi multipla nel loro percorso di preparazione all’esercizio fisico deve essere un gruppo di professionisti ampiamente multidisciplinare, che comprenda neurologo, fisioterapista, terapista occupazionale, istruttore ed esperti di modificazioni dei comportamenti, come gli psicologi. Se non tutti i Centri dispongono di un gruppo di professionisti di questo tipo, sarebbe bene che i malati si rivolgessero a chi può fornire loro un supporto completo. Learmonth e Wayne Motl hanno ricostruito anche la storia dell’impiego dell’attività fisica nella sclerosi multipla, a partire da un caso clinico pubblicato nel 1838 dal neurologo scozzese John Abercrombie. In quel caso si descriveva il beneficio ottenuto da un malato di sclerosi multipla, in uno stato di salute generale buona, facendo una lunga passeggiata. Gli autori hanno anche passato in rassegna le ricerche che hanno valutato in maniera rigorosa gli effetti dell’attività fisica. Per quanto riguarda la sicurezza, l’esercizio svolto da chi ha la sclerosi multipla, se ritagliato sulla funzionalità fisica del singolo soggetto, non pone problemi diversi da quelli che si possono presentare in chi non è affetto da tale malattia. Per quanto riguarda le Linee Guida sull’argomento, Learmonth e Wayne Motl hanno ricordato che, nel 2013, ricercatori nordamericani si sono riuniti per discutere qualità e risultati degli studi clinici eseguiti fino ad allora sull’attività fisica sostenuta da adulti con sclerosi multipla di età compresa fra 18 e 64 anni. Gli esiti di questa riunione sono stati raccolti in una pubblicazione, che è diventata la base per un primo documento di Linee Guida nel quale si sono fornite raccomandazioni per lo svolgimento dell’esercizio da parte di malati con forme lievi o moderate di sclerosi multipla. Queste prime Linee Guida sono state aggiornate nel 2019 e nel 2020 per ampliarne l’applicazione.                              

L’esercizio fisico dovrebbe essere una componente della gestione della sclerosi multipla. Nei prossimi aggiornamenti si riprenderanno i contenuti della revisione della letteratura che possono essere di interesse per i malati.

Source: Fondazione Serono SM


Interruzione dei trattamenti e progressione della disabilità nella sclerosi multipla

Specialisti statunitensi hanno eseguito uno studio per valutare l’effetto sulla progressione della disabilità dell’interruzione delle cure con i farmaci modificanti la malattia. I risultati hanno indicato che, anche nei casi con malattia stabile, l’interruzione delle terapie ha determinato un peggioramento e una progressione della disabilità in una percentuale rilevante di soggetti.

I malati di sclerosi multipla con malattia stabilizzata, non percependo peggioramenti, a volte considerano non necessario continuare l’assunzione dei farmaci modificanti la malattia e la interrompono. D’altra parte, le Linee Guida, che pure forniscono indicazioni su tanti aspetti del trattamento, non ne danno di altrettanto dettagliate sugli effetti dell’abbandono delle cure. Per questo motivo, Jakimovski e colleghi hanno eseguito una ricerca che ha verificato l’evoluzione del quadro clinico dopo l’interruzione delle cure, in persone che avevano la sclerosi multipla da molti anni. Da un archivio denominato Consorzio della Sclerosi Multipla dello Stato di New York (New York State MS Consortium: NYSMSC) sono stati estratti 216 casi di soggetti che avevano abbandonato l’assunzione di farmaci modificanti la malattia e, in seguito, non avevano ricominciato ad assumerli. Tutti erano stati sottoposti ad almeno tre controlli per un periodo totale medio di 4.6 anni. L’andamento stabile della malattia è stato definito in base al mancato cambiamento, dal basale all’abbandono delle cure, del punteggio della EDSS. La stabilità è stata confermata per aumenti inferiori a 1.0 punti, se l’EDSS di partenza era inferiore a 6.0, o per aumenti di meno di 0.5 punti, se l’EDSS al basale era superiore o uguale a 6.0 punti. Sia le persone che continuavano ad avere un quadro stabile, sia quelle con peggioramenti sono state rivalutate dopo l’interruzione della terapia. Analisi ulteriori sono state fatte tenendo conto della forma di sclerosi multipla, del tipo di cura, dell’età dei soggetti, inferiore o superiore a 55 anni, e del punteggio di EDSS al basale, inferiore o superiore a 6.0. Della casistica considerata, 161 soggetti (72.5%) sono stati classificati come stabili prima dell’interruzione della cura. Dopo l’abbandono,53 persone (32.9%), che prima avevano quadri stabili di sclerosi multipla, hanno sviluppato un peggioramento e una progressione della disabilità. In particolare, il peggioramento è stato rilevato nel 29.2% dei casi con sclerosi multipla recidivante remittente e nel 40% di quelli con malattia secondariamente progressiva. A due anni dall’abbandono del trattamento, la frequenza di peggioramenti con progressione della disabilità è stata simile nelle persone più giovani o più anziane di 55 anni: 31.1% rispetto a 25.9%. Nei casi che al basale avevano una EDSS maggiore o uguale a 6, rispetto a quelli con un livello più basso di EDSS, la disabilità è peggiorata di più sia prima, che dopo l’interruzione della terapia: 40.7% rispetto a 15.4% (p<0.001) e 39.6% rispetto a 15.2% (p<0.001). Nelle conclusioni gli autori hanno evidenziato che, anche nei malati di sclerosi multipla con un quadro stabile della malattia, l’interruzione dell’assunzione delle cure ha determinato un peggioramento e una progressione della disabilità in una percentuale importante di soggetti, a prescindere dall’età e dalla forma della malattia. Tale peggioramento è stato più evidente nei casi con EDSS al basale maggiore o uguale a 6.0.                    

Source: Fondazione Serono SM


Trattamento e pianificazione della gravidanza nelle donne con sclerosi multipla

La sclerosi multipla (SM) è una malattia autoimmune demielinizzante e degenerativa del sistema nervoso centrale (SNC). La SM ha tipicamente un decorso iniziale recidivante-remittente (RR), con episodi di danno infiammatorio del SNC che di solito si risolvono, almeno parzialmente. Circa il 5-15% dei pazienti ha invece un decorso progressivo dall’esordio, noto come forma primariamente progressiva (PP) [1]. La SM viene in genere diagnosticata tra i 20 ei 40 anni e più comunemente nelle donne rispetto agli uomini. Il rapporto tra i sessi nella SMRR è in costante aumento dagli anni ’50 ed è di circa 3:1 [2,3]. Pertanto, la malattia è sproporzionatamente gravata sulle donne in età fertile. 

Storicamente, le donne con SM erano scoraggiate dall’avere figli. Questa visione è cambiata dalla fine degli anni ’90, a seguito dello studio sulla gravidanza nella SM (PRIMS). Lo studio PRIMS ha dimostrato che l’attività di recidiva diminuisce durante la gravidanza, specialmente nel terzo trimestre, sebbene aumentasse dopo il parto [4]. Questo risultato è stato replicato in numerosi studi che mostrano che tra il 14 e il 31% delle donne sperimenta una ricaduta nei primi 3 mesi dopo il parto [4-7]. In coorti di SM più recenti, questo rischio di recidiva post-partum può essere attenuato [8]. Gli studi non hanno identificato un chiaro impatto della gravidanza stessa sulla disabilità a lungo termine [9,10], sebbene le ricadute associate alla gravidanza abbiano probabilmente un impatto [11]. Negli ultimi 20 anni, sono disponibili nuove terapie modificanti la malattia (DMT), insieme a una serie di equivalenti generici. Dieci classi di DMT sono ora disponibili per la SMRR [12]. Ocrelizumab (OCZ), una terapia anti-CD20 per la deplezione delle cellule B, è diventato il primo farmaco approvato per la SMPP [13]. L’introduzione di terapie più efficaci ha portato alla stabilizzazione della malattia in pazienti precedentemente refrattari alle terapie disponibili e a un aumento di donne con disabilità moderata che tentano una gravidanza [7,14,15]. 

Non tutte le terapie per la SM sono indicate nelle donne che pianificano una gravidanza a causa della potenziale teratogenicità. Sebbene possa sembrare sensato interrompere la DMT nelle donne che pianificano di concepire, la prolungata mancata assunzione del farmaco può portare alla ricomparsa dell’attività della malattia. La gestione delle donne con SM in età fertile richiede quindi un piano che preveda la pianificazione della gravidanza, la gravidanza e il periodo post-partum. Devono essere presi in considerazione l’attività della malattia, l’impatto della sospensione della terapia e gli effetti della terapia sul feto, insieme a decisioni per l’allattamento al seno. Esamineremo le opzioni di trattamento farmacologico durante la pianificazione della gravidanza, durante la gravidanza e dopo il parto nelle donne con SM.

Trattamento farmacologico durante la pianificazione della gravidanza e durante la gravidanza

Quando si discute del trattamento della SM nelle donne in età riproduttiva, l’argomento dovrebbe includere la discussione sulla sicurezza del DMT prima e durante la gravidanza. Poiché le ricadute in genere diminuiscono durante la gravidanza, la maggior parte delle donne è in grado di interrompere in sicurezza il trattamento. Il rischio di recidiva è più alto nel primo trimestre di gravidanza, che dovrebbe essere preso in considerazione quando si programmi l’interruzione della DMT. Le donne con SM più attiva o in terapia con DMT con rischio di riattivazione della malattia dopo l’interruzione devono pianificare attentamente il trattamento prima della gravidanza per ridurre il rischio di recidiva. Come regola generale, per evitare la teratogenicità, un farmaco deve essere interrotto almeno 5 emivite massime prima del concepimento. Tuttavia, dati recenti, sebbene limitati, hanno consentito una valutazione più specifica della sicurezza del DMT durante la gravidanza. La maggior parte dei dati sull’esposizione nel primo trimestre sono disponibili per i farmaci iniettabili, inclusi glatiramer acetato (GA) e interferone-beta (IFN-beta), risultati sicuri fino al concepimento. Ci sono meno dati disponibili sull’esposizione durante la gravidanza, poiché la maggior parte delle donne interrompe il DMT quando viene a conoscenza della gravidanza nel primo trimestre. Sulla base dei dati, è probabile che GA sia sicuro per tutta la gravidanza. 

L’Associazione Europea dei Medicinali (EMA) e la Food and Drug Administration (FDA) hanno recentemente aggiornato i dati per IFN beta-1a indicando che non vi è alcun aumento del rischio con l’esposizione all’inizio della gravidanza negli esseri umani, e l’EMA specifica che questa molecola può essere usata durante la gravidanza [16,17]. Sono previsti aggiornamenti dell’FDA per altri IFN-beta. I dati per i DMT orali sono eterogenei. Non sembra esserci un aumento del rischio di aborto spontaneo o anomalie congenite con dimetilfumarato (DMF) negli studi sull’uomo. La sua emivita è breve, quindi può essere interrotto quando si tenta una gravidanza o in seguito a un test di gravidanza positivo, sebbene la continuazione all’inizio della gravidanza richieda di soppesare rischi e benefici visto che i dati sono pochi. C’è preoccupazione per un rischio raddoppiato di malformazioni congenite con fingolimod (FGL), quindi questo deve essere interrotto almeno 2 mesi prima di tentare il concepimento [18-20]. Sfortunatamente, l’interruzione di FGL può provocare la riattivazione della malattia durante il periodo del concepimento o la gravidanza [14], quindi la terapia ponte prima della gravidanza deve essere pianificata con attenzione, sebbene il rischio di ricaduta durante la transizione non sia chiaro. Le informazioni per siponimod (SPN) [21] non sono ancora disponibili, ma probabilmente ha effetti simili a FGL, sebbene la sua emivita più breve consenta l’interruzione 10 giorni prima del concepimento. I dati sull’uomo per l’esposizione alla cladribina (CLAD) in gravidanza sono limitati, benché negli animali esposti si siano verificati casi di letalità embrionale e malformazioni e la gravidanza dovrebbe essere tentata quindi almeno 6 mesi dopo l’ultima dose di CLAD sia per le donne sia per gli uomini [22-24]. CLAD ha benefici a lungo termine per la SM dopo l’eliminazione del farmaco, quindi può essere un’opzione utile nelle donne che pianificano una gravidanza in anticipo, purché non si tenti una gravidanza fino a 6 mesi dopo l’ultima dose. Teriflunomide (TER) è controindicata per le donne in gravidanza a causa dell’embrioletalità e della teratogenicità negli animali, ed è richiesto un protocollo di eliminazione accelerata con conferma del livello sierico inferiore a 0,02 mg/L prima di tentare il concepimento e tale procedura è suggerita anche dalla FDA per gli uomini [25-27]. È interessante notare che negli esseri umani la prevalenza di malformazioni maggiori non è aumentata dopo l’esposizione a TER o leflunomide in un campione limitato (>400 gravidanze) [27]. Anche se le donne rimanessero gravide accidentalmente mentre sono sottoposte a DMT potenzialmente “pericolosi”, la maggior parte degli embrioni si svilupperebbe normalmente in base alle attuali conoscenze. Pertanto, è importante consigliare attentamente le donne individualmente, utilizzando i dati di sicurezza più aggiornati in caso di esposizione accidentale in gravidanza. 

Alcune terapie con anticorpi monoclonali (mAb) offrono vantaggi durante la pianificazione della gravidanza, inclusi effetti biologici di lunga durata e benefici sull’attività della malattia dopo l’eliminazione del farmaco, nonché un trasferimento placentare limitato di IgG durante il primo trimestre [28]. Ci sono dilemmi nell’uso di mAb prima della gravidanza; ad esempio, la gravidanza è raccomandata dall’EMA solo almeno 12 mesi dopo l’infusione di OCZ [29] rispetto ai 6 mesi della indicati daFDA [30]. I rischi di malformazioni congenite probabilmente non sono elevati con rituximab (RTX) [31] o OCZ [32]. Un rischio leggermente più elevato di aborto spontaneo con RTX è stato riscontrato in un recente campione basato sulla popolazione di 74 gravidanze nella SM [33], ma non in una precedente revisione sistematica di 102 gravidanze trattate per varie condizioni [31]. Sono stati riportati bassi conteggi di cellule B nei neonati le cui madri hanno ricevuto RTX [31,34] o OCZ [35] durante la gravidanza e il sangue del cordone ombelicale deve essere controllato. In base alla loro emivita, questi farmaci vengono generalmente eliminati entro 3,5-4,5 mesi dopo un’infusione [29,30,36,37] e poiché le IgG non attraversano la placenta fino al secondo trimestre, si può tentare una gravidanza 1-3 mesi dopo RTX o OCZ nelle donne con SM più attiva. Ciò riduce al minimo l’esposizione fetale offrendo allo stesso tempo benefici immunomodulatori per diversi mesi [38]. Se la gravidanza non viene raggiunta entro 6-9 mesi dalla somministrazione, le donne potrebbero essere infuse ritardando i tentativi di concepimento per un periodo appropriato. 

Per i mAbs anti-CD20, rimane l’incertezza riguardo al rischio di infezione, specialmente per le donne con una durata di trattamento più lunga e/o basse immunoglobuline. Esistono dati limitati sull’uso di mAb anti-CD20 durante la gravidanza e questi dovrebbe essere riservati alle donne con SM aggressiva o disturbi dello spettro della neuromielite ottica (NMOSD) [39]. Alemtuzumab (ATZ) offre anche effetti immunomodulatori prolungati dopo l’eliminazione del farmaco ed è un’altra opzione in età fertile, con il concepimento possibile 4 mesi dopo l’ultima infusione per limitare l’esposizione fetale [40,41]. C’è un alto rischio di malattia tiroidea autoimmune con ATZ, quindi il monitoraggio della funzione tiroidea deve continuare durante la gravidanza [40]. A differenza di altri mAb, gli effetti biologici di natalizumab (NTZ) non sono così duraturi. Il re-treatment è necessario ogni 4-8 settimane, con il rischio di riattivazione della malattia dopo l’interruzione [42-44]. I rischi di aborto spontaneo e di malformazioni congenite probabilmente non sono elevati con NTZ, ma l’esposizione durante la gravidanza è associata ad anomalie ematologiche [35,45,46], basso peso alla nascita e aumento dei ricoveri nel primo anno di vita [35]. L’interruzione del NTZ al momento di un test di gravidanza positivo o prima del concepimento rischia la riattivazione della malattia durante la gravidanza [14,44]. Le opzioni per limitare questo rischio includono il passaggio a un agente depletivo prima della gravidanza [29,38], o per le donne con malattia anamnesticamente attiva, continuare con NTZ ogni 8 settimane fino a 34 settimane di gestazione [35,46]. In caso di esposizione tardiva alla gravidanza, il neonato dovrebbe essere valutato per citopenie [45]. La pianificazione della gravidanza per le donne con SM dipende quindi dalla gravità della loro SM e dall’attuale DMT.

Nelle donne con malattia meno attiva, le terapie iniettabili possono essere continuate fino a un test di gravidanza positivo o per tutta la gravidanza. La decisione di continuare i farmaci iniettabili durante la gravidanza deve essere presa con un’attenta valutazione del rapporto rischio-beneficio, poiché i dati sull’esposizione oltre il primo trimestre sono scarsi, includendo la discussione sul tempo impiegato per ottenere il pieno effetto biologico alla ripresa della DMT. Nelle donne con malattia più attiva, l’uso di terapie di induzione altamente efficaci come RTX, OCZ, ATZ o CLAD può essere preso in considerazione prima della gravidanza con eliminazione appropriata a seconda del DMT, senza ulteriori somministrazioni durante la gravidanza. Le donne con SMPP possono utilizzare in modo simile terapie di deplezione delle cellule B prima del concepimento. 

Sono necessari più dati sulla sicurezza di questi approcci e sull’entità del rischio di recidiva quando si cambia DMT. La vitamina D3 dovrebbe essere integrata prima e durante la gravidanza, mirando a livelli ematici medio-alti, con un massimo di 4000 UI di vitamina D3 al giorno accettabile. Terapie sintomatiche per affaticamento, depressione, spasticità e deambulazione devono essere discusse con il neurologo e l’ostetrico prima della gravidanza, poiché molte di queste comportano rischi fetali associati e devono essere interrotte prima del concepimento. In caso di recidiva durante la gravidanza, si può prendere in considerazione un breve ciclo di corticosteroidi ad alte dosi. Questa strategia è spesso limitata a gravi recidive, specialmente nel primo trimestre poiché non si possono escludere rischi fetali come schisi orofacciale e peso alla nascita ridotto [47] e per il rischio di precipitare il diabete gestazionale. Metilprednisolone o il prednisone è preferito data la minore esposizione fetale rispetto al desametasone o al betametasone. Questo perché il trasferimento placentare di desametasone o betametasone potrebbe provocare effetti sull’utero come la promozione della maturità polmonare fetale, nonché effetti sullo sviluppo neurologico a lungo termine [48]. Per le recidive più gravi che non rispondono agli steroidi ad alte dosi, può essere preso in considerazione lo scambio plasmatico [49].

Sicurezza dei farmaci durante l’allattamento

Mancano le linee guida per l’uso del DMT durante l’allattamento e, in generale, sono necessari ulteriori studi su allattamento e assunzione di DMT, nonché una valutazione della sicurezza a lungo termine nei neonati esposti ai DMT nel latte materno, per comprendere meglio i rischi associati. In generale, diversi fattori influenzano il trasferimento del farmaco nel latte materno, come il peso molecolare, la liposolubilità, il legame proteico, il volume di distribuzione, i meccanismi di trasporto e lo stadio del latte materno (maggiore trasferimento al colostro rispetto al latte maturo [50]. Altri fattori da considerare includono la biodisponibilità orale di un farmaco in un neonato se entra nel latte materno e la potenziale tossicità di un particolare farmaco per il neonato. 

Nonostante la comprensione del trasferimento del farmaco basata sulle proprietà del farmaco e sugli studi sull’allattamento animale, sono necessari studi sull’uomo per valutare il trasferimento del farmaco nel latte materno nelle donne trattate. La dose relativa infantile (RID) è una misura del trasferimento del latte materno ed è la percentuale della dose materna consumata attraverso il latte materno in 24 h .Valori RID inferiori al 10% sono generalmente accettabili per l’allattamento al seno, sebbene anche la tossicità del farmaco influenzi la sicurezza durante l’allattamento[51]. Sulla base dei dati attualmente disponibili, i DMT iniettabili e mAb sono probabilmente compatibili con l’allattamento al seno, mentre i DMT orali sono molto probabilmente meno sicuri durante l’allattamento, almeno in teoria, ma i dati sul trasferimento del latte materno non sono disponibili per la maggior parte dei farmaci. Tra gli iniettabili, GA è una grande molecola che suggerisce un trasferimento limitato nel latte materno senza effetti avversi previsti per il bambino, sebbene non ci siano studi sugli animali o sull’uomo sul trasferimento nel latte materno [52]. Anche gli IFN-beta sono molecole grandi, con uno studio sull’uomo che mostra un RID accettabile dello 0,006%[61]. Ciò suggerisce che IFN-beta è compatibile con l’allattamento al seno, e IFN-beta è stato recentemente approvato per l’uso durante l’allattamento dall’EMA[16], e la FDA ha aggiornato i dati sulla bassa presenza di IFN-beta-1a nel latte materno [17,55]. Ci sono prove rassicuranti da una recente revisione sistematica che gli anticorpi monoclonali IgG1 infusi, che sono grandi molecole, si trasferiscano in piccole quantità nel latte materno [55]. Inoltre, anche se ingeriti nel latte, hanno una biodisponibilità orale limitata. Sebbene alcune molecole di IgG non digerite entrino nella circolazione neonatale attraverso il recettore neonatale Fc nei roditori, questo assorbimento orale sembra essere molto più basso nell’uomo [56]. Ad oggi, gli studi non hanno rilevato effetti negativi sulla salute dei neonati allattati al seno da madri trattate con mAb [55,57]. 

Gli anticorpi monoclonali IgG1 utilizzati per la SM includono ATZ, OCZ e RTX. C’è un basso trasferimento di latte materno di RTX, suggerendo che questo è compatibile con l’allattamento al seno [58]. Inoltre, è stata riportata una normale conta delle cellule B in 5 bambini che hanno ricevuto RTX o OCZ durante l’allattamento [35]. Sono necessari studi sul trasferimento del latte materno per ATZ e OCZ, sebbene si preveda che il trasferimento sia altrettanto basso e che le molecole di IgG1 infuse non entrino nella circolazione neonatale in quantità biologicamente rilevanti. NTZ, una molecola IgG4, potrebbe avere un trasferimento maggiore nel latte materno, con un RID stimato fino al 5,3% [64]. Sebbene vi sia una preoccupazione teorica per gli effetti cumulativi con il dosaggio mensile, uno studio recente non ha trovato prove di accumulo di NTZ nel latte materno dopo un massimo di 4 infusioni e nessuna anemia in 2 neonati esposti solo attraverso il latte materno [35]. Ciò suggerisce che il bambino che allatta al seno non assorbe in modo significativo NTZ. Sfortunatamente, il piccolo peso molecolare dei DMT orali può consentire il trasferimento nel latte materno e la loro biodisponibilità orale aumenta la probabilità di assorbimento se il latte materno viene ingerito dal bambino. Il trasferimento di FGL, SPN e TER nel latte materno è stato dimostrato in studi su animali [18,19,21,25,26], ma non sono stati riportati studi sull’uomo. Al momento, i DMT orali non sono raccomandati e CLAD è specificamente controindicata [22,23] durante l’allattamento. Il metilprednisolone, che è usato sia per prevenire che per trattare le ricadute dopo il parto, viene trasferito nel latte materno [60,61]. Lo studio più ampio ha incluso 9 pazienti trattati per recidiva acuta con 1000 mg ev di metilprednisolone al giorno per 3 giorni e 7 pazienti trattati una volta al mese su base profilattica; RID era 0,71%, che è ben all’interno dell’intervallo accettabile [60].

Trattamento farmacologico post-partum

Esiste preoccupazione per un aumento del rischio di recidive di SM post-partum [4], sebbene questo rischio fosse più basso in una recente coorte di SM con forma meno grave [8]. Nelle donne che non hanno intenzione di allattare o che non possono a causa di fattori materni o neonatali, si raccomanda una rapida ripresa della DMT entro 2-4 settimane dopo il parto. Dato l’effetto protettivo dell’allattamento al seno sulle ricadute della SM, le donne con SM che desiderano allattare dovrebbero essere incoraggiate ad allattare esclusivamente al seno, se possibile, per i primi 6 mesi.. Per le donne con SM più attiva, possono essere prese in considerazione strategie di trattamento aggiuntive, inclusi i DMT, da utilizzare durante l’allattamento al seno per ridurre ulteriormente il rischio di recidiva post-partum. Per queste donne, quando si valuta se riprendere o meno il DMT prima dello svezzamento, i medici e le pazienti dovrebbero considerare il rischio di ricadute post-partum e i potenziali effetti avversi dell’uso di DMT durante l’allattamento al seno del bambino. Per le donne con SM più attiva e più alto rischio di ricadute post-partum, i benefici sia dell’allattamento al seno che dell’uso di DMT iniettabili o mAb possono superare i rischi teorici per il bambino. Allo stesso modo, l’uso di mAb durante l’allattamento al seno è stato raccomandato per le forme NMOSD [39]. Se le recidive si verificano dopo il parto, i corticosteroidi sono il trattamento di prima linea e occasionalmente i corticosteroidi possono essere somministrati anche dopo il parto per prevenire le ricadute con dati di supporto limitati [62]. Il metilprednisolone può essere utilizzato durante l’allattamento poiché il trasferimento nel latte materno è basso [60,61]. Le immunoglobuline endovena (IVIG) non sono un trattamento standard per le recidive della SM e, sebbene controversi, dati recenti non hanno supportato il loro uso nella profilassi contro le ricadute post-partum [63]. Inoltre, i rischi di tromboembolia venosa associati alle IVIG sono particolarmente preoccupanti nel periodo post-partum, quando questo rischio è già elevato.

Conclusioni

Idealmente, la consulenza sulla pianificazione familiare dovrebbe iniziare prima del concepimento per garantire l’attuazione di strategie per proteggere la salute e il benessere della madre, così come quella del feto e infine del neonato. La pianificazione della gravidanza dovrebbe considerare l’attività della malattia materna, il rischio di riattivazione della malattia con l’interruzione della terapia, il rischio di recidiva post-partum e i piani di allattamento al seno. L’allattamento al seno può essere protettivo contro le ricadute post-partum; tuttavia, nelle donne con malattia attiva, deve essere preso in considerazione l’uso concomitante di alcuni DMT. I dati emergenti dimostrano che le terapie con anticorpi iniettabili e monoclonali possono essere prese in considerazione durante l’allattamento. 

Source: Fondazione Serono SM


L’uso della tecnologia digitale per lo studio della sclerosi multipla

La sclerosi multipla è la più frequente causa di disabilità non traumatica nei giovani e comprende una grande varietà di sintomi neurologici, come debolezza, instabilità e deficit visivi. Tuttavia, diversi sintomi sono molto difficili da valutare durante la visita neurologica (ad es., affaticamento, dolore, disturbi cognitivi) e, pertanto, sono spesso chiamati sintomi “invisibili”, pur rappresentando un’importante causa di peggioramento della qualità della vita. È quindi necessaria una valutazione multidisciplinare e multidimensionale delle persone con sclerosi multipla, al fine di gestire i sintomi in maniera completa, e la tecnologia digitale potrebbe venirci in aiuto in tal senso.

La tecnologia digitale in ambito sanitario include interventi terapeutici e processi di raccolta dati, e si avvale di diversi strumenti, come cellulari, siti internet, applicazioni e altri dispositivi. Come in altri settori della medicina, anche in ambito sclerosi multipla si sta cercando di ottenere il massimo dalla tecnologia digitale; questa necessità è stata ulteriormente accentuata dalla recente emergenza sanitaria COVID-19 con la necessità di seguire i pazienti a distanza. In questo articolo vogliamo esaminare proprio le diverse modalità con cui la tecnologia è stata utilizzata negli studi clinici per lo sviluppo di farmaci per la sclerosi multipla.

Innanzitutto, la tecnologia digitale è stata usata come intervento terapeutico in ambito riabilitativo e psicologico. Diversi studi infatti hanno usato esercizi basati su realtà virtuale per migliorare le funzioni motorie (inclusa la spasticità), l’affaticamento e le funzioni cognitive. Gli esercizi in realtà virtuale prendono il nome di exergames (una parola intermedia tra esercizio e gioco), perché combinano l’esercizio fisico terapeutico alle componenti divertenti dei videogiochi. Inoltre, la psicoterapia potrebbe essere sviluppata interamente via internet e consentirebbe di migliorare la gestione globale della persona e della sclerosi multipla.

Inoltre, diversi studi hanno usato la tecnologia per migliorare le misurazioni cliniche attualmente utilizzate in ambulatorio sclerosi multipla. I tempi della visita sono necessariamente ristretti e la tecnologia può quindi venirci in aiuto per migliorare la sensibilità dei nostri parametri di valutazione. Ad esempio, la scala EDSS (Expanded Disability Status Scale) è la più comunemente usata in ambito sclerosi multipla e può essere effettuata, nell’ambito di specifici protocolli, interamente online (su tablet) con revisione in tempo reale dei risultati. Questo, ad esempio, consente non solo di migliorare la sensibilità della scala, ma anche di ridurre il rischio di incongruenze. Si stanno inoltre sviluppando alcune App per somministrare test, prove motorie e cognitive e questionari che valutano più aspetti della sclerosi multipla come, ad esempio, la capacità di deambulare, le abilità cognitive, le attività motorie e le funzioni visive. Probabilmente, in futuro, si andranno a integrare le misure cliniche tradizionali con quelle digitali, in modo da avere una visione più completa sulla persona con sclerosi multipla. Tali possibilità di monitoraggio saranno ulteriormente perfezionate grazie alle tecniche di intelligenza artificiale che potrebbero consentire di misurare il livello funzionale della persona con sclerosi multipla in automatico utilizzando, ad esempio, i sensori già presenti nei cellulari di nuova generazione.

Infine, la tecnologia digitale può essere utilizzata per migliorare il riconoscimento di problematiche cliniche e terapeutiche che sarebbero impossibili da valutare in una visita ambulatoriale tradizionale. Queste possibilità rientrano nell’ambito del patient empowerment (letteralmente, potere al paziente) che consente di mettere al centro proprio le necessità della persona con sclerosi multipla. Ad esempio, è stata sviluppata una App per il monitoraggio in tempo reale dell’affaticamento, che potrebbe consentire anche la valutazione della risposta terapeutica. Diverse applicazioni si sono invece dedicate a monitorare l’aderenza (quanto una terapia prescritta viene effettivamente assunta); ad esempio, ci sono sistemi di iniezione che registrano le iniezioni effettuate, così come ci sono dei contenitori per pillole/compresse che registrano quando vengono aperti, in modo da verificare se i medicinali prescritti vengono assunti secondo lo schema raccomandato. Ovviamente, un monitoraggio accurato dell’aderenza può consentire di individuare precocemente una terapia meno gradita alla persona con sclerosi multipla, consentendo il cambio di medicinale in piena sicurezza.

Tuttavia, vi sono delle limitazioni nell’uso della tecnologia digitale nella sclerosi multipla. Innanzitutto, l’accesso a computer e internet è differente in diverse nazioni, regioni, città ecc. e, quindi, non tutte le persone possono beneficiarne ugualmente. In ambito sclerosi multipla poi possono esservi limitazioni derivanti anche dall’eventuale disabilità fisica e cognitiva, che richiedono la creazione di strumenti di facile utilizzo. Infine, esistono limitazioni dovute ai costi che, con qualche rara eccezione, non sono coperti dal sistema sanitario nazionale. Saranno quindi necessari ulteriori studi che dimostrino l’importanza di questi strumenti digitali per il benessere della persona con sclerosi multipla.

In conclusione, abbiamo presentato come gli studi clinici in ambito sclerosi multipla stiano usando le tecnologie digitali per favorire l’accesso, l’aderenza e l’efficacia di riabilitazione motoria e cognitiva, per standardizzare la raccolta e l’interpretazione delle misure cliniche e per individuare caratteristiche cliniche e terapeutiche che altrimenti rimarrebbero inesplorate. Negli studi svolti, nel corso dello sviluppo di questi strumenti si è vista l’importanza che rivestono le persone con SM intorno alle loro necessità, imponendo di fatti un cambiamento culturale con il posizionamento della persona al centro del percorso di cura.

Source: Fondazione Serono SM


Le cure palliative nella sclerosi multipla

Nonostante i trattamenti disease-modifying, sempre più disponibili, permettano una visione più ottimistica della prognosi della sclerosi multipla, peraltro prognosticamente molto eterogenea, dobbiamo ancora prenderci cura di persone con sclerosi multipla che presentano una grave disabilità.

L’Associazione Italiana Sclerosi Multipla stimava in 6221 il numero di persone con sclerosi multipla con “disabilità gravissima” (ovvero con un punteggio >8,5 alla EDSS, secondo la definizione del Fondo Non Autosufficienza) nel 2017 [1].

La sclerosi multipla, determinando un possibile danno di qualsiasi funzione del sistema nervoso centrale, pone la necessità di fronteggiare tutta una serie di bisogni correlati alla compromissione dei diversi sistemi funzionali: visivo, troncoencefalico (ad es., disartria, disfagia, nevralgia trigeminale, compromissione della motilità oculare), piramidale (fino a tetraplegia e spasticità), cerebellare (fino all’impossibilità di effettuare movimenti coordinati), sensitivo (non solo perdita delle sensibilità ma spesso componente algo-disestesica), intestinale/vescicale/sfera sessuale (incontinenza urinaria e/o fecale, stipsi cronica grave, ritenzione urinaria; non solo disfunzione sessuale ma anche difficoltà a mantenere le funzioni sessuali per problemi pratici e relazionali), cognitivo-comportamentale (fino alla demenza grave). Ci sono poi da considerare disturbi complessi e di più difficile valutazione e correlazione fisiopatologica, su cui si stratificano anche danni ed effetti secondari: la fatica sclerosi multipla-correlata, l’insufficienza respiratoria restrittiva, le polmoniti ab ingestis, le infezioni (polmoniti, infezioni delle vie urinarie ecc.), le lesioni da decubito, i disturbi psicopatologici, altre manifestazioni di dolore (neuropatico, somatico e viscerale) e altri disturbi disautonomici.

È dunque intuitivo comprendere che una persona con sclerosi multipla e grave disabilità ha bisogni molto complessi che si estendono anche al nucleo familiare e ai caregiver formali e informali. È una persona fragile esposta a gravi complicanze che possono metterla di fronte alla morte o a condizioni di vita particolarmente difficili come quelle condizionate dalla necessità di continui mezzi di assistenza vitale. È una persona che è costretta a vivere a lungo con la propria disabilità, con bisogni che sono spesso altrettanto complessi e gravi quanto quelli di una persona con malattia oncologica terminale alla fine della sua vita.

L’approccio sintomatico tradizionale trova in queste situazioni un valore aggiunto in un intervento più globale che è quello delle “Cure Palliative” (CP) che la Legge italiana [2] definisce come “l’insieme degli interventi terapeutici, diagnostici e assistenziali, rivolti sia alla persona malata sia al suo nucleo familiare, finalizzati alla cura attiva e totale dei pazienti la cui malattia di base, caratterizzata da un’inarrestabile evoluzione e da una prognosi infausta, non risponde più a trattamenti specifici”.

Dunque, le CP sono la cura “attiva” e “globale” prestata alla persona quando la sua malattia non risponde più alle terapie aventi come scopo la guarigione o meglio, nel caso della sclerosi multipla, al controllo della malattia, visto che per definizione la sclerosi multipla è attualmente una malattia inguaribile.

Il controllo del dolore e degli altri sintomi, dei problemi psicologici, sociali e spirituali assume importanza primaria.

Le CP hanno carattere interdisciplinare e coinvolgono il malato, la sua famiglia e la comunità in generale. Prevedono una presa in carico della persona malata e delle persone a lui prossime, che si preoccupi di garantire attenzione ai bisogni ovunque si trovi (a casa, in ospedale ecc.).

Diverse pubblicazioni propongono, anche in Italia, un approccio palliativo in Neurologia precoce e simultaneo, multiprofessionale e multidisciplinare, con diversificazione di intervento “di base/generale” (personale formato ma non dedicato) e “specialistico” (Unità di CP) [3-6]. Vediamo di che cosa si tratta.

Per approccio palliativo precoce e simultaneo si fa riferimento a un modello assistenziale in cui le CP non si occupano più soltanto del “fine vita” e si erogano a prescindere da una prognosi in termine di morte biologica più o meno imminente, e a prescindere dal mantenimento di un approccio sintomatico ad “alta tecnologia” o addirittura di una terapia disease-modifying. Nella sclerosi multipla la simultaneità delle CP trova giustificazione in una serie di interventi, farmacologici e non, che hanno prove di efficacia anche nella disabilità che avanza: i) trattamenti riabilitativi; ii) interventi sintomatici complessi sulla spasticità (ad es., pompa al baclofen); iii) continuazione di farmaci disease-modifying in fase avanzata di malattia, considerando il nuovo approccio terapeutico nelle forme progressive [7].

Le CP devono intervenire più precocemente nella traiettoria di malattia in modo da identificare e anticipare i bisogni (esempio di medicina proattiva) e trattare i sintomi in fase precoce, rispettando le preferenze del malato e mettendo in atto tutte le misure (non solo di tipo medico/infermieristico, ma anche psicologico, sociale e spirituale) per migliorare la sua qualità di vita e quella del suo nucleo di affetti, in senso “attivo” e “globale”.

L’approccio “globale” delle CP è fondamentale proprio per garantire che alcune scelte assistenziali siano valutate non per il loro effetto su un singolo problema ma per l’impatto sulla qualità di vita generale.

Si sottolinea la descrizione delle CP come cure “attive” proprio per contrastare il senso deteriore che ancora si dà nel linguaggio comune al termine “palliativo”, equivocandolo con una situazione in cui “non c’è più niente da fare” perché la terapia disease-modifying ha fallito, in cui resta solo da assistere “passivamente” all’impatto devastante della malattia. Le CP si pongono proprio nello spazio del cosiddetto “fare altro”, rispetto a scelte terapeutiche non più indicate o non accettate dal malato.

Riformulando e completando quanto detto sopra, l’approccio palliativo trova un presupposto fondamentale nel porre la qualità di vita del malato e dei suoi cari a livello prioritario, sottoponendo trattamenti finalizzati a singoli obiettivi, anche quelli relativi al prolungamento della vita biologica, al giudizio del loro impatto sulla qualità di vita e alle preferenze della persona malata, senza mai abbandonare le cure.

Riprendendo la definizione di CP della European Association for Palliative Care (EAPC): “Le cure palliative rispettano la vita e considerano il morire un processo naturale; il loro scopo non è quello di accelerare o differire la morte, ma quello di preservare la migliore qualità della vita possibile fino alla fine” [8]. E tale accompagnamento “fino alla fine” è generalmente molto lungo nel caso delle forme progressive di sclerosi multipla che determinano elevata disabilità.

Le competenze palliative risultano utili nella pianificazione condivisa delle cure (così la Legge italiana [9] definisce il termine advance care planning, più comune nella letteratura internazionale) e nell’indirizzo a scelte come quella dell’amministrazione di sostegno che rappresenta uno strumento di tutela legale per il malato [10].

Alcuni anni or sono, nel consueto spazio delle “Controversies in Multiple Sclerosis” della rivista Multiple Sclerosis Journal, si è discusso il tema dell’eutanasia e dell’assistenza medica al suicidio [11-13].

Si tratta di un tema che rappresenta una grande sfida nell’ambito dell’etica clinica e del diritto e che sta diventando sempre più critico anche alla luce della sentenza 242/2019 della Corte Costituzionale [14] (intervenuta sul decesso di Fabiano Antoniani, più noto come “DJ Fabo”, in relazione a un’accusa di istigazione e aiuto al suicidio) e dell’attuale dibattito politico e sociale (approvazione del testo base della proposta di legge sul “Rifiuto di trattamenti sanitari e sulla liceità dell’eutanasia” da parte delle Commissioni Giustizia e Affari sociali della Camera in data 6 luglio 2021 [15]; raccolta di firme per il referendum che si pone come obbiettivo la modifica dell’articolo 579 del Codice Penale – omicidio del consenziente). Sebbene ci siano posizioni controverse sul ruolo delle CP nell’eutanasia e suicidio medicalmente assistito [16], vi è convergenza sul fatto che gli operatori che si occupano di CP non possono rinunciare alla continuità assistenziale, a un “accompagnamento” in coloro che fanno richiesta di eutanasia o suicidio assistito, perché il contrario sarebbe andare contro uno dei principi fondamentali delle CP, ovvero quello di non abbandonare il paziente sofferente, principio che ben si descrive nella frase di Cecily Saunders, personaggio fondamentale della storia delle CP: “You matter because you are you, and you matter to the end of your life” [17].

C’è un crescente impegno dei neurologi e di altre figure professionali che si occupano di sclerosi multipla, anche in Italia, a porre una attenzione sempre più impeccabile alla cura della disabilità nel rispetto delle preferenze delle persone malate, attraverso un modello di scelte condivise.

Nonostante questi presupposti, ancora i servizi di CP non sono, ad esempio, menzionati nella “Multiple Sclerosis Care Unit” [18] che prevede una variegata lista, multidisciplinare e multiprofessionale, di operatori sanitari coinvolti nell’assistenza alla persona con sclerosi multipla e ai suoi familiari/caregiver.

Nell’ottica di migliorare l’integrazione delle CP nella “Multiple Sclerosis Care Unit”, sono state proposte tre azioni fondamentali [19]. Una è quella della ricerca, che ci aiuta e ci aiuterà ulteriormente a far comprendere meglio alla comunità neurologica e agli altri stakeholder coinvolti nella cura delle persone con sclerosi multipla, la necessità di un forte investimento sulle CP in Neurologia. A questo riguardo, segnalo che lo studio italiano PeNSAMI, che ha valutato l’efficacia di un intervento domiciliare palliativo dispensato nell’arco di 6 mesi su malati con EDSS≥8 da parte di un team costituito da un medico (neurologo o fisiatra), un infermiere (case manager), uno psicologo e un assistente sociale, ha dimostrato la riduzione del carico di alcuni sintomi fisici [20] e il senso di isolamento [21]. Lo studio PeNSAMI ha evidenziato i limiti di un intervento tardivo, troppo breve e senza copertura per emergenze 24/24 ore, dimostrando che i pazienti e i loro cari hanno carenze informative, difficoltà a identificare i loro bisogni e sono preoccupati di affrontare la disabilità più della morte, portando alla luce la scarsità dei servizi assistenziali disponibili, l’eccesso di burocrazia, l’incapacità dei servizi esistenti di fare rete [21,22].

Ancora sul fronte ricerca, nel 2020 sono state pubblicate le linee guida della European Academy of Neurology (EAN) sulle CP per le persone affette da forme gravi di sclerosi multipla progressiva, che sono state sviluppate con il coinvolgimento di persone malate e dei loro caregiver [23]. Le linee guida della EAN suggeriscono che le CP siano offerte nei vari settingdi cura a persone con sclerosi multipla grave, tenendo conto delle preferenze del malato e delle sue condizioni sociali. Esse danno una serie di raccomandazioni sulla terapia della spasticità, della fatica, del dolore e dei problemi vescicali, sugli interventi per i caregivere sulla riabilitazione multidisciplinare, con prove di efficacia generalmente deboli (unica forte per l’efficacia sulla spasticità di nabiximols). Nessun dato risulta invece disponibile sui seguenti temi: advance care planning, discussione con gli operatori sanitari delle preferenze di anticipazione della morte, interventi formativi per gli operatori sanitari.

Altra linea di azione riguarda la formazione degli operatori sanitari in modo da introdurre e potenziare le competenze in CP, partendo dai temi della comunicazione, della condivisone delle scelte e del loro background di etica clinica, del lavoro di équipeinterdisciplinare tra le aree della neurologia, della medicina palliativa e della neuroriabilitazione; il percorso formativo deve ovviamente iniziare dalla formazione universitaria con programmi didattici più generali e propedeutici, per poi approfondirsi nelle tematiche più particolari nei corsi di formazione specialistica e nella formazione continua delle varie professionalità.

Infine, ma non ultima, l’azione a livello di consapevolezza pubblica. È fondamentale che la cultura della palliazione si faccia strada nella società italiana attraverso quei processi (empowerment/engagement) mediante i quali le persone, le organizzazioni e le comunità acquisiscono competenza sulle proprie vite, sulle malattie e sulle loro conseguenze, in modo da permettere la loro partecipazione nei processi decisionali che riguardano le scelte sulla propria salute e, più in generale, sull’organizzazione dei servizi sociosanitari.

Concludendo, l’integrazione delle CP (intese nell’approccio precoce e simultaneo) nelle attività dei Centri sclerosi multipla rappresenta una prassi euristica per cui si prevede una efficiente presa in carico assistenziale, eticamente fondata, della sclerosi multipla (e delle altre malattie correlate) lungo l’intera traiettoria di malattia.

Source: Fondazione Serono SM


Disturbi cognitivi nella sclerosi multipla: aspetti clinici e neuroradiologici: nuove opportunità terapeutiche

La sclerosi multipla è una malattia infiammatoria e demielinizzante del sistema nervoso centrale (SNC), caratterizzata da neurodegenerazione più evidente nei fenotipi progressivi. Il deterioramento cognitivo può svilupparsi in modo insidioso e progredire gradualmente. I deficit cognitivi sono associati a un aumentato rischio di futura disabilità neurologica. I neurologi hanno ora a disposizione test sensibili e di facile gestione per la valutazione della velocità di elaborazione cognitiva (VEC) e della memoria. I risultati di questi test sono associati a più parametri di risonanza magnetica (RM), tra cui demielinizzazione cronica della sostanza bianca, alterazioni infiammatorie acute e atrofia della sostanza grigia. Questi test possono essere applicati di routine per lo screening del deterioramento cognitivo, monitorare l’attività della malattia e valutare gli effetti del trattamento.

Profilo cognitivo e fenotipi

I deficit cognitivi possono manifestarsi nelle prime fasi della sclerosi multipla, anche in assenza di altri deficit neurologici [1]. Nella diagnosi del danno cognitivo bisognerebbe tener conto, oltre che di età e istruzione, anche delle comorbilità psichiatriche, degli effetti collaterali dei farmaci e dei sintomi della sclerosi multipla che potrebbero influire negativamente sulle prestazioni cognitive. In due ampi studi, i pazienti sono stati classificati come affetti da compromissione cognitiva se la loro prestazione era compromessa in quattro dei 31 test [2] o in due degli 11 test [3] in una batteria di test neuropsicologici multidominio. In base a questi test standard, la prevalenza del danno cognitivo negli adulti con sclerosi multipla varia dal 34% al 65%, variando in base al contesto di ricerca e al decorso della malattia [4-7]. Come tutti i sintomi della sclerosi multipla, il danno cognitivo è caratterizzato da un’elevata variabilità tra i pazienti. VEC, apprendimento e memoria sono più spesso coinvolti. Meno frequentemente sono riportati anche deficit della funzione esecutiva e dell’elaborazione visuospaziale [2]. Il linguaggio ,la memoria semantica e la capacità di attenzione sono raramente compromessi (circa il 10% dei pazienti) [2,3]. Tuttavia, alcuni studi suggeriscono che la fluidità semantica è più spesso compromessa di quanto si pensasse in precedenza, specialmente nei pazienti di età superiore a 50 anni [8-9]. Il deterioramento cognitivo si verifica in tutti i fenotipi di sclerosi multipla [4-9]: le stime sono del 30-45% nei pazienti con forma recidivante- remittente (RR) e del 50-75% nei pazienti con sclerosi multipla secondariamente progressiva (SP). La prevalenza nella malattia progressiva primaria (PP) varia notevolmente. Nei pazienti con sindrome radiologicamente isolata i difetti cognitivi possono precedere la comparsa di altri sintomi e neurologici e sono associati a lesioni del SNC alla RM. Nei pazienti con sindrome clinicamente isolata (CIS) o RR i profili neuropsicologici sono simili con un coinvolgimento importante della VEC, mentre nelle forme progressive della malattia sono più comuni la compromissione della memoria e la funzione esecutiva [4,10]. Questi risultati rafforzano l’idea che il deterioramento cognitivo possa essere una manifestazione precoce della malattia [11]. Nel 10% della popolazione malata, non solo la VEC e la memoria, ma anche l’intelligenza verbale possono essere colpite [12]. Numerosi studi [13] hanno notato una diminuzione del quoziente di intelligenza e delle abilità accademiche rispetto ai soggetti sani, suggerendo la necessità di una valutazione neuropsicologica, di un’istruzione speciale o di altri interventi correttivi.

Studi di RM

I primi studi di RM hanno mostrato che l’entità delle anomalie della sostanza bianca in T2 non spiegava completamente la gravità del deterioramento cognitivo nei pazienti con sclerosi multipla [15], poiché tecniche più specifiche come il trasferimento della magnetizzazione, indicavano un danno diffuso al tessuto cerebrale che appariva normale alla RM convenzionale pesata in T1 o T2 [16-19]. Altri miglioramenti nella tecnologia RM hanno fornito la visualizzazione di lesioni corticali [20], fortemente correlate con il declino cognitivo [21]. Delle misure volumetriche, il volume della materia grigia era correlato con le prestazioni cognitive in diversi studi incentrati sulla sostanza grigia (SG) profonda [22], corteccia temporale mesiale [23] e neocorteccia [24]. Il significato clinico del danno a livello profondo delle strutture della SG è stato ulteriormente stabilito studiando l’atrofia [25] e i cambiamenti di diffusività del talamo [26], che erano entrambi correlati indipendentemente con il deterioramento cognitivo. Oltre al talamo e alla SG corticale, il volume [27] e la funzione [28] dell’ippocampo sono alterati nei pazienti con sclerosi multipla e l’ippocampo è una sede tipica per le lesioni demielinizzanti [29]. Oltre al danno strutturale, gli studi si sono sempre più concentrati sulla connettività funzionale di strutture, come il talamo, l’ippocampo e la corteccia cerebrale, mediante l’uso della RM funzionale in stato di riposo. Questi studi hanno rilevato modelli di connettività alterati [30,31] in pazienti con sclerosi multipla che avevano un deterioramento cognitivo. All’inizio della malattia, un aumento della connettività può significare che le risorse neuronali stanno compensando la demielinizzazione e la perdita neuronale. Successivamente, una volta esaurite queste risorse di riserva, la connettività diminuisce e il deterioramento cognitivo è più evidente. Nel complesso, questi studi di RM funzionale indicano che il declino cognitivo è spiegato da una crescente destabilizzazione della fisiologia della rete cerebrale. Se questa destabilizzazione possa essere fermata o meno è un argomento di ricerca attiva. Le lesioni della sostanza bianca e il danno diffuso, così come le lesioni e l’atrofia della SG, insieme portano ai sintomi variabili del deterioramento cognitivo nei pazienti con sclerosi multipla. Tra le misure di RM che sono state studiate, l’atrofia della SG sembra essere il marker più affidabile e i pazienti con danni strutturali più gravi sono a maggior rischio di deterioramento cognitivo futuro [32].

Valutazione cognitiva

I neuropsicologi clinici hanno abbandonato le batterie di test lunghe e complete per i pazienti con sclerosi multipla a favore di test più mirati e sensibili, come il Symbol Digit Modalities Test (SDMT).

Monitoraggio della funzione cognitiva

Molti pazienti con sclerosi multipla hanno un declino cognitivo progressivo dovuto alla neurodegenerazione [34]. Il rallentamento graduale nei test VEC come il SDMT [35] è correlato a una perdita di volume della materia grigia (ad es., atrofia talamica) [36] ed è in parte mitigato dagli effetti della riserva cognitiva [37,38]. Il monitoraggio della disfunzione cognitiva in progressione è, quindi, un obiettivo per lo screening in ambito clinico.

Anche i deficit cognitivi sono un segno dell’attività acuta della malattia. I primi casi clinici e studi osservazionali non controllati [39-42] hanno suggerito che i cambiamenti acuti nella cognizione potrebbero significare una ricaduta. L’attività acuta della malattia può essere identificata dall’enhancement del gadolinio alla RM. Pardini e colleghi [43] hanno studiato retrospettivamente i pazienti sottoposti a SDMT e RM a intervalli di 6 mesi. I pazienti hanno avuto un potenziamento del gadolinio alla RM e sono parzialmente guariti al SDMT dopo follow-up di 6 mesi, suggerendo che il declino del SDMT è un marker significativo di malattia attiva. Alcune ricerche suggeriscono che la memoria diminuisca durante la ricaduta [44,45], sebbene solo il SDMT, che misura la VEC, mostri in modo affidabile una compromissione associata alla ricaduta in tutti gli studi.

Trattamento dei disturbi cognitivi

Generalmente terapie modificanti la malattia (DMD) di prima linea (ad es., interferone beta o glatiramer acetato) hanno dimostrato benefici rispetto al placebo relativamente al tasso di recidiva annualizzato e alla progressione della disabilità, e ancora più efficaci sono le nuove terapie (ad es., ozanimod). Non esistono farmaci approvati per il trattamento dei sintomi cognitivi nei pazienti con sclerosi multipla, sebbene la letteratura sia afflitta da limiti metodologici. In una revisione sistematica [46] la migliore evidenza è stata rilevata per fampiridina, con un singolo studio di classe I che ha mostrato un effetto transitorio sul SDMT [47], sebbene studi di classe inferiore su fampridina abbiano prodotto risultati inconsistenti [48].

Esistono ottime evidenze sugli interventi cognitivi nei pazienti con sclerosi multipla. Gli approcci riparativi si basano su un allenamento ripetitivo per funzioni cognitive mirate (ad es. velocità di elaborazione e memoria di lavoro), spesso tramite attività computerizzate [49] in ambienti clinici o a casa tramite formazione guidata a distanza (teleriabilitazione) [50].Sono stati riportati effetti da lievi a moderati per VEC, funzione esecutiva e memoria. Tuttavia, gli effetti sono diminuiti dopo l’allenamento, suggerendo la necessità di sessioni di richiamo per mantenere l’effetto positivo. Gli approcci riparativi hanno dimostrato che il miglioramento della cognizione (ad es., l’attenzione e la funzione esecutiva) è associato a cambiamenti nell’attivazione cerebrale e nella connettività [51], sollevando la questione se la risposta di un paziente alla riabilitazione cognitiva riparativa sia correlata alle sue capacità di riserva di base. Un lavoro preliminare ha suggerito che questa relazione potrebbe esistere. Il Brain HQ ha mostrato maggiori benefici sul SDMT nei pazienti con sclerosi multipla che avevano un’elevata riserva cognitiva.

Gli approcci compensatori enfatizzano la terapia comportamentale che viene somministrata da un terapeuta per individui o gruppi. La Story Memory Technique modificata, primo approccio compensatorio ad essere pubblicato [52] insegna tramite contesto e immagini, a migliorare la conservazione delle informazioni, fino a 6 mesi dopo il trattamento [52]. Dopo 5 settimane di allenamento, rispetto al placebo, i pazienti con compromissione della memoria hanno ottenuto un miglioramento da moderato a grande. Anche il funzionamento quotidiano auto-riferito e riferito dalla famiglia ha mostrato miglioramenti. Questo effetto del trattamento è stato associato ad una maggiore attivazione cerebrale e connettività funzionale nelle aree associate all’apprendimento e alla memoria [53]. Gli studi suggeriscono che sia l’approccio riparativo che quello compensatorio [54] siano utili anche nel decorso progressivo, sebbene, avendo i pazienti con malattia progressiva meno riserva cognitiva e volume di SG, potrebbero beneficiare meno di un approccio riparativo rispetto ai pazienti con sclerosi multipla recidivante remittente. Approcci combinati tra riabilitazione cognitiva e altri interventi, come la terapia cognitivo-comportamentale [55], la stimolazione transcranica a corrente continua [56] e l’esercizio aerobico [57],per massimizzare gli effetti, sebbene promettenti, richiedono ulteriori ricerche prima di essere pronti per la pratica clinica. Come singolo intervento, l’esercizio fisico sembrerebbe un approccio praticabile nei pazienti con sclerosi multipla, considerando i benefici cognitivi dell’attività fisica e dell’esercizio negli anziani sani. Le future direzioni per la ricerca sull’esercizio e sulla cognizione dovrebbero includere la valutazione, tramite neuroimaging, degli effetti degli interventi che potrebbero migliorare la cognizione.

Conclusioni

La compromissione cognitiva potrebbe verificarsi in pazienti con sclerosi multipla in assenza di altri segni neurologici o sintomi. La VEC deficitaria insieme ad alterazione dell’apprendimento e memoria sono associati agli elementi patologici fondamentali della sclerosi multipla. Più strettamente legati al deterioramento cognitivo sono l’atrofia regionale della sostanza grigia, l’interruzione della rete neurale e meccanismi compensatori legati alla riserva cognitiva povera, come mostrato dalla RM funzionale. L’accessibilità dei test neuropsicologici è aumentata notevolmente nell’ultimo decennio. Poiché i test diventano più comuni, i deficit cognitivi saranno sempre più apprezzati come un altro segno clinico di attività della malattia acuta o subacuta. Il SDMT è il test neuropsicologico più ampiamente raccomandato grazie alla sua sensibilità, affidabilità e validità predittiva nei pazienti con sclerosi multipla. Il SDMT potrebbe essere un biomarcatore di attività di malattia. Il dibattito continua su terapie farmacologiche sintomatiche, sebbene alcuni studi siano incoraggianti [47]. C’è una letteratura in crescita a sostenere gli effetti dell’allenamento cognitivo nei pazienti con sclerosi multipla. Considerando che l’atrofia della SG e l’interruzione della rete neurale si verificano precocemente nella sclerosi multipla, anche gli interventi per il deterioramento cognitivo dovrebbero essere applicati fin dall’inizio della malattia.

Source: Fondazione Serono SM


Algoritmi terapeutici nella sclerosi multipla

Negli ultimi anni si è assistito a un radicale cambiamento nello scenario terapeutico della sclerosi multipla. Le nuove conoscenze della malattia hanno infatti permesso lo sviluppo di nuovi farmaci, con diversi meccanismi d’azione, maggiore efficacia e diversa sicurezza e tollerabilità. Elementi cardini della gestione terapeutica della sclerosi multipla sono l’avvio di una terapia il più precocemente possibile e il costante monitoraggio clinico e radiologico, attraverso lo studio di risonanza magnetica nucleare (RMN), per valutare efficacia e sicurezza dei trattamenti. Attualmente sono approvati dagli enti regolatori più di 14 farmaci per il trattamento della sclerosi multipla e ciò rende particolarmente complessa la scelta terapeutica e problematica la gestione ottimale dei pazienti.

Di fronte a un panorama terapeutico così ampio e sempre in maggior espansione, il trattamento per la sclerosi multipla mira a diventare sempre più personalizzato e “a misura” del paziente. La scelta terapeutica non coinvolge solo il neurologo ma anche la persona affetta da sclerosi multipla, con i suoi stili di vita, le sue aspettative e le sue aspirazioni. I fattori da considerare quando si decide di avviare un trattamento o di effettuare un cambio di terapia (switching), in caso di assenza di riposta o risposta parziale ai farmaci, sono molteplici:

  • caratteristiche legate alla malattia: quadro clinico, fattori prognostici negativi, attività e gravità della malattia;
  • caratteristiche del paziente: patologie associate, stili e progetti di vita, desiderio di gravidanza, accettazione del rischio correlato all’impiego dei farmaci;
  • caratteristiche del farmaco: meccanismo d’azione, modalità di somministrazione, efficacia, necessità di monitoraggio, sicurezza nel breve e nel lungo termine, tollerabilità, disponibilità e costo.

Tra i fattori prognostici negativi ovvero che predicono un decorso sfavorevole della sclerosi multipla e la comparsa di una disabilità precoce, ritroviamo l’appartenere al sesso maschile, l’esordio polisintomatico (sintomi espressione del contemporaneo interessamento di diverse aree del sistema nervoso, come paresi e disturbi della vista oppure turbe dell’equilibrio, visione doppia e alterazioni della deambulazione), la persistenza di sintomi residui dopo una ricaduta di malattia, la ricorrenza delle riacutizzazioni cliniche in un breve intervallo di tempo e soprattutto la comparsa precoce di turbe motorie, come debolezza di uno o più arti, disturbi vescicali o deficit dell’eloquio.

Anche gli obiettivi che ci si propone con una determinata terapia sono cambiati: mentre prima venivano considerate solamente la prevenzione delle ricadute cliniche e la progressione della disabilità, si tende oggi sempre di più a raggiungere quella condizione di assenza di riacutizzazioni di malattia, assenza di progressione del deficit neurologico (disabilità) e assenza di nuove lesioni allo studio di RMN, che viene definita NEDA (no evidence of disease activity – assenza di attività di malattia).

Diversi possono essere d’altra parte i meccanismi di interazione dei farmaci con il sistema immunitario: si parla di immunomodulazione o immunosoppressione per farmaci che agiscono rispettivamente in maniera selettiva o globale sui complessi meccanismi immunologici che ci difendono dalle aggressioni da batteri, virus o sostanze chimiche ambientali o contribuiscono a mantenere quella tolleranza immunologica verso i propri costituenti dell’organismo (self tolerance), responsabile, in caso di disfunzione, della comparsa di malattie autoimmuni come la sclerosi multipla. A differenza dei farmaci immunomodulanti e immunosoppressivi, che devono essere somministrati cronicamente per raggiungere il controllo della risposta autoimmune e quindi la remissione della malattia, i trattamenti immunoricostituenti invece prevedono un uso limitato nel tempo di farmaci molto potenti, con l’effetto di eliminare in tutto o in parte le cellule del sistema immunitario, al fine di favorire un successivo ripopolamento di cellule nuove, che non aggrediscono il tessuto nervoso e la mielina in particolare, con effetti duraturi nel tempo, anche dopo la sospensione della terapia. Nella scelta dei trattamenti più appropriati, inoltre, un fattore da considerare è costituito dalla sequenza di utilizzo dei vari farmaci (sequencing), che deve tener conto dei possibili effetti tossici delle terapie e soprattutto dei possibili effetti negativi sul sistema immunitario, con effetto cumulativo e responsabili di gravi infezioni come la leucoencefalopatia multifocale progressiva (PML) o di un aumento del rischio di sviluppare neoplasie. Al fine di ridurre al minimo i rischi legati alla somministrazione di diversi farmaci in sequenza vengono adottate dal clinico idonee strategie di sospensione temporanea (wash-out) dei famaci, nel cambio da un trattamento all’altro. Dal punto di vista immunologico, infatti, bisogna considerare gli effetti dei vari farmaci sulle varie componenti del sistema immunitario, la durata di questi effetti, la dinamica del ripopolamento delle varie tipologie di cellule immunitarie dopo l’utilizzo di terapie in grado di sopprimere tutte o in parte le cellule del midollo osseo (linfociti, monociti, neutrofili), l’età dei pazienti (con l’avanzare dell’età il sistema immunitario diventa più vulnerabile e meno reattivo) e lo stato d’immunizzazione (ovvero la protezione anticorpale verso la maggior parte dei virus o agenti responsabili di gravi patologie, come per esempio il virus della varicella-zoster o la tubercolosi). In questo modo si riduce il rischio di possibili eventi avversi legati all’uso soprattutto cronico dei diversi trattamenti, al fine di non limitare l’utilizzo futuro di terapie alternative, la possibilità di combinare terapie (combination therapy) o aumentare la sicurezza (safety).

La modalità di approccio alla terapia più comune (approccio a scalare), soprattutto nei pazienti di nuova diagnosi, è quella di iniziare con un farmaco generalmente di tipo immunomodulante, più sicuro, per poi passare successivamente a uno più efficace (trattamenti di seconda e terza linea), in caso di mancata risposta terapeutica. Un approccio alternativo, per lo più indicato nei casi con decorso aggressivo di malattia, prevede l’utilizzo di terapie altamente efficaci ma con maggiori effetti collaterali, per un periodo limitato nel tempo, con benefici sostenuti nel lungo termine. Tale approccio può prevedere anche un mantenimento con una terapia con più elevato livello di sicurezza. Le diverse strategie di trattamento unitamente al diverso profilo di efficacia/sicurezza dei vari farmaci costituiscono strumenti utili per la gestione della terapia della persona affetta da sclerosi multipla, ma il processo decisionale resta comunque estremamente complesso, in particolare su quando e come iniziare il trattamento nei pazienti di nuova diagnosi e, soprattutto, quando attuare un cambio di terapia. I farmaci ad alta efficacia e ridotta sicurezza, di seconda e terza linea, oltre che essere utilizzati sin dall’inizio per quei pazienti che all’esordio della malattia mostrano un profilo di aggressività più evidente, con indicatori prognostici molto sfavorevoli, trovano impiego nei casi di switch terapeutico, nei pazienti che presentano una risposta parziale e non ottimale ai farmaci di prima linea e che hanno un rischio moderato-alto di progressione della disabilità oppure nei pazienti con forma recidivante-remittente di malattia che si avviano verso un progressivo peggioramento delle performance motorie (forma secondaria-progressiva di malattia), con evidenza di nuove lesioni allo studio di RMN; trovano indicazione anche nei pazienti recidivanti-remittenti che non hanno risposto a un farmaco di II o III linea differente e nelle forme progressive di malattia con evidenza ancora di ricadute di malattia o comparsa di ulteriori lesioni in RMN.

Conclusioni

Nonostante negli ultimi anni si sia registrata una forte accelerazione della ricerca sui meccanismi di sviluppo della sclerosi multipla, al punto di poter disporre oggi di un’ampia disponibilità di terapie innovative e di tante altre in fase avanzata di sperimentazione, l’ottimizzazione del percorso diagnostico e terapeutico delle persone affette dalla malattia rimane comunque un elemento chiave per poter ottenere il miglioramento della progressione della patologia, il miglioramento della qualità della vita dei pazienti e una gestione appropriata delle risorse del Sistema Sanitario Nazionale. Un modello di gestione che preveda la presa in carico della persona affetta da sclerosi multipla e l’intervento di diverse figure specialistiche (neurologi, infermieri, psicologi, terapisti della riabilitazione), in un’organizzazione strutturata di tipo multidisciplinare, contribuisce certamente al miglioramento della qualità della vita dei pazienti e dei familiari e favorisce la riduzione dei costi globali di gestione della malattia, in modo da sostenere l’innovazione terapeutica futura.

Consigli pratici

La sclerosi multipla rappresenta l’esempio paradigmatico di malattia complessa, per gli aspetti clinici e fisiopatologici. È caratterizzata da ricadute cliniche di malattia con esordio acuto e fasi di progressione cronica verso gradi di disabilità differenti da paziente a paziente. Nella gestione di questa malattia è importante definire, nei singoli casi, il momento più opportuno (timing) per iniziare o cambiare terapia Nella scelta terapeutica è importante una forte motivazione da parte della persona affetta da sclerosi multipla, derivante sia dalle evidenze cliniche che il neurologo avrà cura di esporre in maniera adeguata ed esaustiva sia dalla condivisione con lo stesso dell’intero percorso di cura, al fine di raggiungere una piena aderenza terapeutica.

Source: Fondazione Serono SM